Intervista al Professor Nicola Fazio (IEO), esperto internazionale di tumori neuroendocrini

“Tumori neuroendocrini, occorre conoscerli a fondo per poterli curare al meglio”

Intervista al Professor Nicola Fazio (IEO), esperto internazionale di questo cancro raro

“Non è possibile definire la prognosi di un paziente o stabilire quali saranno le cure sapendo solo che si tratta di un tumore neuroendocrino. Bisogna caratterizzare bene il tumore, definendone i vari aspetti e personalizzando il trattamento. Questa è la premessa alla base di qualsiasi ragionamento sui tumori neuroendocrini. Ed è auspicabile che ciò avvenga in un contesto dedicato alla patologia in questione.” Parola del Professor Nicola Fazio, Direttore della Divisione di Oncologia medica gastrointestinale e tumori neuroendocrini allo IEO – Istituto Europeo di Oncologia di Milano, e tra i principali esperti internazionali di questa forma di cancro raro. “Bisogna stare attenti a non cadere in luoghi comuni, non è vero, ad esempio, che siano sempre tumori indolenti o che non necessitino mai di chemioterapia; allo stesso tempo è vero che molti pazienti possono convivere a lungo con tumori neuroendocrini metastatici curandosi con varie terapie”, aggiunge Fazio.

Professor Fazio, ci può spiegare meglio questa patologia?

Sono un gruppo relativamente raro di tumori maligni che nascono dalle cellule neuroendocrine che sono sparse ovunque nel nostro organismo. è intuibile quindi che possano svilupparsi in molti organi. Il comportamento dei tumori neuroendocrini è molto vario: da lentissimi a velocissimi, e rispondono diversamente alle terapie.

Quali sono i principali sintomi dei tumori neuroendocrini gastroenteropancreatici?

I tumori neuroendocrini possono essere scoperti a causa di qualche sintomo, per lo più aspecifico, che porta a fare degli accertamenti. Purtroppo, non esiste un vero e proprio campanello d’allarme che possa con ragionevole certezza far diagnosticare un tumore neuroendocrino in fase iniziale. Anzi, molte volte si parla di piccoli tumori neuroendocrini (meno di 2 cm) scoperti senza alcun sintomo, in genere nel pancreas, nel retto o nello stomaco, mentre ci si sottopone a esami per altre ragioni. Purtroppo, la diagnosi cosiddetta “incidentale”, cioè posta in assenza di qualsiasi sintomo, può riguardare anche un tumore neuroendocrino che è cresciuto molto e ha dato metastasi, senza aver mai dato segno di sé.

Quanto è diffusa questa tipologia di tumore in Italia?

I dati epidemiologici ufficiali italiani dell’AIRTUM, l’Associazione italiana registro tumori, sono riferiti al 2015. Venivano stimati circa 2700 nuovi casi di pazienti con tumore neuroendocrino: siamo nel gruppo dei tumori rari, per quanto l’incidenza sia in aumento nel corso degli ultimi vent’anni. La fascia di età più colpita è quella oltre i 65 anni.

Che tipo di cure si attuano contro questo tipo di tumori e quali sono le speranze di guarigione soprattutto a fronte di una diagnosi precoce? 

Un tumore neuroendocrino a basso grado di malignità, ossia a diffusione relativamente lenta, diagnosticato precocemente può essere asportato chirurgicamente e il paziente ha buone probabilità di guarigione. D’altro canto, anche quando il tumore è avanzato, ha dato metastasi e non è asportabile chirurgicamente in maniera radicale, con le cure mediche continuative, come le cure ormonali, farmaci mirati su alcuni bersagli molecolari, radioterapie mirate ai recettori della somatostatina e chemioterapia, il paziente può convivere bene e a lungo con la malattia e le terapie. Questo messaggio è particolarmente importante: c’è la possibilità di curarsi, anche per chi ha perso l’attimo dell’intervento chirurgico. In quel caso l’obiettivo delle cure è di permettere al paziente di vivere, piuttosto che di sopravvivere, portando avanti attivamente la sua vita personale, professionale, coniugale e relazionale.

Biografia Professor Nicola Fazio

58 anni, laureato in Medicina e Chirurgia, si è specializzato in Medicina Interna e Oncologia, Dottore di ricerca in Oncologia Digestiva presso l’Università La Sapienza di Roma. Attualmente è Direttore della Divisione di Oncologia Medica Gastrointestinale e Tumori Neuroendocrini e Direttore del Programma Tumori Digestivi e Neuroendocrini presso l’istituto Europeo di Oncologia di Milano (IEO), dove lavora dal 1995.

“Sei anni intensi da Presidente. Lascio Assidai in buona salute”

Dopo due mandati e la dura prova della pandemia Tiziano Neviani saluta gli iscritti

Dopo due mandati come Presidente, penso di poter dire che lascio Assidai in buona salute, guardando i numeri del Fondo e la crescita degli iscritti. Sono stati sei anni intensi, inframmezzati dalla pandemia: quest’ultima ha messo a dura prova tutto il Paese e anche la nostra struttura che tuttavia ha retto, continuando a offrire servizi e coperture agli iscritti anche in pieno lockdown. Del resto, ci tengo a ricordarlo, Assidai, è un Fondo di assistenza sanitaria gestito con i più sani principi di mutualità e solidarietà: non prevede nel proprio Statuto e Regolamento alcuna esclusione del rischio pandemia e, dunque, tutte le garanzie previste dai Piani Sanitari sono completamente operanti anche a seguito di una diagnosi di Covid-19.

Sotto la mia presidenza, Assidai ha apportato importanti cambiamenti anche in merito ai partner assicurativi a cui ricorriamo per l’adempimento dei nostri scopi istituzionali. Dal 2018 abbiamo scelto quanto di meglio offerto dal settore attraverso Allianz e Generali, rispettivamente leader mondiale e italiana del mercato assicurativo. Nel 2021 in collaborazione con Federmanager abbiamo intrapreso un passaggio fondamentale e per certi versi storico:  in linea con l’impostazione strategica e  innovativa prevista dall’ultimo rinnovo del CCNL Dirigenti Industria, siglato da Confindustria e Federmanager nel luglio 2019, Industria Welfare Salute (IWS) è divenuto il provider esclusivo del Fondo perché raffigura una realtà nuova nel panorama della sanità integrativa italiana, rappresentando un progetto condiviso da Confindustria e Federmanager insieme al Fasi. L’obiettivo di IWS è quello di proporsi come società di sistema al servizio di Fondi e Casse Sanitarie, Assidai e Fasi in primis, fornendo servizi innovativi nel campo della sanità integrativa e delle tutele per la non autosufficienza. Un cambiamento importante, che sancisce una forte partnership tra Fasi e Assidai e che gradualmente sta dando i suoi frutti, permettendoci di offrire nuove soluzioni alle aziende industriali italiane, gestire un cospicuo patrimonio d’informazioni e offrire servizi sempre più soddisfacenti agli iscritti. Inoltre, vorrei ricordare gli investimenti importanti sul digitale, che hanno visto nel corso degli anni un grande lavoro sul sito assidai.it, il raggiungimento di una maggiore efficienza dei sistemi informativi sul gestionale e sull’area riservata dedicata a iscritti e aziende, lo sviluppo sui social network e molto altro ancora.

Ad Assidai ho dedicato sei anni della mia vita e vi ho trovato ottimi collaboratori a tutti i livelli: grandi lavoratori capaci anche di gestire i rapporti umani. Non posso dunque che conservare un grande affetto, nella mente e nel cuore, verso tutti loro, a partire dal Direttore Generale Marco Rossetti. Non nascondo di lasciare con un po’ di tristezza, visto che ero molto affezionato ad Assidai, ma sono ben consapevole che le regole, da me condivise a pieno, prevedono al massimo due mandati. Una cosa, però, è sicura: per quello che ho vissuto continuerò a dedicare particolare attenzione e supporto ad Assidai nel ruolo di membro di Giunta Federmanager.

Per concludere, un sentito e doveroso ringraziamento agli iscritti e alla struttura per questi sei anni che non dimenticherò e un augurio di buon lavoro al nuovo Presidente e al nuovo Cda.

Intervista al Professor Martini, Professore Onorario di Otorinolaringoiatria dell’Università degli Studi di Padova

“Prevenzione e screening fattori chiave”

Intervista al Professor Martini, grande esperto italiano sulla sordità: “L’esposizione a rumori di intensità elevata è prima causa di problemi uditivi”.

“Al di là dei fattori genetici o infettivi, l’esposizione a rumori di intensità elevata è la principale causa dei problemi legati alla funzione uditiva”. A dirlo è il Professor Alessandro Martini, già Ordinario di Otorinolaringoiatria dell’Università degli Studi di Padova e uno dei principali esperti in questo campo. Al proposito, continua, “vorrei citare una tesi di dottorato all’Università di Anversa, incentrata sull’acufene indotto da rumore negli adolescenti e pubblicata su riviste di peso internazionale”. Laddove l’acufene, va ricordato, è la percezione di un rumore avvertito nelle orecchie o nella testa in assenza di uno stimolo acustico esterno.

Come si è svolta questa ricerca e con che risultati? Quanto pesa, in generale, l’esposizione a musica a volumi elevati?

Su un campione di 4 mila studenti tra i 14 e i 17 anni il 18,3% aveva un acufene permanente e di intensità importante. Il 30% di loro suonava strumenti musicali e il 60% usava riproduttori musicali. Praticamente tutti andavano a concerti o discoteche, dove il 70% di loro trovava il livello di rumore adeguato e l’80% non utilizzava protettori acustici. Il risultato di tutto ciò erano lesioni alle cellule cigliate dell’orecchio interno anche se l’esame audiometrico classico risultava normale. Chi ha questi danni oggi, a 40 anni manifesterà difficoltà uditive, magari al lavoro negli open space. è questo il senso dell’ultimo allarme lanciato dall’Oms. Per questo serve un’adeguata prevenzione.

Quale dovrebbe essere un percorso di prevenzione corretto?

Occorrono lo screening neonatale, e quello scolastico. Poi è molto importante quello in età avanzata, visti i forti legami tra sordità o ipoacusia e deficit cognitivo, con il rischio di Alzheimer che aumenta anche di cinque volte. La stessa ipoacusia, secondo gli esperti, è la prima causa di demenza. Infine, per i 40-50 enni il discorso è semplice: alla comparsa del minimo fastidio come necessità di farsi ripetere le cose dette, bisogna farsi immediatamente visitare ed è importante un esame audiometrico accurato, possibilmente utilizzando le parole oltre ai suoni. La maggior parte dei problemi uditivi si risolve con una terapia medica, anche perché l’acufene può avere altre cause, ad esempio un disturbo mandibolare. Se invece il danno è nell’organo sensoriale bisogna intervenire con urgenza; in caso di problemi del timpano o degli ossicini si può intervenire anche chirurgicamente; solo nel caso di difficoltà uditive importanti si ri- corre a un apparecchio acustico.

Qual è invece il peso della genetica nei problemi di udito?

Vanno distinte due situazioni: alcuni geni sono causa di sordità anche grave già alla nascita e quindi è essenziale venga effettuato uno screening della funzione uditiva a tutti i neonati perché bisogna agire con tempestività per evitare problemi di sviluppo del linguaggio; successivamente molti geni giocano un ruolo di predisposizione sia all’esposizione ai rumori, sia all’invecchiamento.

Alessandro Martini è Professore Onorario di Otorinolaringoiatria dell’Università degli Studi di Padova, già direttore del dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Padova. È considerato uno dei principali esperti italiani sulla genetica della sordità e conta oltre 400 pubblicazioni.

L’Oms lancia l’allarme globale sull’udito: i giovani a rischio sono più di 1 miliardo

I deficit uditivi portano conseguenze negative su istruzione e mondo del lavoro

Oltre 1 miliardo di persone nel mondo di età compresa tra i 12 e i 35 anni rischia di perdere l’udito a causa dell’esposizione prolungata a musica e ad altri suoni ad alto volume. A lanciare l’allarme, in occasione della Giornata mondiale dell’udito tenutasi lo scorso 3 marzo, è stata l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) che ha anche evidenziato come i deficit uditivi comportano conseguenze sull’istruzione e sul mondo del lavoro, riducendo notevolmente le prospettive di occupazione. Si tratta, insomma, di una questione urgente che riguarda tutto il pianeta: un’emergenza che va affrontata il prima possibile con una serie di misure di intervento e prevenzione.

I numeri parlano chiaro: oggi circa il 5% della popolazione mondiale convive con una perdita uditiva, in Italia si parla di circa 7 milioni di persone, ovvero il 12% del Paese. Solo un italiano su 3 (per la precisione il 31%) ha effettuato un controllo dell’udito negli ultimi 5 anni, mentre il 54% non l’ha mai fatto. Inoltre, soltanto il 25% di coloro che potrebbero averne beneficio utilizza l’apparecchio acustico, nonostante l’87% di chi ne fa uso dichiari migliorata la propria qualità di vita.

A fronte di questa situazione l’Oms ha prodotto sei raccomandazioni chiave, rivolte ai gestori di attività, per evitare che i problemi di udito possano diventare ancora più diffusi e gravi. Innanzitutto, non superare mai un livello sonoro medio massimo di 100 decibel e monitorare in tempo reale i livelli sonori mediante apparecchiature opportunamente calibrate. Altri aspetti cruciali sono l’ottimizzazione dell’acustica del locale e dei sistemi audio e la messa a disposizione al pubblico di dispositivi di protezione personale dell’udito. Inoltre, vanno garantite la possibilità di accesso a zone tranquille per far riposare le orecchie e la formazione del personale.

Alle singole persone, infine, l’Oms consiglia di mantenere basso il volume dei dispositivi audio personali, di utilizzare cuffie o auricolari ben adattati e, se possibile, in grado di eliminare il rumore, di indossare i tappi per le orecchie nei luoghi rumorosi e di sottoporsi a regolari controlli dell’udito.

Salute e occupazione in primo piano

Il punto di vista di Stefano Cuzzilla, Presidente Federmanager

Attribuiamo da sempre rilevanza primaria alla salute dei manager, anche nell’ambito delle nostre attività finalizzate a rispondere alle difficoltà occupazionali che vengono avvertite.

In Italia rileviamo circa 10 mila manager inoccupati, pur essendo alta la domanda di managerialità qualificata, come testimonia un dato: il 48,4% delle aziende trova difficile reperire le competenze manageriali di cui ha bisogno. Questo mismatch deve essere colmato. Ecco perché attraverso 4.Manager, da noi costituita con Confindustria, abbiamo lanciato “Rinascita manageriale”: un progetto che prevede lo stanziamento di 4 milioni di euro per sostenere imprese che ingaggino un manager inoccupato, sotto forma di rimborso spese per le fasi di assessment delle esigenze aziendali e di ricerca e selezione del personale.

Le assunzioni dovranno interessare quattro settori strategici: innovazione e digitalizzazione, sostenibilità, organizzazione del lavoro post-Covid ed export. Una particolarità del progetto è che, oltre ai rimborsi spese previsti (fino a 30 mila euro per un manager assunto a tempo indeterminato e fino a 15 mila per un manager assunto a tempo determinato o con contratto senza vincolo di subordinazione), alle aziende beneficiarie offriamo anche percorsi formativi, informazioni su incentivi pubblici e il rimborso per un anno della quota per l’assistenza sanitaria Fasi del dirigente (prolungato a due, se il manager è donna).

Un segnale importante che testimonia, una volta di più, la nostra attenzione al welfare, con particolare riguardo per la salute che è il bene più prezioso.

Bocconi: “Anche i giovani attenti alla LTC”

L’Osservatorio Cergas rivela che più di uno su due è pronto a organizzarsi in anticipo per far fronte al rischio di non autosufficienza, ma il sistema delle Rsa continua a vivere difficoltà.

Il rischio di non autosufficienza inizia a essere preso in considerazione già da giovani e organizzarsi per tempo diventa sempre più una priorità. È quanto emerge dalla quarta edizione del Rapporto Osservatorio Long Term Care del Cergas-Bocconi: un appuntamento fisso, ormai, che tuttavia questa volta ha coinvolto anche soggetti giovani, con un’età media di 37 anni, per studiare la loro percezione di questi temi e del settore Long Term Care.

I risultati? Il 54% del campione esaminato è pronto a organizzarsi in anticipo per far fronte al rischio di non autosufficienza e ad adottare misure di prevenzione. Punti di riferimento per tutto ciò sono il mondo della sanità e il passaparola. Un cambiamento di prospettiva e di atteggiamento degli italiani che, dal punto di vista organizzativo – sottolineano gli autori dello studio – dovrebbe essere da stimolo per iniziare a pensare a servizi di prevenzione e di ingaggio precoce capaci sia di rispondere a questi nuovi bisogni delle persone, sia di alleggerire il sistema di welfare pubblico e di dare maggiore spazio di mercato al settore privato.

long term care bocconi giovani

Il Rapporto, inoltre, scatta la consueta fotografia del settore dell’assistenza agli anziani in Italia e mette in luce la scarsità di figure centrali nella cura e nell’assistenza. Nelle Rsa del nostro Paese – si aggiunge – mancano infatti all’appello il 26% degli infermieri, il 18% dei medici e il 13% degli operatori socio sanitari a causa di una carenza strutturale di figure professionali e di una competizione tra settore sanitario e socio-sanitario nell’attrarre nuove leve. Ciò rischia di tradursi in una possibile compromissione dei servizi e della crescita del settore. Inoltre, il 100% dei gestori delle Rsa esaminate dichiara di vivere una situazione critica nella gestione delle persone già impiegate a causa della carenza di personale a livello italiano (94%), della motivazione (56%) e dei casi di esaurimento emotivo (38%).

I soggetti promotori del Rapporto sottolineano infine che ci sono alcune direttrici su cui è importante muoversi per garantire un’assistenza efficace a coloro che ne hanno bisogno e per alleggerire la pressione sul settore Long Term Care. Tutto ciò testimonia la necessità di ripensare e supportare il sistema e, in questo senso, è importante anche il ricorso da parte dei gestori a partner di valore che possano supportarli nella gestione di costi-consumi e servizi.

Lo Stato torna protagonista ma servirà un aiuto

Il rapporto sul secondo welfare: “Aziende e terzo settore cruciali per ripartire dopo la pandemia”

Nell’era pandemica lo Stato sembra tornato protagonista dell’arena del welfare, mettendo in campo risorse e competenze tali da tirare a sé le fila di ambiti di intervento che per anni erano rimasti ai margini della sua azione. Al contempo, tuttavia, appare chiaro che gli attori del secondo welfare – come aziende, fondazioni, sindacati, associazioni datoriali, consorzi, enti non profit e gruppi informali di cittadini – sono diventati sempre più importanti per rispondere a rischi e bisogni sociali.

È questo, in estrema sintesi, il quadro che emerge dal Quinto Rapporto sul secondo welfare, intitolato “Il ritorno dello Stato sociale? Mercato, Terzo Settore e comunità oltre la pandemia”, presentato recentemente da Percorsi di secondo welfare, Laboratorio di ricerca legato al Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano. L’edizione di quest’anno cade in un momento cruciale per il Paese, in cui “la pandemia sta cambiando nel profondo gli assetti del welfare italiano”, si osserva. In altre parole, “la diffusione del Covid ha rafforzato diversi problemi strutturali del nostro Stato sociale, ha imposto sfide che richiedono risposte sempre più complesse e, apparentemente, ha mutato le dinamiche che da circa un decennio caratterizzano i rapporti tra pubblico e privati”. Anche per questo, si aggiunge, “solo grazie a un’azione sinergica con gli attori del secondo welfare il pubblico sarà in grado di sostenere questo rinnovato ruolo e reggere l’urto della pandemia”.

In particolare, proprio il secondo welfare “ha consentito e promosso un riposizionamento dei confini del welfare tra pubblico e privato, da una parte, e nazionale-locale, dall’altra”, laddove sul primo fronte – si legge nel rapporto – “particolarmente rilevanti sono stati ad esempio l’attività dei fondi sanitari integrativi e le nuove opportunità di sviluppo del welfare aziendale promosse dai contratti collettivi nazionali”.

L’Italia e i principali Paesi europei, con sistemi di welfare inclusivi e generosi, sostenuti rapidamente e a più riprese da interventi straordinari rivolti alle categorie più vulnerabili, – conclude lo studio – sembrano aver retto l’urto della crisi pandemica meglio di altre parti del mondo. Tuttavia, nel mentre, è apparso più chiaro che il modello europeo necessita di essere rinnovato: i rischi tradizionali (in primis la vecchiaia, una lunga fase di vita che dai 65 anni si estende fino oltre gli 85 anni per un numero crescente di persone) non generano più, automaticamente, bisogni, mentre quelli collegati ai nuovi rischi di salute pubblica, alle nuove vulnerabilità o quelli derivanti dalla transizione climatica e tecnologica non sono ancora adeguatamente protetti.

Secondo lo studio sono stati particolarmente rilevanti l’attività dei fondi sanitari integrativi e le nuove opportunità di sviluppo del welfare aziendale promosse dai contratti collettivi nazionali.

Anche il welfare aziendale è pronto a ripartire

Dopo la pandemia il welfare aziendale è pronto a ripartire. Il Quinto Rapporto sul secondo welfare sottolinea come “l’attenzione delle imprese, delle parti sociali e dei decisori pubblici verso il welfare aziendale rimane elevata”, anche se “la crisi economica e produttiva connessa con il Covid ha portato ad una progressiva riduzione nella contrattazione di misure e benefit”. Tuttavia, secondo gli autori dello studio, si tratta di una “parentesi temporanea” e nel corso dei prossimi anni “l’intervento delle imprese tornerà a crescere”.

ripartenza welfare aziendale

Come già mostrato dalla crisi economica iniziata nel 2008, infatti, il welfare aziendale è uno strumento che tende a diffondersi soprattutto a seguito di momenti di difficoltà, in particolare per il fatto che si tratta di interventi che hanno un vantaggio sia per l’impresa (in termini fiscali) sia per i lavoratori (in termini economici e di benessere). È quindi plausibile – si conclude – che, al termine della crisi pandemica, nel corso dei prossimi mesi, assisteremo ad un rinnovato sviluppo di questa materia a livello contrattuale e non. Inoltre, “il welfare aziendale tenderà a rafforzare il suo ruolo di supporto del sistema di welfare pubblico”.

Intervista al Dr. Luigi Cavanna, Direttore del Dipartimento di Oncologia ed Ematologia dell’ASL di Piacenza e Presidente CIPOMO

“La soluzione? Medicina territoriale”

Intervista al dottor Luigi Cavanna, celebrato dal settimanale “Time” per le cure domiciliari ai malati di Covid. “Solo così si evitano il blocco degli ospedali e gli effetti negativi per oncologia e cardiologia”

Il prestigioso settimanale statunitense “Time” gli ha dedicato una copertina, definendo il dottor Luigi Cavanna uno degli eroi che hanno lottato in prima linea contro il Covid, curando i contagiati a casa loro grazie a una task force territoriale. Un cambio di prospettiva, rispetto al trattamento ospedaliero, che interpreta perfettamente una delle maggiori convinzioni del direttore del Dipartimento di Oncologia ed Ematologia dell’ASL di Piacenza dal 2004. Ovvero: “Sviluppare sempre più una medicina territoriale, che sia più umana e meno costosa e che, durante la pandemia avrebbe permesso agli ospedali di dare lo spazio adeguato anche ai malati non Covid. Oggi, per fortuna, si ha la sensazione di un graduale ritorno alla normalità”.

luigi cavanna time

Che effetto ha avuto il Covid in questi due anni a livello di mancate attività diagnostiche e interventi chirurgici nel settore oncologico?

Se gli ospedali si riempiono di malati Covid resta poco spazio per gli altri pazienti. Ma al di là di questo tema, per i malati oncologici ci sono altri due punti critici: la chiusura degli screening e soprattutto degli esami diagnostici per i sintomatici e il blocco delle terapie intensive, visto che spesso se non ci sono posti in rianimazione gli interventi vengono procrastinati. Il tumore è una malattia tempo-dipendente e la guarigione completa può avvenire solo se si interviene tempestivamente, prima dell’insorgere di metastasi.

Lei è anche presidente del Cipomo, il Collegio Italiano dei Primari Oncologi Medici Ospedalieri. Recentemente avete inviato una lettera aperta sul tema delle cure mancate. Che riscontri avete ricevuto?

Favorevoli, da esperti e istituzioni. La mia sensazione, condivisa con altri professionisti, è stata che dopo la prima e la seconda ondata il Paese non abbia pensato a una strategia per curare il Covid anche fuori dall’ospedale.

Ci sono stati impatti anche a livello di screening e di prevenzione primaria contro le cronicità?

Certo. Fermo il fatto che alimentazione equilibrata e attività fisica quotidiana sono capisaldi della lotta alle cronicità, il lockdown ha spinto diverse persone a mangiare di più e a muoversi meno. E ne vedremo le conseguenze tra qualche tempo. Sugli screening, nel 2021 si è in parte recuperato, ma purtroppo sempre più persone scoprono tumori in fase avanzata per il calo del 2020.

Quali sono gli altri settori medici che hanno pagato l’effetto Covid a livello di mancate cure?

Cardiologia e neurologia: alcuni malati mostravano maggiori resistenze a recarsi in ospedale per paura di contrarre il Covid e arrivare in ritardo su un infarto o un ictus può avere conseguenze gravissime.

Quali sono le soluzioni per rimediare a questa emergenza e che lezione dovrebbero trarre i policy makers per migliorare la sanità pubblica?

Il nostro Servizio Sanitario Nazionale e il nostro welfare hanno poco da invidiare a quelli di altri Paesi, si prendono cura di tutti e il sistema di assistenza cerca di continuare a funzionare nonostante le dinamiche demografiche. Siamo un Paese di persone anziane: per fortuna si vive più a lungo, ma al contempo aumentano le cronicità a partire da malattie cardiovascolari e tumori. Alla luce di ciò, lo sviluppo della medicina territoriale, più umana e meno costosa, è assolutamente necessario: si spende meno per un ricovero, le persone non perdono una giornata di lavoro per andare in un ospedale lontano e anche gli anziani riescono a spostarsi per le cure in modo autonomo. È un qualcosa che abbiamo sviluppato con successo, nella zona di Piacenza, per l’oncologia.

Il Dr. Luigi Cavanna, laureato in Medicina e Chirurgia, ha quattro specializzazioni (ematologia, medicina interna, oncologia, gastroenterologia). Primario dal 1994, è Direttore del Dipartimento di Oncologia ed Ematologia dell’ASL di Piacenza dal 2004. Da maggio 2021 è Presidente del Collegio Italiano dei Primari Oncologi Medici Ospedalieri (CIPOMO).

Il Covid e due anni di cure mancate tra oncologia, chirurgia e diagnostica

Le attività sanitarie non legate al virus sono state rinviate a causa dei contagi

Stop ai ricoveri, alla diagnostica, agli esami di screening (e più in generale alla prevenzione) e alle operazioni. Dalla chirurgia all’oncologia, dalla terapia intensiva alla traumatologia per arrivare agli infermieri e alle ambulanze, negli ultimi due anni le ondate della pandemia – non ultima quella dell’inverno che sta per concludersi – hanno purtroppo costretto al rinvio delle cure i pazienti “non Covid” che necessitavano di prestazioni ordinarie ma anche chi aveva bisogno di interventi improvvisi per un infarto o un trauma. Questo perché a causa dei contagi, delle rianimazioni in sofferenza e del personale che scarseggiava, sono state sempre di più le Regioni che hanno sospeso cure ed esami non legati al virus.

Il Covid ha lasciato dietro a sé una drammatica scia di decessi, causando inoltre un costo complessivo per il Paese – secondo le ultime stime – di circa 24 miliardi di euro tra vaccini, acquisti di materiali e servizi e assunzioni di personale da parte del Commissario straordinario per l’emergenza e delle Regioni. Tuttavia, se è vero che il Servizio Sanitario Nazionale, anche grazie a questi investimenti monstre, è riuscito a reggere l’urto della pandemia, le conseguenze delle mancate cure per migliaia di cittadini rischiano di avere effetti negativi sul presente e anche sul futuro.

Le criticità e i ritardi hanno riguardato soprattutto i settori della chirurgia e dell’oncologia, dove diversi interventi non urgenti sono stati rinviati. Proprio in ambito oncologico l’ultimo allarme in ordine di tempo è arrivato dal dottor Luigi Cavanna, al quale dedichiamo un’intervista ad hoc in questo numero di Welfare 24.

Allarme Aiom: per i tumori 1 milione di diagnosi in meno da inizio pandemia

Ripetuti richiami alla gravità della situazione sono arrivati anche dagli anestetisti e dai rianimatori, che ogni giorno sono in trincea nelle terapie intensive: le rianimazioni non Covid, ridotte nella loro capacità di letti e personale, sono finite sotto pressione per far fronte a traumi, infarti e ictus e patologie acute non Covid (come l’insufficienza respiratoria acuta); senza dimenticare i pazienti post-operatori complessi e gravi.Inoltre, da non sottovalutare, c’è tutto il tema della mancata prevenzione e della diagnosi.

Secondo un recente studio dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom), in tutta Europa le diagnosi mancate di tumore ammontano a 1 milione dall’inizio della pandemia. È poi previsto un incremento del numero di nuovi casi che potrebbero crescere del 21% entro il 2040. Le interruzioni delle visite mediche, registrate nel 2020-21, avranno inoltre conseguenze soprattutto in termini di neoplasie individuate a uno stadio più avanzato. Senza dimenticare, evidenziano gli oncologi, che la costante emergenza sanitaria del Covid continua ad avere effetti negativi nel lungo periodo sui vari sistemi sanitari, distogliendo risorse umane ed economiche da altri ambiti medico-scientifici a partire dalla prevenzione, primaria e secondaria, che è il principale strumento a nostra disposizione per abbattere la mortalità legata alle malattie croniche.

Un piano anti contaminanti negli alimentari

È stato lanciato per il 2022 dal Ministero della Salute: ecco le indicazioni alle Regioni  per effettuare i controlli in tutte le fasi di produzione e tutelare il consumatore finale

Un Piano nazionale di controllo e indicazioni per le attività di monitoraggio dei contaminanti di origine ambientale e industriale nei prodotti alimentari per il 2022.

Il progetto, a cura del Ministero della Salute, è stato approvato dal Coordinamento interregionale e ha due principali obiettivi. Innanzitutto, programmare le attività volte alla verifica della conformità alla normativa e alla raccolta di dati per valutare l’esposizione del consumatore. In secondo luogo, fornire indicazioni alle Autorità delle Regioni e delle Province autonome sulla pianificazione del controllo ufficiale dei “contaminanti” nei prodotti alimentari, a partire dal campionamento nelle fasi di produzione, trasformazione e distribuzione. Laddove per contaminanti si intendono quelli disciplinati a livello Ue e per i quali sono definiti tenori massimi di tollerabilità: melamina, oligoelementi e metalli, contaminanti da processo (per esempio idrocarburi), diossine e perclorato.

Insomma, questo piano del Ministero della Salute è finalizzato a disegnare il giusto inquadramento e le regole più corrette affinché il consumatore sia esposto il meno possibile al contatto con sostanze nocive nei prodotti alimentari. Può sembrare una cosa scontata, ma così non è se il Ministero stesso vi ha dedicato uno specifico rapporto, che fornisce anche indicazioni sulla pianificazione di attività sistematiche di ricerca, raccolta, confronto e analisi di informazioni e dati, ai fini dell’individuazione di rischi emergenti dovuti a contaminanti.

piano anticontaminanti alimentari assidaiOgni Regione, in particolare, deve elaborare un Piano di controllo ufficiale sulla presenza dei contaminanti nei prodotti alimentari per il 2022, tenendo conto, per quanto riguarda le attività di campionamento e analisi, delle indicazioni riportate nel Piano nazionale. Non solo: andranno tenuti in considerazione i dati sui controlli precedenti, le allerte sanitarie e le non conformità degli ultimi anni, i prodotti alimentari di particolare interesse produttivo a livello territoriale e i dati relativi all’esposizione della popolazione a specifici contaminanti. Infine, il controllo dovrà essere a 360 gradi: “il prelievo dei campioni – sottolinea il Ministero della Salute – deve essere effettuato in tutte le fasi della produzione, inclusa quella primaria, della trasformazione, della distribuzione dei prodotti alimentari intesi sia come ingredienti sia come prodotti finiti, ivi compresa l’importazione”.