Parkinson, migliorare la vita dei pazienti. Dai farmaci del futuro la possibile svolta

Intervista al Prof. Piero Cortelli sul morbo di Parkinson: “Chi è malato mantenga attività fisica e socialità”.

Intervista al Professor Cortelli: “Chi è malato mantenga attività fisica e socialità” 

“Il fattore di rischio più rilevante per il Parkinson è l’età e oggi l’unica prevenzione possibile è quella primaria: non abbiamo farmaci che frenano l’evoluzione della malattia, ma alcuni studi che hanno questa ambizione e di cui ci aspettiamo i risultati tra fine anno e inizio 2025. Per ora possiamo contare su terapie sintomatiche che migliorano la qualità di vita dei pazienti. Questo il pensiero di Pietro Cortelli, Professore ordinario al Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie dell’Università di Bologna, nonché Direttore operativo dell’Irccs Istituto delle Scienze Neurologiche della città felsinea, che di recente ha realizzato un intervento potenzialmente rivoluzionario: ha impiantato in un paziente di Parkinson un dispositivo di ultimissima generazione, ricaricabile con un sistema bluetooth, finalizzato a inviare una stimolazione elettrica a determinate aree del cervello in modo sempre più preciso. In questo modo il paziente stesso ha visto lenito il tremore a un braccio derivante dalla malattia, tornando così a una vita quasi normale.  

“I sintomi? Tremori di riposo e impaccio”  

Gli ultimi numeri dicono che il Parkinson colpisce l’1% della popolazione italiana sopra i 65 anni, circa 300mila casi: cifre che diventano molto più grandi su scala europea e mondiale. Come diffusione è la seconda malattia neurodegenerativa, ma non vedo un trend crescente in sé, piuttosto c’è un aumento dei casi dettato dall’invecchiamento della popolazione, dato che l’età è il principale fattore di rischio.  

 

Professor Cortelli, giovedì 11 aprile è stata celebrata la Giornata Mondiale del Parkinson. Qual è il suo valore anche alla luce degli ultimi numeri sulla diffusione di questa malattia in Italia e nel mondo? 

È una giornata importante perché è dei pazienti e ricorda a tutte le persone quanto sia fondamentale dedicarsi ad assistenza e ricerca. è un percorso che permette di chiarire cosa sia questa malattia che sta acquisendo una dimensione notevole anche in Italia, e alla cui definizione sta partecipando anche la Fondazione Limpe, di cui sono stato Presidente alcuni anni fa.   

Quali sono le cause e i principali sintomi del Parkinson? 

Oggi come oggi non c’è una causa precisa del Parkinson, se non il fatto che i neuroni di una parte del cervello che producono dopamina sono più vulnerabili di altri a causa di fattori genetici e ambientali, quindi un mix di cause piuttosto che una causa singola. Qualche rara forma di Parkinson è causata da specifiche alterazioni genetiche, ma in questo caso insorge prima dei 40 anni. I sintomi invece sono tremori di riposo, lentezza nei movimenti e impaccio: compaiono sempre da un lato del corpo e poi tendono ad aggravarsi con velocità diverse da individuo a individuo. Tuttavia, questa malattia non va identificata solo con problemi del controllo motorio, ma anche con altri disturbi che possono comparire prima, come un deficit di olfatto o il rallentamento delle funzioni intestinali o l’agire ciò che si sogna. Poi ci sono i deficit cognitivi, motivazionali e di memoria, di cui soffre il 60% dei pazienti che hanno una durata della malattia molto lunga.    

Che tipo di prevenzione si può effettuare contro questa malattia e quanto è importante una diagnosi precoce? 

Vale la prevenzione generale: astenersi dal fumo, avere un’alimentazione sana e praticare attività fisica regolare, tutte cose che riducono i fattori di rischio cardiovascolari e l’impatto su cuore e cervello. Una prevenzione specifica per il Parkinson non c’è e non abbiamo terapie che ne modifichino o rallentino l’evoluzione. Ci sono molti studi in corso su farmaci che hanno questa ambizione e da cui si attendono i risultati tra fine 2024 e inizio 2025: se avremo questi strumenti, la diagnosi precoce sarà molto importante.  

Diversi studi sottolineano l’importanza di praticare attività fisica per i pazienti. Perché?  

Svolgere attività fisica non competitiva tutti i giorni produce salute, così come avere buone relazioni, leggere e mantenere i propri interessi. A maggior ragione per i malati di Parkinson che devono evitare di chiudersi in casa senza compagnia. Dobbiamo occuparci della qualità della vita dei pazienti a tutto tondo, con centri sportivi di attività fisica e cognitiva cruciali per migliorare anche l’efficacia delle terapie. In questo il ruolo del privato può essere importante: a Bologna sta nascendo un’ottima collaborazione con un centro nel quale si fanno interagire i pazienti con i cavalli, non tanto per cavalcare ma per gestire e imparare a seguire questi animali che a loro volta sono capaci di passare emozioni positive agli esseri umani.  

Di recente l’Irccs di Bologna da lei guidato ha installato un rivoluzionario microchip che ha lenito il tremore a un malato di Parkinson. Ci racconta come siete arrivati a questa scoperta e che prospettive di cura apre per il futuro?  

Premessa: è uscito sul mercato un nuovo stimolatore che permette, oltre che di stimolare, anche di registrare l’attività delle cellule nervose con cui sono in contatto. Noi siamo stati i primi a impiantare questo stimolatore su un paziente grazie a un team di specialisti, mettendo a punto un percorso di regolazione dello stimolatore basato su molti parametri con quindi aumentata probabilità di ottenere la migliore stimolazione possibile. Il neurostimolatore posizionato sotto la clavicola, attraverso due elettrodi di 1,5 mm, stimola e registra l’attività del nucleo subtalamico, la cui inibizione permette un migliore controllo dei sintomi motori del Parkinson.  

Pietro Cortelli   

Nato a Bologna, è Professore ordinario al Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie, nonché direttore operativo dell’IRCCS Istituto delle Scienze Neurologiche della città felsinea. É un esperto di livello internazionale sulle malattie neurodegenerative, con particolare focus – tra l’altro – sul Parkinson e sulla demenza. Dal Settembre 2018 al 2021 è stato membro del Comitato Tecnico Scientifico settore Ricerca Scientifica del Ministero della Salute, mentre dal 2018 al 2020 è stato presidente della Fondazione Limpe. 

 

Welfare aziendale, crescita continua

Lo rivela il Settimo Rapporto Censis-Eudaimon: “è conosciuto dall’82% degli italiani e l’84% di chi ne usufruisce vorrebbe potenziarlo”.

L’importanza del “benessere”

Il 93,7% dei lavoratori e delle lavoratrici occupati in Italia considera molto importante il benessere e la felicità quotidiana, da “coltivare” dedicando più tempo a sé stessi e alla propria famiglia. Il 67,7% degli occupati, in futuro, vorrebbe ridurre il tempo dedicato al lavoro. Ancora più importante: l’81,8% sa cos’è il welfare aziendale (nel 2018 era il 60,2%), che è molto apprezzato e desiderato, visto che tra i beneficiari l’84,3% lo vorrebbe potenziato. Ecco i principali risultati del Settimo Rapporto Censis-Eudaimon sul Welfare Aziendale: uno studio da cui emerge molta più attenzione a implicazioni e aspetti che soltanto pochi anni fa erano poco considerati quando si parlava di lavoro. Parliamo di concetti come conciliazione dei tempi, welfare, benefit, felicità, benessere: oggi sono ormai centrali per chi lavora, talvolta anche più di stipendio e stabilità lavorativa.  

Un focus importante che emerge dal Rapporto è quello sul welfare aziendale.  

Come detto, lo conoscono sempre più lavoratori, per la precisione l’81,8% degli occupati sa cos’è (il 32,7% in modo preciso e il 49,1% a grandi linee), una percentuale in netta crescita rispetto al 2018, quando gli incentivi introdotti progressivamente dal Governo hanno favorito la crescita di questo settore nel Paese. Non solo: lo stesso welfare aziendale è molto apprezzato e desiderato, poiché tra i lavoratori che ne beneficiano l’84,3% lo vorrebbe potenziato, e tra coloro che non se ne avvalgono l’83,8% vorrebbe fosse introdotto nella propria azienda. Inoltre, il 79,5% degli occupati apprezzerebbe un aumento retributivo sotto forma di una o più prestazioni di welfare: a dirlo sono ben il 94,2% dei dirigenti (in pratica la quasi totalità), il 78,2% degli impiegati e il 74,8% degli operai. Per riassumere, conclude il report del Censis, il welfare aziendale può diventare uno degli strumenti migliori per trattenere o attrarre le risorse: un concetto, questo, ormai ben chiaro a tutte le principali aziende italiane. 

Anche perché c’è un altro dato da non sottovalutare: il 93,7% dei lavoratori e delle lavoratrici occupati in Italia considera molto importante il benessere e la felicità quotidiana. In questo senso, l’82,8% del campione del Censis si è dichiarato più attento rispetto al passato al suo benessere psicofisico, alla sua salute, alla gestione dello stress e alle relazioni. 

Glaucoma, fondamentale la prevenzione

È la seconda causa di cecità al mondo, ma progredisce in maniera asintomatica e quando i sintomi si manifestano rischia di essere troppo tardi. L’importanza della prevenzione

Il glaucoma è la seconda causa di cecità al mondo. Secondo il “World Report on Vision” 2019 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sono circa 64 milioni le persone nel mondo affette da glaucoma. Tra queste, 7 milioni hanno manifestato perdita della vista o cecità. Bastano questi numeri per spiegare il senso della “Settimana mondiale del glaucoma”, che si è tenuta dal 10 al 16 marzo. Il titolo scelto per quest’anno dall’Agenzia internazionale per la prevenzione della cecità (IAPB Italia Onlus) è stato: “Glaucoma, il problema è che non vedi il problema”. Un gioco di parole che riassume perfettamente la natura e i rischi di questa patologia: il glaucoma, infatti, è una malattia degli occhi che progredisce in maniera asintomatica. Quando ce ne accorgiamo è troppo tardi. Ecco perché la prevenzione si rivela fondamentale.

Il report del progetto Vista in Salute dell’Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità – come riportato dal Ministero della Salute – stima che più o meno la metà del milione di persone affette da glaucoma nel nostro Paese non ne sia consapevole. Infatti, gran parte della popolazione non sa esattamente di cosa si tratti, né soprattutto del grave rischio di perdita della vista che ne consegue. Del resto, questa malattia dà sintomi solo in fase avanzata, quando i danni causati non sono più riparabili. Per poterlo curare è necessario riconoscerlo quando i sintomi non si sono ancora manifestati.

Il glaucoma è una malattia cronica degenerativa che interessa quasi sempre entrambi gli occhi e colpisce il nervo ottico. Solo in alcuni casi può manifestarsi in forma acuta, con violento dolore all’occhio, nausea, forte irritazione e con pressione oculare molto elevata. Quasi sempre questa patologia è dovuta a un aumento della pressione interna dell’occhio che causa, nel tempo, danni permanenti alla vista che sono accompagnati da riduzione del campo visivo (si restringe lo spazio che l’occhio riesce a percepire senza muovere la testa) e alterazione della “testa” del nervo ottico (visibile all’esame del fondo oculare).

Ecco perché, come detto, la prevenzione è cruciale: una semplice visita oculistica può aiutare a diagnosticare un glaucoma in fase iniziale o ancora non avanzata. È necessario, quindi, sottoporsi con regolarità a controlli oculistici, specialmente in presenza di fattori di rischio quali l’età (dopo i quarant’anni) o di presenza di casi in famiglia.

Celiachia, salgono le diagnosi in Italia

Con quasi 252mila casi nel 2022 si torna ai livelli del 2019: a dirlo l’ultima Relazione al Parlamento preparata dal Ministero della Salute su questa patologia. Il Ministro Schillaci: “Importante la prevenzione”

Dopo una contrazione rilevante, il saldo delle diagnosi di celiachia torna a salire e si riporta ai livelli del 2019. A dirlo è l’ultima Relazione al Parlamento su questa patologia, realizzata dal Ministero della Salute, pubblicata nelle scorse settimane e riferita al 2022. Dai dati si evince infatti che, in Italia, erano stati diagnosticati 251.939 celiaci, di cui il 70% (176.054) appartenenti alla popolazione femminile e il restante 30% (75.885) a quella maschile. La prevalenza media nazionale è dello 0,43% – femminile allo 0,58%, maschile allo 0,26% – mentre le Regioni (o province autonome) con i numeri più elevati sono Trento, Toscana e Valle D’Aosta, tutte con lo 0,54 %. Per quanto riguarda invece le fasce di età, per ben il 67%, ricade tra 18 ai 59 anni.

Fin qui si parla ovviamente dei casi “accertati”, ma la realtà purtroppo è ben diversa. La celiachia, che ricordiamo è un’enteropatia infiammatoria di natura autoimmune scatenata dall’ingestione di glutine (complesso proteico presente in molti cereali, come orzo, frumento e segale) in soggetti geneticamente predisposti, si stima abbia una prevalenza nella popolazione italiana intorno all’1% per un numero di casi attorno ai 600mila: il problema è dunque che oltre la metà di coloro che soffre di questa patologia non lo ha ancora scoperto o accertato.

È bene sottolineare che nei soggetti celiaci mangiare glutine scatena una risposta immunitaria che colpisce l’intestino tenue. Il persistere di questa risposta produce un’infiammazione che danneggia le strutture fondamentali dell’intestino stesso, i villi intestinali, causandone un appiattimento e di conseguenza un’incapacità di assorbire i nutrienti. Il danno intestinale può causare perdita di peso, gonfiore e talvolta diarrea. Il malassorbimento in particolare di vitamine e oligoelementi può causare danni a diversi organi, tra cui sistema nervoso, osso, apparato riproduttivo, sistema sanguigno. Non esiste una cura specifica per la celiachia, l’unico trattamento efficace consiste nella rigorosa eliminazione del glutine della dieta.

In Italia – ricorda il Ministro della Salute, Orazio Schillaci, nell’introduzione alla Relazione al Parlamento – la dieta del celiaco è in quota parte finanziata dal Servizio Sanitario Nazionale per l’erogazione gratuita dei prodotti senza glutine. Inoltre, aggiunge, “la celiachia in Italia è riconosciuta anche come malattia sociale poiché condiziona il normale inserimento nella vita di gruppo tanto da comprometterne alle volte l’osservanza della dieta. Per prevenire il più possibile situazioni di disagio e agevolare l’accesso sicuro ai servizi di ristorazione collettiva è previsto un ulteriore contributo annuale che le Regioni possono investire per implementare iniziative di formazione per gli operatori del settore alimentare e per consentire l’adeguamento delle mense annesse alle strutture pubbliche”. Infine, il tema della prevenzione, che ha un valore chiave anche in questo frangente: “Per la celiachia ad oggi non esiste una cura, ma le complicanze di una diagnosi tardiva restano importanti per cui nel 2023 il Parlamento italiano ha deciso di investire sulla prevenzione sviluppando un programma di screening nazionale per la popolazione pediatrica”, conclude il Ministro.

Il buon lavoro

Il punto di vista di Stefano Cuzzilla, Presidente Federmanager

Molti fattori concorrono allo stare bene in azienda: dal clima aziendale al senso di appartenenza a un’organizzazione, passando dal welfare e in particolare dai servizi per la salute. Avere un buon lavoro, oggi, non significa solo avere una posizione sociale riconosciuta e un buon reddito, ma anche essere impegnati in un’attività conciliabile con le proprie esigenze e le aspirazioni personali. Le azioni per la salute e il welfare risultano tra i filoni di intervento più apprezzati da lavoratrici e lavoratori e non è un caso che rappresentino il nuovo terreno di sfida delle aziende per motivare chi già è impiegato a restare e per attrarre nuovi lavoratori. La connessione tra nuovi bisogni e sviluppi del welfare aziendale è confermata dal 5° rapporto sul Welfare occupazionale e aziendale in Italia, in cui si evidenzia che uno dei rischi incombenti di maggior rilievo, per effetto della curva demografica, è dato dalla copertura della non autosufficienza e dalle conseguenze di una vita più lunga. Anche i giovani manifestano un’attenzione significativa alle politiche organizzative orientate al benessere e al welfare in azienda. Questa nuova interpretazione del senso attribuito al lavoro ha rappresentato per me la spinta per scrivere, insieme a Manuela Perrone, il libro “Il buon lavoro. Benessere e cura delle persone nelle imprese italiane”, edito da Luiss University Press per la collana Bellissima, uscito recentemente nelle librerie. Un saggio mi auguro utile per riflettere sul cambiamento in atto.

Digiuno intermittente e metabolismo

Secondo i suoi sostenitori, tra cui Franco Berrino, migliora il funzionamento del nostro corpo, “che si libera del superfluo” e aiuta a prevenire le malattie croniche

Astenersi da cibo e bevande per 16-18 ore (saltando la cena) o di 24 ore (saltando pranzo e cena) o di 36 ore (saltando colazione, pranzo o cena) consente alle cellule di attivare l’autofagia, un processo con cui esse si liberano di organelli e proteine malfunzionanti che è meglio smaltire, insomma un’occasione per fare decluttering, ossia liberarsi del superfluo, ovvero di tutto quello che non serve per la vita”.

Così nel libro “La via della leggerezza” il medico ed epidemiologo italiano, Franco Berrino, descrive il cosiddetto digiuno intermittente, di cui è sostenitore, in particolare per alcune categorie (adulti in sovrappeso) insieme ad altri esperti di alimentazione. Il motivo? Secondo Berrino è presto detto: al di là del famoso adagio “colazione da re, pranzo da signore e cena da povero”, più studi hanno dimostrato che una colazione abbondante e una cena leggera prevengono la sindrome metabolica e l’associata resistenza insulinica. E, come sappiamo, la sindrome metabolica è associata a un maggior rischio di diabete, infarto, cancro, steatosi e cirrosi epatica, broncopatie croniche e anche malattie neurodegenerative. Proprio contro queste ultime, secondo Berrino, il digiuno intermittente sarebbe un’ottima forma di prevenzione.

Una cosa è certa: prima di iniziare qualsiasi forma di digiuno intermittente è bene rivolgersi a un medico o a uno specialista. Per esempio, secondo gli esperti, è sconsigliato a bambini, adolescenti, donne in gravidanza, a chi soffre di gravi patologie e a chi è sottopeso. Discordanti, invece, i pareri sugli anziani.

Detto questo, esistono diversi approcci al digiuno intermittente che si basano sulla scelta di mangiare o digiunare in determinati periodi di tempo.

Programma Nazionale Equità Salute

L’iniziativa punta a supportare l’organizzazione regionale e locale dei servizi sanitari e socio-sanitari in sette Regioni italiane caratterizzate da maggiori difficoltà. Il ruolo di sostegno dei fondi europei

Contrastare la povertà sanitaria, prendersi cura della salute mentale, porre il genere al centro delle cure, assicurare una maggiore copertura degli screening oncologici. Sono queste le quattro aree in cui il Programma Nazionale Equità nella Salute, lanciato di recente dal Ministero della Salute, individua le priorità d’intervento, ovvero dove risulta “necessaria un’iniziativa nazionale a supporto dell’organizzazione regionale e locale dei servizi sanitari e socio-sanitari”. Il Programma, va ricordato, persegue l’Obiettivo di Policy 4, previsto dal Regolamento (Ue) 2021/1060, di “un’Europa più sociale e inclusiva attraverso l’attuazione del Pilastro europeo dei diritti sociali”. Più in particolare, l’obiettivo dell’iniziativa è rafforzare i servizi sanitari e renderne più equo l’accesso in sette Regioni: Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia. In queste Regioni si registrano infatti, rispetto al resto del Paese, minori livelli di soddisfacimento degli standard definiti a livello nazionale (LEA, Livelli Essenziali di Assistenza) e maggiori difficoltà finanziarie e organizzative nella gestione del servizio sanitario.

Per perseguire la promozione, il mantenimento e il recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione è necessario sia che i servizi sanitari garantiscano la qualità delle prestazioni erogate (azioni di sistema) sia che l’organizzazione sanitaria includa attivamente le fasce più vulnerabili della popolazione, che subiscono più frequentemente e gravemente gli effetti delle barriere di accesso economiche, sociali e culturali.

 

Le verifiche sull’attuazione

Il Programma sarà soggetto a verifiche periodiche sul suo iter. Infatti, secondo l’articolo 16 del Regolamento (Ue) 2021/1060, ciascun Stato membro istituisce un quadro di riferimento dell’efficacia dell’attuazione che prevede la sorveglianza, la rendicontazione e la valutazione della performance di un Programma durante la sua attuazione e contribuisce a misurare la performance generale dei fondi. Tale quadro di riferimento consta di: indicatori di output (che misurano il prodotto dell’attività svolta nell’attuazione dell’intervento) e di risultato (relativi invece ai vantaggi/svantaggi di chi ha beneficiato degli interventi stessi), entrambi collegati a obiettivi specifici stabiliti nei regolamenti europei. Inoltre, gli indicatori di output avranno un target intermedio da centrare entro fine 2024 e uno finale entro il 31 dicembre 2029, gli indicatori di risultato dovranno essere raggiunti entro il 31 dicembre 2029. Laddove i target intermedi e i target finali – va sottolineato – sono stabiliti in relazione a ciascun obiettivo specifico nell’ambito di un programma e permettono alla Commissione e agli Stati membri di misurare i progressi compiuti verso il conseguimento degli obiettivi specifici medesimi.

 

Le risorse finanziarie

Il Programma Nazionale Equità nella Salute 2021-2027 ha una dotazione finanziaria di 625 milioni di euro, comprensiva della quota di Assistenza Tecnica (AT) pari a 23,7 milioni di euro, di risorse Ue e nazionali. Essendo un Programma plurifondo, è sostenuto dal Fondo Sociale Europeo Plus (FSE+) e dal Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR). Per riassumere, la dotazione finanziaria del Programma vede 185,9 milioni di euro destinati all’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e il contrasto delle malattie della Povertà (Inmp) in qualità di Organismo intermedio designato all’attuazione degli interventi relativi all’area “Contrastare la povertà sanitaria”. Altri 405,7 milioni sono suddivisi tra le sette Regioni destinatarie (Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia) secondo la modalità di riparto basata sulla quota di accesso al Fondo Sanitario Nazionale 2022.

Infine, rimangono in capo al Ministero della salute gli interventi previsti nelle Priorità di Assistenza tecnica di importo complessivo pari a euro 23,75 milioni nonché quelli di adeguamento delle competenze del personale (5,12 milioni) e le iniziative di comunicazione, sensibilizzazione e informazione (4,5 milioni).

Allergie, in Italia solo il 2% si vaccina

Nel nostro Paese e a livello mondiale sono sempre più diffuse e rappresentano una voce di spesa rilevante del Servizio Sanitario Nazionale

Per le persone allergiche il vaccino ad hoc può essere un salvavita, ma su 6 milioni di italiani che potrebbero usufruirne – su un totale di 12 milioni – solo il 2% opta per la somministrazione, anche a causa della mancata rimborsabilità in varie Regioni. Un paradosso, affermano gli allergologici, che espone ad alti rischi e determina un costo notevole per il Servizio Sanitario Nazionale (circa l’1-2% della spesa sanitaria complessiva). Per questo, in occasione dell’ultimo congresso della Società Italiana di Allergologia, Asma e Immunologia Clinica (Siaaic) a Bologna, gli specialisti hanno chiesto che il problema sanitario delle allergie, oggi banalizzato, diventi una priorità nell’agenda politica.

In Italia l’immunoterapia specifica, ovvero il vaccino, resta dunque una chimera per milioni di pazienti, sebbene nelle linee guida internazionali venga indicata come la migliore terapia per un allergico su due sia per le allergie respiratorie sia per quelle alle punture d’insetto. è infatti l’unico trattamento in grado di fermare l’escalation di sintomi infiammatori che porta all’asma, una condizione che nel nostro Paese, nei casi più gravi, causa quasi 300 vittime ogni anno. Anche a livello globale il trend è in aumento: secondo l’Oms sono circa 350 milioni le persone al mondo soggette ad allergie respiratorie. La previsione è che entro il 2050 quasi la metà della popolazione soffrirà di qualche forma di allergia, complici il cambiamento climatico e l’inquinamento. Nel nostro Paese circa il 10% degli under 14 soffre di asma e l’80% di questi è allergico.

L’immunoterapia allergene specifica, ovvero il vaccino, è “una terapia desensibilizzante che può davvero cambiare il decorso della malattia – ha spiegato Mario Di Gioacchino, Presidente Siaaic – e consiste in dosi progressivamente crescenti dell’allergene verso cui il paziente è sensibilizzato. In tal modo si sviluppa una attiva tolleranza immunitaria, con produzione di anticorpi protettivi verso l’allergene. Tale effetto si mantiene per molti anni dopo la sospensione del trattamento, che dura 3-4 anni”.

A limitare l’impiego dei vaccini sono molteplici ragioni. “Certamente il problema dei costi, nelle Regioni nelle quali il trattamento è a totale carico dei pazienti, rappresenta un forte ostacolo – ha dichiara il Presidente Di Gioacchino – A causa della mancanza di una legislazione che regoli la rimborsabilità in modo uniforme, la situazione è a macchia di leopardo. La decisione se erogare e in che misura i vaccini dipende dalle Regioni, con un’inaccettabile difformità di trattamento di una malattia cronica la cui cura dovrebbe essere inserita invece nei Lea”.

Osteoporosi, prevenzione fondamentale. L’Italia rappresenta un modello nel mondo

Intervista alla Professoressa Maria Luisa Brandi: “Servono calcio, attività fisica e luce solare”

La prevenzione è fondamentale contro l’osteoporosi: tutti devono adottare stili di vita corretti e i soggetti più fragili devono assumere i farmaci adeguati. A dirlo è la Professoressa Maria Luisa Brandi, tra i massimi esperti in tema di malattie dello scheletro, nonché promotrice, attraverso il suo ruolo di Presidente di Fondazione Italiana Ricerca sulle Malattie dell’Osso (FIRMO), di un’attiva campagna di sensibilizzazione su queste patologie, troppo poco note eppure capillarmente diffuse.

Lo scorso 20 ottobre è stata celebrata la Giornata Mondiale dell’Osteoporosi nel cui ambito lei ha coordinato il progetto mondiale “Capture the Fracture”. Che obiettivo ha questa giornata e che valore particolare ha avuto quest’anno?

La Giornata Mondiale dell’Osteoporosi (World Osteoporosis Day) viene celebrata ogni anno nel mondo sotto il coordinamento della International Osteoporosis Foundation (IFO). Quest’anno la giornata è stata dedicata al tema fratture da fragilità e loro prevenzione. La Fondazione FIRMO, che io ho l’onore di presiedere dal 2006, accompagna IOF in questo percorso di comunicazione in Italia e lo fa da 16 anni. Io ho poi l’onore di fare parte del board IOF e di coordinare per il mondo il progetto di IOF noto come “Capture the Fracture”. L’Italia è certamente ai livelli più alti a livello internazionale per la cura delle fratture da fragilità.

 

Quali sono i numeri e il trend della diffusione dell’osteoporosi in Italia e nel mondo? E quali sono le principali cause?

Parliamo di centinaia di milioni di persone nel mondo e di oltre 4 milioni solo nel nostro Paese. Le forme più frequenti di osteoporosi sono le due involutive, note come postmenopausale e senile. Ma esiste una grande famiglia di cosiddette osteoporosi secondarie, dato che praticamente tutte le malattie e molti farmaci causano perdita di massa ossea. Per i primi ricordiamo le malattie neuromuscolari, reumatologiche, da malassorbimento ed endocrinologiche; per le seconde vanno sottolineati i cortisonici, i farmaci antiormonali e gli antiepilettici.

Qual è l’importanza della prevenzione primaria e secondaria per l’osteoporosi? In quest’ottica, quanto pesano sul SSN le diagnosi tardive?

La prevenzione primaria è fondamentale e si compone di tre cardini: introdurre le quantità raccomandate di calcio per età, fare attività fisica con regolarità, esporsi 30 minuti al giorno alla luce solare. La prevenzione è raccomandata a tutti e se non applicata crea problemi di fragilità ossea a ogni età. La prevenzione secondaria, che va effettuata nei pazienti più fragili e senz’altro nei pazienti che si sono fratturati o spontaneamente o per un trauma minore, prevede l’uso di farmaci antifratturativi, sia antiriassorbitivi, sia anabolici, sia veri e propri bone builder, che non solo bloccano la perdita di osso, ma ne favoriscono la formazione. Oggi è più costoso non trattare il paziente fragile che trattarlo, visto che i farmaci possono dimezzare le fratture da fragilità e alla fine le fratture costano più della terapia farmacologica.

Quali sono i principali segnali di allarme a cui prestare attenzione per l’osteoporosi e da quale età bisogna effettuare esami di controllo?

La diagnosi di osteoporosi oggi può essere fatta con le macchine a raggi X DEXA e più recentemente anche con la tecnica ecografica REMS. Entrambe ci permettono di ricevere un punteggio chiamato T-score. E’ importante comunque effettuare anche una valutazione dei marcatori di metabolismo osseo che ci aiutano a scoprire le osteoporosi secondarie.

L’Italia è stato il primo Paese al mondo a pubblicare le linee guida sulle Fratture da Fragilità. Che valore ha questo primato?

Questo oggi ci permette di avere un riconoscimento dal resto del mondo che usa il nostro modello per adattarlo al proprio. Una grande soddisfazione per il gruppo di lavoro che ha costruito le linee guida sotto la guida dell’Istituto Superiore di Sanità.

Negli ultimi anni le cure contro l’osteoporosi sono migliorate? E ci sono prospettive di consistenti miglioramenti nei prossimi anni?

Abbiamo importanti molecole innovative, quali il romosozumab un vero e proprio bone builder, in grado di inibire contemporaneamente il riassorbimento osseo mentre stimola la formazione da parte degli osteoblasti. I farmaci per l’osteoporosi esistono ormai da trenta anni e tutti per essere registrati per l’osteoporosi devono prevenire le fratture vertebrali con una potenza che va dal 30 al 70%. Le fratture da fragilità sono l’evento cronico più prevedibile oggi. Eppure, noi trattiamo soltanto il 20% dei pazienti più fragili, quelli già fratturati che per AIFA dovrebbero essere tutti rimborsati. La continuità assistenziale del paziente fragile è il vero problema e su questo si sta lavorando per costruire percorsi che permettano che questo avvenga, i cosiddetti Fracture Liaison Services che sono parte del progetto “Capture the Fracture” nel mondo e di un progetto della Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia noto come progetto Accredita.

 

Maria Luisa Brandi

Professoressa Ordinaria di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo presso l’Università di Firenze, dove coordina il Master Universitario di II livello di Malattie Metaboliche dell’Osso dal Gene alla Cura. È responsabile del Centro Regionale di Riferimento su tumori endocrini ereditari, e Direttore dell’Unità operativa di Malattie del metabolismo minerale e osseo. Ha insegnato alle università di Georgetown e Charlottesville negli Usa e alla Royal London School of Medicine di Londra. Dal 2006 presiede Firmo, Fondazione italiana ricerca sulle malattie dell’osso. È autrice di 100 libri, in tema di endocrinologia cellulare e molecolare e di oltre 500 pubblicazioni.

Fringe benefit, nuove regole per le esenzioni

Con la Manovra di fine anno cambiano nuovamente le soglie: 2mila euro per i lavoratori  con figli e 1000 euro per tutti gli altri.  Il nuovo regime allargato anche a spese per l’affitto e interessi sul mutuo prima casa.  

“Il Governo torna a intervenire sul fronte dei fringe benefit. Con l’ultima Manovra, approvata a fine dicembre, è cambiata nuovamente la soglia di esenzione dei compensi in forma non monetaria (beni in natura e servizi non monetari come macchina o telefono aziendale) concessi dalle imprese ai dipendenti.

L’effetto dell’intervento? Innanzitutto, rispetto alla situazione precedente si riduce il gap tra i lavoratori con figli e chi invece non ne ha. L’esenzione fiscale sui fringe benefit, che si potranno usare anche per pagare affitto e mutuo prima casa, sarà infatti di 1000 euro per tutti (invece di 258,23 euro) mentre scende dai 3mila dell’anno scorso a 2 mila per i lavoratori con figli. Viene quindi prevista, limitatamente al periodo d’imposta 2024, una disciplina più favorevole per venire incontro alle esigenze dei lavoratori: tra le categorie interessate rientrano lavoratori subordinati, lavoratori a progetto e co.co.co.  

 

Allargata la platea dei beneficiari 

Per essere ancora più chiari, è dunque prevista per l’intera platea di beneficiari dell’agevolazione, a prescindere dai figli a carico, la possibilità di fruire in regime di esenzione non solo di beni e servizi, ma anche di somme di denaro per l’anticipo o il rimborso delle utenze domestiche, delle spese per l’affitto e degli interessi sul mutuo della prima casa. L’inclusione di queste ultime categorie di spesa agevolabili è la vera portata innovativa, sottolinea a tal proposito Il Sole 24 Ore, che tuttavia precisa come “sarà auspicabile un intervento chiarificatore dell’amministrazione finanziaria, per guidare gli operatori nella corretta applicazione della nuova disposizione”. Questo perché “potrà essere necessario chiarire quali voci includere nelle spese per l’affitto. Data la formula generica della norma – prosegue il quotidiano – vi potrebbero entrare tutte quelle connesse alla locazione, come le spese per le imposte di registro e di bollo, la tassa sui rifiuti e le spese condominiali, oltre alle spese per le utenze domestiche, intestate al conduttore o riaddebitate allo stesso in modo analitico o forfettario dal proprietario”. 

 

Il valore per il welfare aziendale 

Già l’anno scorso, con il Decreto Lavoro, approvato in estate e convertito successivamente in Legge, l’esecutivo aveva introdotto come detto alcune variazioni sulla normativa dei fringe benefit, finalizzate a incentivare il potere d’acquisto e ridurre il cuneo fiscale. Variazioni che sono state “aggiornate” dalle disposizioni contenute in Manovra e che, in buona sostanza, contribuiscono alla crescita e al consolidamento del welfare aziendale, ormai un elemento sempre più centrale, in Italia e nelle aziende tricolori, per vivere e rafforzare il rapporto tra datore di lavoro e dipendente su nuove basi, imperniate sulla condivisione, sulla collaborazione e sul cosiddetto work life balance, ovvero l’equilibrio tra vita lavorativa e privata. 

Va ricordato che per fringe benefit si intendono i compensi in natura e i servizi concessi dai datori ai dipendenti. Per esempio: i buoni spesa, le ricariche telefoniche, il premio per la polizza extraprofessionale. Insomma, voci addizionali alla retribuzione corrisposta da un’impresa ai propri dipendenti: un compenso “in natura”, che figura comunque in busta paga. Lato azienda si tratta di somme interamente deducibili, che riducono quindi l’imponibile fiscale dell’impresa. Dal punto di vista del dipendente sono somme non soggette a contribuzione né a prelievo fiscale, ovviamente con i tetti previsti dalla legge.