Come sta il ceto medio

Abbiamo scelto di partire dallo stato di salute del ceto medio per comprendere le opportunità di crescita e benessere del nostro Paese.

Il valore del ceto medio per l’economia e la società” è il titolo dell’ampio rapporto realizzato da Cida e Censis, presentato il 20 maggio alla Camera dei deputati, dal quale emerge una situazione di vulnerabilità, tra rischi di declassamento e aspettative pessimistiche sul futuro.

Medici, insegnanti, manager, imprenditori, professionisti, amministratori pubblici, impiegati e pensionati: il 48,8% vive il timore di una regressione nella scala sociale e il 74,4% avverte il blocco della mobilità verso l’alto.

Abbiamo fotografato anche la situazione del Servizio sanitario, tra aumento della spesa privata, interminabili liste d’attesa, emersione di patologie croniche e fabbisogni sociosanitari di una popolazione più anziana.

Tutto questo, ancora, non ha minato la fiducia espressa negli operatori: il 62,2% è convinto che avere medici come dirigenti nel Ssn è una garanzia per i pazienti. In un tempo segnato dalla perdita di social reputation di tante professioni, il sapere medico resta un pilastro della convivenza civile.

Il finanziamento della sanità richiede certamente un aumento della spesa pubblica, ma anche la valorizzazione di soluzioni alternative. Una risorsa viene dalla sanità integrativa che può contribuire ad ampliare l’offerta in relazione alla domanda reale e appropriata di prestazioni.

Salute, il 42% cerca informazioni sul web

È quanto emerge da un’indagine di Nomisma: gli italiani si rivolgono a Internet per avere risposte rapide su disturbi o sintomi, per informazioni sulla prevenzione e per individuare strutture sanitarie o servizi di interesse

Oltre il 40% degli italiani cerca online informazioni su salute e benessere. E’ quanto emerge da una recente indagine di Nomisma, presentata recentemente a Bologna durante l’evento “About Health”, che aveva, tra gli altri, l’obiettivo di fare il punto sulle evoluzioni del settore salute e di interrogarsi sulle nuove opportunità derivanti dall’applicazione di tecnologie all’avanguardia e canali di comunicazione innovativi.

Il risultato dell’indagine non stupisce: la crisi sanitaria connessa alla diffusione della pandemia Covid-19 ha indubbiamente influenzato i bisogni e l’approccio degli italiani rispetto ai temi salute e benessere. In particolare, per trovare informazioni il 42% degli italiani si rivolge a siti web specializzati e il 38% a Google, da cui ovviamente partono poi ricerche più specifiche sul tema che si vuole approfondire. Il medico di base? Batte il web ma non di molto: a interpellarlo, infatti, è soltanto il 56% degli italiani. Il motore di ricerca è un crocevia utilizzato principalmente nella ricerca di risposte rapide e chiare riguardo disturbi o sintomi (52% degli italiani), di strutture, prestazioni o servizi di interesse (44%) nonché di informazioni e chiarimenti in tema di prevenzione (32%). Tra i contenuti più apprezzati tra gli utenti online figurano le interviste agli specialisti (58%) e gli articoli di approfondimento pubblicati su blog e siti specializzati (53%).

Google ha un ruolo rilevante anche per individuare la struttura sanitaria a cui rivolgersi (47%), anche se in questo caso specifico il passaparola rimane il principale canale di informazione (55%). Tra i driver che influenzano la scelta degli italiani, il più apprezzato è certamente la presenza di agevolazioni economiche (88%), come convenzioni con aziende, enti o associazioni, seguito dalla possibilità di consultare i referti online (76%) e di prenotare visite online sul sito della struttura (73%). Fondamentale anche la presenza di un servizio di assistenza clienti rapido e soddisfacente (73%).

Tra i temi approfonditi con la survey sulla popolazione, rientra anche la sensibilità al tema della sicurezza dei dati sanitari. L’83% degli italiani ritiene importante il rispetto della privacy e della sicurezza dei propri dati sanitari, e ben l’81% considera fondamentale ricevere informazioni chiare sulle modalità di trattamento degli stessi. Trattamenti non corretti e violazioni influiscono sul rapporto di fiducia tra pazienti e strutture sanitarie, con quasi 3 italiani su 10 che non tornerebbero in strutture che hanno subìto una violazione di dati.

“Insulina settimanale, svolta epocale. Entro l’anno arriverà anche in Italia”

Parla Avogaro, Presidente Sid: “Ma dobbiamo aumentare gli investimenti in prevenzione” 

L’insulina settimanale? “Una svolta epocale, migliora di molto la qualità della vita del paziente”. Il via libera dell’Aifa all’utilizzo in Italia del nuovo farmaco? “Credo e auspico che arrivi entro fine anno”. La nuova frontiera per la cura del diabete? “L’insulina per bocca”. A parlare è il Professor Angelo Avogaro, Presidente della Società italiana di diabetologia (Sid), associazione non profit fondata nel 1964 a Roma, che svolge in campo diabetologico e metabolico attività di promozione e conduzione della ricerca scientifica, di formazione, di divulgazione e di politica sanitaria. “Lo Stato – aggiunge Avogaro – dovrebbe spendere di più in prevenzione, considerato che i costi diretti e indiretti del diabete, ogni anno, ammontano a circa 20 miliardi di euro. Senza dimenticare il tema delle disparità regionali nell’assistenza ai pazienti”. 

Professor Avogaro, di recente è stata annunciata l’insulina settimanale (anziché giornaliera). Molti lo hanno definito, per i pazienti di diabete, un cambiamento epocale. 

Precisiamo innanzitutto che stiamo parlando di insulina settimanale ad azione lenta, non quella che si fa prima dei pasti ma quella che si assume prima di andare a dormire e che mantiene la glicemia normale durante la notte e durante i periodi interprandiali. I vantaggi, in ogni caso, sono oggettivi. Innanzitutto si tratta di un’insulina che ha grande stabilità d’azione. In secondo luogo, ed è qui la svolta epocale, il trattamento si fa una volta alla settimana anziché ogni giorno e questo migliora la qualità di vita del paziente, soprattutto se si pensa che il 30% di pazienti diabetici di tipo 2, cioè anziani, fa iniezioni di insulina quotidianamente. È stato calcolato che un diabetico durante la sua vita deve fare circa 500mila azioni legate alla sua patologia, tra dieta, punture, terapie, esami, attività fisica: l’insulina settimanale semplifica alcuni di questi aspetti, è un vantaggio terapeutico ma anche logistico. E poi c’è un tema di impatto delle medicine sull’ambiente: si riduce di molto l’inquinamento da plastiche.  

Alla luce di queste considerazioni, come Sid auspicate che Aifa dia il via libera al più presto a questo farmaco? 

Certo. Ema (European Medicine Agency) ha dato via libera, Aifa (Agenzia italiana del farmaco) deve concordare con l’azienda produttrice, Novo Nordisk, il prezzo: ritengo e spero che entro fine anno si possa trovare la quadra. 

Qual è la portata del diabete in Italia? 

Parliamo di 4 milioni di persone affette e di 1 milione di persone che ce l’ha senza saperlo. Sta inoltre aumentando il diabete di tipo 1 autoimmune che colpisce i bambini. Devo rilevare che esiste e persiste purtroppo una disparità di assistenza del diabetico da regione a regione, speriamo che l’autonomia sanitaria non peggiori le cose.  

Qual è il costo del diabete per la sanità pubblica?  E che tipo di approccio si dovrebbe avere, come Paese, nei confronti di questa malattia? 

Il diabete ha costi annui diretti per 9,5 miliardi di euro e altrettanto di costi indiretti, in tutto 20 miliardi. Per questo ritengo che lo Stato dovrebbe investire un pochino di più nella prevenzione, anche a livello generale visto che ad essa è destinato solo il 5% dei 139 miliardi investiti ogni anno dal Servizio Sanitario Nazionale. Un paziente diabetico ha costi diretti per il Paese pari a 1800 euro l’anno, ma nelle forme più gravi può arrivare a 5-6mila euro. 

Quali sono i principali sintomi e fattori di rischio del diabete e qual è il valore della prevenzione primaria?  

I principali fattori di rischio sono essere sedentari, sovrappeso e avere una familiarità con la malattia; i principali sintomi sono, tra gli altri, avere spesso tanta sete, urinare molto e sviluppare spesso infezioni genitali. Il valore della prevenzione primaria è fondamentale: servirebbe un’educazione alimentare degna di questo nome, riducendo al minimo zuccheri e cibi raffinati, che andrebbe fatta fin dalle scuole. Ovviamente un ruolo cruciale lo gioca l’attività fisica, con i classici 10mila passi al giorno per almeno cinque giorni alla settimana. 

Di che cosa si occupa la Società italiana di diabetologia e quali sono i vostri progetti per il futuro? 

La nostra mission è sul diabete e sul fare formazione. Queste sono le nostre priorità, oltre a cercare di omogeneizzare l’assistenza diabetologica italiana, andando oltre gli ostacoli legati alle leggi regionali, alla burocrazia e quant’altro. Crediamo molto nella medicina di prossimità e nel telemonitoraggio che facilita la vita del paziente. 

Quale potrebbe essere la prossima scoperta epocale per la cura del diabete? 

Il prossimo sbarco sulla Luna potrebbe essere l’insulina per bocca: credo che le grandi industrie ci stiano già lavorando. 

 

Angelo Avogaro 

Si occupa di diabete mellito di tipo 1 e 2, dislipidemie, obesità. Nel 1980 si laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università degli Studi di Padova, ove si specializza sia in Diabetologia e Malattie del Ricambio sia in Medicina Interna. Attualmente è Professore Ordinario di Endocrinologia e Metabolismo ed è Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Malattie del Metabolismo e servizio aggregato di Diabetologia Azienda Ospedaliera di Padova. È membro di numerose società scientifiche ed è autore di varie pubblicazioni scientifiche a livello nazionale e internazionale. Ricopre anche il ruolo di Presidente della Società Italiana di Diabetologia (SID). 

Assidai, certificazione per la parità di genere 

Il Fondo ha lavorato in prima fila sull’iniziativa nata come progetto di tutto il sistema Federmanager.  Il Presidente Indennimeo: “Le persone sono un asset unico all’interno delle organizzazioni. Così raggiungiamo la mission” 

Assidai ha lavorato in prima fila per la certificazione della parità di genere UNI PdR 125:2022: una prassi di riferimento e, al tempo stesso, un’iniziativa nata come progetto di tutto il sistema Federmanager. Essa, infatti, oltre ad Assidai ha visto il coinvolgimento della stessa Federmanager, Federmanager Academy, Manager Solutions e Praesidium. Insomma, un traguardo collettivo che evidenzia l’impegno concreto nell’affrontare le sfide legate alla valorizzazione della diversità di genere, a partire dalla promozione di modelli di leadership inclusivi. 

Nel dettaglio, la certificazione riguarda il seguente ambito di applicazione: “misure per garantire la parità di genere nel contesto lavorativo per: Erogazione del servizio di rimborsi spese mediche ed assistenziali per dirigenti, quadri e consulenti”. Per Assidai si tratta di un riconoscimento ufficiale che attesta l’impegno del Fondo verso l’uguaglianza di genere e la promozione della diversità sul luogo di lavoro creando ambienti di lavoro inclusivi, equi e rispettosi, in cui donne e uomini possano beneficiare di pari opportunità di sviluppo e crescita professionale. Inoltre, non solo risponde a principi etici fondamentali ma offre anche vantaggi tangibili all’organizzazione stessa: la certificazione, infatti, favorisce un miglioramento reale della cultura organizzativa, contribuisce alla crescita dell’organizzazione e promuove soluzioni innovative che incrementano la produttività complessiva nel medio-lungo termine.  

Assidai, focus su sviluppo processi e risorse 

I documenti analizzati e prodotti dal Fondo per raggiungere questo l’obiettivo della Certificazione sono stati numerosi: tra questi vanno ricordati la Politica di parità di genere, rivolta a tutto il personale dipendente e condivisa con tutti gli stakeholder, e la Politica anti-molestie e anti-discriminazioni 

“Questa Certificazione per noi rappresenta un importante traguardo, che si inserisce nel solco dell’attenzione posta alle tematiche di parità di genere dal nostro Fondo di assistenza sanitaria, già all’interno del proprio processo di gestione certificato da molti anni – ha commentato il presidente di Assidai, Armando Indennimeo – Le persone sono un asset unico all’interno delle organizzazioni, per questo ritengo fondamentale garantire un alto livello di benessere alle donne e agli uomini, che, ogni giorno, con dedizione e impegno, consentono ad Assidai di raggiungere la propria mission”. Allo stesso tempo, secondo Indennimeo, “è altrettanto importante il work-life-balance perché un buon equilibrio tra vita privata e vita lavorativa è un altro elemento centrale per la filosofia del Fondo”. 

In termini di governance la certificazione UNI PdR 125:2022 rappresenta per Assidai un ulteriore tassello che si aggiunge alla certificazione del sistema di gestione UNI EN ISO 9001:2015, alla certificazione volontaria del proprio bilancio e all’iscrizione all’Anagrafe dei fondi sanitari istituita dal Ministero della Salute. L’obiettivo cui tende il Fondo dotandosi di certificazioni – seppur non richieste – è quello di continuare ad apportare significative migliorie all’interno della propria realtà e con quest’ultima attestazione è previsto un piano strategico triennale di sviluppo che vedrà il Fondo impegnato nell’implementazione di ulteriori processi innovativi e in specifici corsi di formazione per le proprie risorse. 

Marina Cima: “Dal Pnrr una spinta per ridurre il gender gap in azienda” 

“Credo fortemente che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che ha introdotto la certificazione della parità di genere, possa veramente spingere le aziende ad adottare politiche finalizzate a ridurre le differenze di genere, soprattutto per quanto riguarda quegli aspetti dove le disparità sono più spiccate: opportunità di crescita in azienda; differenze di retribuzione; gestione delle differenze di genere; tutela della maternità”. Questa l’opinione di Marina Cima, Presidente di Manager Solutions, che ha proposto il progetto e lavorato come leader dello stesso per la certificazione della parità di genere UNI PdR 125:2022 ottenuta dal gruppo Federmanager. “Come gruppo – ha aggiunto Marina Cima – siamo avanti su tanti aspetti e ritengo che la nostra azione rappresenti un esempio per molte altre realtà per lavorare in un ambiente più equo e rispettoso delle differenze”. 

Obiettivo raggiunto   

di Stefano Cuzzilla, Presidente Federmanager 

Un tasso di occupazione femminile in età lavorativa del 51,1%, 1 donna su 5 costretta a lasciare il lavoro dopo aver avuto un figlio e divari retributivi enormi: questi dati rivelano l’urgenza di impegnarsi davvero per la parità di genere in Italia. Un cambiamento a cui tutti dobbiamo tendere e un dovere morale e sociale a cui adempiere anche per sostenere la crescita nazionale. Potremmo avere un aumento potenziale del 12% del Pil, entro il 2050, solo portando il tasso di occupazione femminile al livello di quello maschile. Inoltre, le aziende che abbracciano la diversità, inclusa quella di genere, vedono una crescita dei profitti che arriva fino al +25%. 

È in questo contesto che il Gruppo Federmanager ha ottenuto recentemente la certificazione UNI PdR 125:2022 della parità di genere: un bel traguardo, ma anche un punto di partenza per migliorare sempre più i processi organizzativi e i modelli operativi che guidano le nostre attività. La certificazione riconosce la capacità del Gruppo di aver adottato misure concrete per promuovere una cultura aziendale e un ambiente di lavoro inclusivi e rispettosi delle pari opportunità.   

Sono cinque le nostre società valutate conformi alla normativa UNI: Federmanager, Manager Solutions, Federmanager Academy, Praesidium e Assidai 

Questo grande risultato ci colloca, tra l’altro, come pionieri del settore. La nostra è la prima organizzazione di rappresentanza nazionale di lavoratrici e lavoratori a essere certificata in Italia 

Avanti così. 

Parkinson, migliorare la vita dei pazienti. Dai farmaci del futuro la possibile svolta

Intervista al Prof. Piero Cortelli sul morbo di Parkinson: “Chi è malato mantenga attività fisica e socialità”.

Intervista al Professor Cortelli: “Chi è malato mantenga attività fisica e socialità” 

“Il fattore di rischio più rilevante per il Parkinson è l’età e oggi l’unica prevenzione possibile è quella primaria: non abbiamo farmaci che frenano l’evoluzione della malattia, ma alcuni studi che hanno questa ambizione e di cui ci aspettiamo i risultati tra fine anno e inizio 2025. Per ora possiamo contare su terapie sintomatiche che migliorano la qualità di vita dei pazienti. Questo il pensiero di Pietro Cortelli, Professore ordinario al Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie dell’Università di Bologna, nonché Direttore operativo dell’Irccs Istituto delle Scienze Neurologiche della città felsinea, che di recente ha realizzato un intervento potenzialmente rivoluzionario: ha impiantato in un paziente di Parkinson un dispositivo di ultimissima generazione, ricaricabile con un sistema bluetooth, finalizzato a inviare una stimolazione elettrica a determinate aree del cervello in modo sempre più preciso. In questo modo il paziente stesso ha visto lenito il tremore a un braccio derivante dalla malattia, tornando così a una vita quasi normale.  

“I sintomi? Tremori di riposo e impaccio”  

Gli ultimi numeri dicono che il Parkinson colpisce l’1% della popolazione italiana sopra i 65 anni, circa 300mila casi: cifre che diventano molto più grandi su scala europea e mondiale. Come diffusione è la seconda malattia neurodegenerativa, ma non vedo un trend crescente in sé, piuttosto c’è un aumento dei casi dettato dall’invecchiamento della popolazione, dato che l’età è il principale fattore di rischio.  

 

Professor Cortelli, giovedì 11 aprile è stata celebrata la Giornata Mondiale del Parkinson. Qual è il suo valore anche alla luce degli ultimi numeri sulla diffusione di questa malattia in Italia e nel mondo? 

È una giornata importante perché è dei pazienti e ricorda a tutte le persone quanto sia fondamentale dedicarsi ad assistenza e ricerca. è un percorso che permette di chiarire cosa sia questa malattia che sta acquisendo una dimensione notevole anche in Italia, e alla cui definizione sta partecipando anche la Fondazione Limpe, di cui sono stato Presidente alcuni anni fa.   

Quali sono le cause e i principali sintomi del Parkinson? 

Oggi come oggi non c’è una causa precisa del Parkinson, se non il fatto che i neuroni di una parte del cervello che producono dopamina sono più vulnerabili di altri a causa di fattori genetici e ambientali, quindi un mix di cause piuttosto che una causa singola. Qualche rara forma di Parkinson è causata da specifiche alterazioni genetiche, ma in questo caso insorge prima dei 40 anni. I sintomi invece sono tremori di riposo, lentezza nei movimenti e impaccio: compaiono sempre da un lato del corpo e poi tendono ad aggravarsi con velocità diverse da individuo a individuo. Tuttavia, questa malattia non va identificata solo con problemi del controllo motorio, ma anche con altri disturbi che possono comparire prima, come un deficit di olfatto o il rallentamento delle funzioni intestinali o l’agire ciò che si sogna. Poi ci sono i deficit cognitivi, motivazionali e di memoria, di cui soffre il 60% dei pazienti che hanno una durata della malattia molto lunga.    

Che tipo di prevenzione si può effettuare contro questa malattia e quanto è importante una diagnosi precoce? 

Vale la prevenzione generale: astenersi dal fumo, avere un’alimentazione sana e praticare attività fisica regolare, tutte cose che riducono i fattori di rischio cardiovascolari e l’impatto su cuore e cervello. Una prevenzione specifica per il Parkinson non c’è e non abbiamo terapie che ne modifichino o rallentino l’evoluzione. Ci sono molti studi in corso su farmaci che hanno questa ambizione e da cui si attendono i risultati tra fine 2024 e inizio 2025: se avremo questi strumenti, la diagnosi precoce sarà molto importante.  

Diversi studi sottolineano l’importanza di praticare attività fisica per i pazienti. Perché?  

Svolgere attività fisica non competitiva tutti i giorni produce salute, così come avere buone relazioni, leggere e mantenere i propri interessi. A maggior ragione per i malati di Parkinson che devono evitare di chiudersi in casa senza compagnia. Dobbiamo occuparci della qualità della vita dei pazienti a tutto tondo, con centri sportivi di attività fisica e cognitiva cruciali per migliorare anche l’efficacia delle terapie. In questo il ruolo del privato può essere importante: a Bologna sta nascendo un’ottima collaborazione con un centro nel quale si fanno interagire i pazienti con i cavalli, non tanto per cavalcare ma per gestire e imparare a seguire questi animali che a loro volta sono capaci di passare emozioni positive agli esseri umani.  

Di recente l’Irccs di Bologna da lei guidato ha installato un rivoluzionario microchip che ha lenito il tremore a un malato di Parkinson. Ci racconta come siete arrivati a questa scoperta e che prospettive di cura apre per il futuro?  

Premessa: è uscito sul mercato un nuovo stimolatore che permette, oltre che di stimolare, anche di registrare l’attività delle cellule nervose con cui sono in contatto. Noi siamo stati i primi a impiantare questo stimolatore su un paziente grazie a un team di specialisti, mettendo a punto un percorso di regolazione dello stimolatore basato su molti parametri con quindi aumentata probabilità di ottenere la migliore stimolazione possibile. Il neurostimolatore posizionato sotto la clavicola, attraverso due elettrodi di 1,5 mm, stimola e registra l’attività del nucleo subtalamico, la cui inibizione permette un migliore controllo dei sintomi motori del Parkinson.  

Pietro Cortelli   

Nato a Bologna, è Professore ordinario al Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie, nonché direttore operativo dell’IRCCS Istituto delle Scienze Neurologiche della città felsinea. É un esperto di livello internazionale sulle malattie neurodegenerative, con particolare focus – tra l’altro – sul Parkinson e sulla demenza. Dal Settembre 2018 al 2021 è stato membro del Comitato Tecnico Scientifico settore Ricerca Scientifica del Ministero della Salute, mentre dal 2018 al 2020 è stato presidente della Fondazione Limpe. 

 

Welfare aziendale, crescita continua

Lo rivela il Settimo Rapporto Censis-Eudaimon: “è conosciuto dall’82% degli italiani e l’84% di chi ne usufruisce vorrebbe potenziarlo”.

L’importanza del “benessere”

Il 93,7% dei lavoratori e delle lavoratrici occupati in Italia considera molto importante il benessere e la felicità quotidiana, da “coltivare” dedicando più tempo a sé stessi e alla propria famiglia. Il 67,7% degli occupati, in futuro, vorrebbe ridurre il tempo dedicato al lavoro. Ancora più importante: l’81,8% sa cos’è il welfare aziendale (nel 2018 era il 60,2%), che è molto apprezzato e desiderato, visto che tra i beneficiari l’84,3% lo vorrebbe potenziato. Ecco i principali risultati del Settimo Rapporto Censis-Eudaimon sul Welfare Aziendale: uno studio da cui emerge molta più attenzione a implicazioni e aspetti che soltanto pochi anni fa erano poco considerati quando si parlava di lavoro. Parliamo di concetti come conciliazione dei tempi, welfare, benefit, felicità, benessere: oggi sono ormai centrali per chi lavora, talvolta anche più di stipendio e stabilità lavorativa.  

Un focus importante che emerge dal Rapporto è quello sul welfare aziendale.  

Come detto, lo conoscono sempre più lavoratori, per la precisione l’81,8% degli occupati sa cos’è (il 32,7% in modo preciso e il 49,1% a grandi linee), una percentuale in netta crescita rispetto al 2018, quando gli incentivi introdotti progressivamente dal Governo hanno favorito la crescita di questo settore nel Paese. Non solo: lo stesso welfare aziendale è molto apprezzato e desiderato, poiché tra i lavoratori che ne beneficiano l’84,3% lo vorrebbe potenziato, e tra coloro che non se ne avvalgono l’83,8% vorrebbe fosse introdotto nella propria azienda. Inoltre, il 79,5% degli occupati apprezzerebbe un aumento retributivo sotto forma di una o più prestazioni di welfare: a dirlo sono ben il 94,2% dei dirigenti (in pratica la quasi totalità), il 78,2% degli impiegati e il 74,8% degli operai. Per riassumere, conclude il report del Censis, il welfare aziendale può diventare uno degli strumenti migliori per trattenere o attrarre le risorse: un concetto, questo, ormai ben chiaro a tutte le principali aziende italiane. 

Anche perché c’è un altro dato da non sottovalutare: il 93,7% dei lavoratori e delle lavoratrici occupati in Italia considera molto importante il benessere e la felicità quotidiana. In questo senso, l’82,8% del campione del Censis si è dichiarato più attento rispetto al passato al suo benessere psicofisico, alla sua salute, alla gestione dello stress e alle relazioni. 

Glaucoma, fondamentale la prevenzione

È la seconda causa di cecità al mondo, ma progredisce in maniera asintomatica e quando i sintomi si manifestano rischia di essere troppo tardi. L’importanza della prevenzione

Il glaucoma è la seconda causa di cecità al mondo. Secondo il “World Report on Vision” 2019 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sono circa 64 milioni le persone nel mondo affette da glaucoma. Tra queste, 7 milioni hanno manifestato perdita della vista o cecità. Bastano questi numeri per spiegare il senso della “Settimana mondiale del glaucoma”, che si è tenuta dal 10 al 16 marzo. Il titolo scelto per quest’anno dall’Agenzia internazionale per la prevenzione della cecità (IAPB Italia Onlus) è stato: “Glaucoma, il problema è che non vedi il problema”. Un gioco di parole che riassume perfettamente la natura e i rischi di questa patologia: il glaucoma, infatti, è una malattia degli occhi che progredisce in maniera asintomatica. Quando ce ne accorgiamo è troppo tardi. Ecco perché la prevenzione si rivela fondamentale.

Il report del progetto Vista in Salute dell’Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità – come riportato dal Ministero della Salute – stima che più o meno la metà del milione di persone affette da glaucoma nel nostro Paese non ne sia consapevole. Infatti, gran parte della popolazione non sa esattamente di cosa si tratti, né soprattutto del grave rischio di perdita della vista che ne consegue. Del resto, questa malattia dà sintomi solo in fase avanzata, quando i danni causati non sono più riparabili. Per poterlo curare è necessario riconoscerlo quando i sintomi non si sono ancora manifestati.

Il glaucoma è una malattia cronica degenerativa che interessa quasi sempre entrambi gli occhi e colpisce il nervo ottico. Solo in alcuni casi può manifestarsi in forma acuta, con violento dolore all’occhio, nausea, forte irritazione e con pressione oculare molto elevata. Quasi sempre questa patologia è dovuta a un aumento della pressione interna dell’occhio che causa, nel tempo, danni permanenti alla vista che sono accompagnati da riduzione del campo visivo (si restringe lo spazio che l’occhio riesce a percepire senza muovere la testa) e alterazione della “testa” del nervo ottico (visibile all’esame del fondo oculare).

Ecco perché, come detto, la prevenzione è cruciale: una semplice visita oculistica può aiutare a diagnosticare un glaucoma in fase iniziale o ancora non avanzata. È necessario, quindi, sottoporsi con regolarità a controlli oculistici, specialmente in presenza di fattori di rischio quali l’età (dopo i quarant’anni) o di presenza di casi in famiglia.

Celiachia, salgono le diagnosi in Italia

Con quasi 252mila casi nel 2022 si torna ai livelli del 2019: a dirlo l’ultima Relazione al Parlamento preparata dal Ministero della Salute su questa patologia. Il Ministro Schillaci: “Importante la prevenzione”

Dopo una contrazione rilevante, il saldo delle diagnosi di celiachia torna a salire e si riporta ai livelli del 2019. A dirlo è l’ultima Relazione al Parlamento su questa patologia, realizzata dal Ministero della Salute, pubblicata nelle scorse settimane e riferita al 2022. Dai dati si evince infatti che, in Italia, erano stati diagnosticati 251.939 celiaci, di cui il 70% (176.054) appartenenti alla popolazione femminile e il restante 30% (75.885) a quella maschile. La prevalenza media nazionale è dello 0,43% – femminile allo 0,58%, maschile allo 0,26% – mentre le Regioni (o province autonome) con i numeri più elevati sono Trento, Toscana e Valle D’Aosta, tutte con lo 0,54 %. Per quanto riguarda invece le fasce di età, per ben il 67%, ricade tra 18 ai 59 anni.

Fin qui si parla ovviamente dei casi “accertati”, ma la realtà purtroppo è ben diversa. La celiachia, che ricordiamo è un’enteropatia infiammatoria di natura autoimmune scatenata dall’ingestione di glutine (complesso proteico presente in molti cereali, come orzo, frumento e segale) in soggetti geneticamente predisposti, si stima abbia una prevalenza nella popolazione italiana intorno all’1% per un numero di casi attorno ai 600mila: il problema è dunque che oltre la metà di coloro che soffre di questa patologia non lo ha ancora scoperto o accertato.

È bene sottolineare che nei soggetti celiaci mangiare glutine scatena una risposta immunitaria che colpisce l’intestino tenue. Il persistere di questa risposta produce un’infiammazione che danneggia le strutture fondamentali dell’intestino stesso, i villi intestinali, causandone un appiattimento e di conseguenza un’incapacità di assorbire i nutrienti. Il danno intestinale può causare perdita di peso, gonfiore e talvolta diarrea. Il malassorbimento in particolare di vitamine e oligoelementi può causare danni a diversi organi, tra cui sistema nervoso, osso, apparato riproduttivo, sistema sanguigno. Non esiste una cura specifica per la celiachia, l’unico trattamento efficace consiste nella rigorosa eliminazione del glutine della dieta.

In Italia – ricorda il Ministro della Salute, Orazio Schillaci, nell’introduzione alla Relazione al Parlamento – la dieta del celiaco è in quota parte finanziata dal Servizio Sanitario Nazionale per l’erogazione gratuita dei prodotti senza glutine. Inoltre, aggiunge, “la celiachia in Italia è riconosciuta anche come malattia sociale poiché condiziona il normale inserimento nella vita di gruppo tanto da comprometterne alle volte l’osservanza della dieta. Per prevenire il più possibile situazioni di disagio e agevolare l’accesso sicuro ai servizi di ristorazione collettiva è previsto un ulteriore contributo annuale che le Regioni possono investire per implementare iniziative di formazione per gli operatori del settore alimentare e per consentire l’adeguamento delle mense annesse alle strutture pubbliche”. Infine, il tema della prevenzione, che ha un valore chiave anche in questo frangente: “Per la celiachia ad oggi non esiste una cura, ma le complicanze di una diagnosi tardiva restano importanti per cui nel 2023 il Parlamento italiano ha deciso di investire sulla prevenzione sviluppando un programma di screening nazionale per la popolazione pediatrica”, conclude il Ministro.

Il buon lavoro

Il punto di vista di Stefano Cuzzilla, Presidente Federmanager

Molti fattori concorrono allo stare bene in azienda: dal clima aziendale al senso di appartenenza a un’organizzazione, passando dal welfare e in particolare dai servizi per la salute. Avere un buon lavoro, oggi, non significa solo avere una posizione sociale riconosciuta e un buon reddito, ma anche essere impegnati in un’attività conciliabile con le proprie esigenze e le aspirazioni personali. Le azioni per la salute e il welfare risultano tra i filoni di intervento più apprezzati da lavoratrici e lavoratori e non è un caso che rappresentino il nuovo terreno di sfida delle aziende per motivare chi già è impiegato a restare e per attrarre nuovi lavoratori. La connessione tra nuovi bisogni e sviluppi del welfare aziendale è confermata dal 5° rapporto sul Welfare occupazionale e aziendale in Italia, in cui si evidenzia che uno dei rischi incombenti di maggior rilievo, per effetto della curva demografica, è dato dalla copertura della non autosufficienza e dalle conseguenze di una vita più lunga. Anche i giovani manifestano un’attenzione significativa alle politiche organizzative orientate al benessere e al welfare in azienda. Questa nuova interpretazione del senso attribuito al lavoro ha rappresentato per me la spinta per scrivere, insieme a Manuela Perrone, il libro “Il buon lavoro. Benessere e cura delle persone nelle imprese italiane”, edito da Luiss University Press per la collana Bellissima, uscito recentemente nelle librerie. Un saggio mi auguro utile per riflettere sul cambiamento in atto.

Digiuno intermittente e metabolismo

Secondo i suoi sostenitori, tra cui Franco Berrino, migliora il funzionamento del nostro corpo, “che si libera del superfluo” e aiuta a prevenire le malattie croniche

Astenersi da cibo e bevande per 16-18 ore (saltando la cena) o di 24 ore (saltando pranzo e cena) o di 36 ore (saltando colazione, pranzo o cena) consente alle cellule di attivare l’autofagia, un processo con cui esse si liberano di organelli e proteine malfunzionanti che è meglio smaltire, insomma un’occasione per fare decluttering, ossia liberarsi del superfluo, ovvero di tutto quello che non serve per la vita”.

Così nel libro “La via della leggerezza” il medico ed epidemiologo italiano, Franco Berrino, descrive il cosiddetto digiuno intermittente, di cui è sostenitore, in particolare per alcune categorie (adulti in sovrappeso) insieme ad altri esperti di alimentazione. Il motivo? Secondo Berrino è presto detto: al di là del famoso adagio “colazione da re, pranzo da signore e cena da povero”, più studi hanno dimostrato che una colazione abbondante e una cena leggera prevengono la sindrome metabolica e l’associata resistenza insulinica. E, come sappiamo, la sindrome metabolica è associata a un maggior rischio di diabete, infarto, cancro, steatosi e cirrosi epatica, broncopatie croniche e anche malattie neurodegenerative. Proprio contro queste ultime, secondo Berrino, il digiuno intermittente sarebbe un’ottima forma di prevenzione.

Una cosa è certa: prima di iniziare qualsiasi forma di digiuno intermittente è bene rivolgersi a un medico o a uno specialista. Per esempio, secondo gli esperti, è sconsigliato a bambini, adolescenti, donne in gravidanza, a chi soffre di gravi patologie e a chi è sottopeso. Discordanti, invece, i pareri sugli anziani.

Detto questo, esistono diversi approcci al digiuno intermittente che si basano sulla scelta di mangiare o digiunare in determinati periodi di tempo.