Per i fondi integrativi un ruolo importante nel futuro del SSN

Per i fondi integrativi un ruolo importante nel futuro del Servizio sanitario nazionale ma serve una programmazione adeguata.

Intervista al Prof. Walter Ricciardi, Presidente Istituto Superiore di Sanità

La prevenzione sanitaria in Italia? “Purtroppo facciamo ancora troppo poco, dal punto di vista degli investimenti siamo la Cenerentola dell’Ocse”. La tenuta finanziaria del Servizio sanitario nazionale? “Serve un intervento a 360 gradi, ci sono ancora troppi sprechi”. Il possibile ruolo dei fondi sanitari integrativi? “Molto importante, va gestito con un’adeguata programmazione nazionale”. A parlare è il Professor Walter Ricciardi, Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità.

Dal suo osservatorio quanto è importante la prevenzione per le dinamiche del Servizio sanitario nazionale?

Potrebbe essere molto importante, ma in Italia purtroppo lo è ancora troppo poco se si pensa che siamo in coda alla classifica Ocse negli investimenti in questo settore. In teoria ci sarebbe un accordo storico tra Stato e Regioni che prevede si destini alla prevenzione il 5% delle spese sanitarie, ma non viene rispettato quasi mai. Andando avanti di questo passo non riusciremo a difendere i grandi primati che abbiamo conquistato negli ultimi 40 anni e che ci hanno portato ad essere, secondo le ultime indagini, il popolo più sano del mondo. Abbiamo tagliato questo traguardo grazie a una efficace combinazione tra dieta mediterranea e Servizio sanitario nazionale pubblico, ma dobbiamo continuare a investire in prevenzione altrimenti perderemo posizioni. Su questo punto, il Ministero della Salute la pensa allo stesso modo, ma alla fine i soldi per la prevenzione li spendono le regioni e quindi tocca ai Governatori.

Come si deve concretizzare la prevenzione, dal punto di vista degli stili di vita e della diagnostica, che vantaggi economici potrebbe portare e quante vite potrebbe salvare?

Partiamo da una premessa: l’86% delle malattie non trasmissibili, cancro incluso, hanno quattro fattori di rischio modificabili: alcol, fumo, attività fisica e alimentazione. Agendo su queste leve è incredibile il numero di vite che si potrebbe salvare. Aumentare il costo delle sigarette in tutta Europa al prezzo medio di 4,25 euro salverebbe centinaia di migliaia di vite ogni anno. Ancora: circa 2,8 milioni di morti all’anno in Europa sono da imputare al sovrappeso o all’obesità; 1,7 milioni di morti possono essere attribuiti a uno scarso consumo di frutta e verdura e, sempre in Europa, si stima circa 1 milione di morti attribuibili all’inattività fisica.

Come si possono risolvere le difficoltà di “tenuta” finanziaria del Servizio sanitario nazionale?

Dopo i tagli lineari degli ultimi anni, nel 2017 e 2018 si intravede un’inversione di tendenza ma con questi ritmi di crescita la sostenibilità non è garantita. Servono interventi contemporanei e su più fronti. Dobbiamo crescere come Paese e innanzitutto utilizzare meglio le risorse che abbiamo: oltre 110 miliardi di fondi l’anno non sono pochi. Ci sono troppi sprechi: almeno il 20% delle risorse allocate in sanità potrebbe essere risparmiato e reinvestito, magari premiando proprio la prevenzione. Ci sono ancora troppi test diagnostici inappropriati e prestazioni non corrette che vengono erogate.

Che ruolo possono avere, in questo contesto, i fondi sanitari integrativi?

Un ruolo importante, anche perché credo non ci sia alcuna velleità di abbandonare il Ssn contrariamente a quanto alcuni vogliono far credere. Non favorire la sanità integrativa significa far sì che ci siano due soli canali finanziari: il pilastro pubblico e quello privato puro, che attinge direttamente alle tasche dei cittadini. Non credo che questa situazione sia adeguata e per questo vedo un grosso ruolo, adeguatamente gestito, per i fondi sanitari integrativi. Devo dire che, in questo senso, stiamo andando nella giusta direzione, ma dobbiamo ancora fare passi in avanti: ancora non siamo al livello di stendere una programmazione nazionale che preveda adeguati incentivi.

Walter Ricciardi

Professore Ordinario di Igiene e Direttore della Scuola di Specializzazione in Igiene e Medicina Preventiva presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia “A. Gemelli” dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, ad agosto 2015 è stato nominato Presidente dell’Istituto Italiano Superiore di Sanità dove è stato Commissario dal luglio 2014 al luglio 2015. È responsabile di corsi universitari e post laurea tra cui un Master in Scienze e Corsi Internazionali di Epidemiologia. In Italia è stato membro del Consiglio Superiore di Sanità negli anni 2003-2006 e il Ministro della Salute lo ha nominato Presidente della Sezione di Sanità Pubblica del Consiglio stesso dal 2010 al 2014.

Presentazione di Welfare 24

La parola al presidente Assidai, Tiziano Neviani

I cittadini italiani sono i più sani al mondo.

Un primato invidiabile, che nel nuovo numero di Welfare 24 ci viene ricordato dal Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Walter Ricciardi, e dal Presidente di Federmanager, Stefano Cuzzilla.

Per difenderlo, qualsiasi ragionamento non può prescindere da due valori chiave: stili di vita corretti e prevenzione (l’intervento della senologa Chiara Pistolese è molto significativo in questo senso).
Proprio agendo su queste leve, si può contribuire a rafforzare l’impianto del Servizio sanitario nazionale, sempre più messo a dura prova dall’invecchiamento della popolazione e da finanze pubbliche provate da anni di crisi economica.

In questo contesto, come ci ricorda lo stesso Ricciardi, il ruolo della sanità integrativa è ancora più cruciale: rappresenta infatti un’alternativa, da stimolare con un’adeguata programmazione a livello nazionale, sia al pilastro pubblico sia a quello privato “puro”.

Anche in quest’ottica, nelle ultime settimane, Assidai è al fianco delle Associazioni Territoriali di Federmanager in una serie di interventi in tutta Italia – per essere sempre più vicini agli iscritti attuali e futuri – sul welfare aziendale, un tema ormai sempre più d’attualità in ogni settore dell’economia.

Rivoluzione culturale per il welfare

Secondo Luca Pesenti, esperto in materia, le misure messe in campo dal governo sono già importanti, ma adesso in Italia serve un vero cambio di passo da parte di tutto il sistema.

“Sul welfare aziendale in Italia siamo progrediti parecchio negli ultimi anni ma ora serve una vera svolta culturale da parte di tutto il sistema produttivo e sociale”. Ne è convinto Luca Pesenti, docente di “Sistemi di welfare comparati” alla facoltà di Scienze politiche e sociali all’Università Cattolica, che ha da poco scritto un libro – intitolato “Il welfare in azienda. Imprese smart e benessere dei lavoratori” (ed. Vita e Pensiero) – che si propone come manuale teorico e pratico per orientarsi nel settore in Italia.

Professor Pesenti, che cosa pensa del welfare aziendale in Italia e del suo sviluppo in relazione ad altri Paesi europei e alle attuali dinamiche di spesa sanitaria e di invecchiamento della popolazione?

Abbiamo vissuto una fase di forte sviluppo negli ultimissimi anni, anche perché partivamo da molto indietro visto che l’Italia, storicamente, non è un sistema all’inglese dove tutta la contrattazione è aziendale e l’employee benefit è molto sviluppato. Da noi, lo sviluppo della contrattazione di secondo livello e del welfare aziendale stanno andando di pari passo solo negli ultimi anni, anche perché nel passato c’è chi si è opposto nella convinzione che il tema del welfare dovesse essere esclusivamente di competenza statale, o al più demandato alla contrattazione nazionale. Poi, dopo 30 anni che non veniva modificata, la normativa fiscale è cambiata nel 2015 e nel 2016 e adesso c’è una significativa convenienza a ricorrere al welfare aziendale: da una parte le aziende sono più competitive, dall’altra lo Stato incentiva la diffusione di beni e servizi che possono parzialmente compensare l’arretramento del welfare pubblico. Chiaramente, la sanità è un epicentro critico all’interno di questa dinamica.

Che cosa si può fare per ampliare ulteriormente lo sviluppo del welfare aziendale?

Fino ad oggi il welfare aziendale si è diffuso nelle grandi aziende e parzialmente nelle medie, lasciando fuori le piccole che però rappresentano il grosso dell’industria e dell’occupazione in Italia. In questo senso, le ultime due leggi di Stabilità hanno rappresentato passaggi importanti, ormai ci sono pochi vincoli regolamentari; piuttosto serve una svolta di tipo culturale da parte di tutto il sistema produttivo e sociale sia da parte dei dipendenti che devono iniziare ad entrare nell’ottica di avere dei benefit al posto di una parte della retribuzione (quella variabile) che da parte delle aziende che non sempre conoscono bene le norme e hanno difficoltà ad abbracciarle all’interno delle logiche complessive della gestione delle risorse umane. Insomma, siamo davanti a una sfida che presenta opportunità e rischi.

Che ruolo devono giocare secondo lei in questo contesto i fondi sanitari integrativi come Assidai?

Saranno sicuramente un collegamento con la contrattazione di primo livello. Il tema più forte a mio parere è legato all’andamento della spesa out of pocket in Italia visto che siamo al 22% della spesa sanitaria totale, superiore alla media dell’Unione Europea a 28 Paesi. Una spesa molto alta per un sistema universalista come il nostro, con il 7% dei bisogni medici che non trovano soddisfazioni per cause economiche (un valore doppio rispetto alle medie UE). Di questo passo il problema si pone e si porrà sempre di più con difficoltà crescenti: non c’è dubbio che i fondi sanitari un ruolo forzatamente lo dovranno avere.

Luca Pesenti Ricercatore di Sociologia generale nella Facoltà di Scienze Politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove insegna Sistemi di welfare comparati e Modelli, strumenti e regole del welfare. Dottore di ricerca in Sociologia economica nella Facoltà di Economia dell’Università di Brescia, si occupa di temi legati al welfare contrattuale. Dal giugno 2013 è Direttore delle ricerche e componente del comitato scientifico dell’Osservatorio Donazione Farmaci presso la Fondazione Banco Farmaceutico.

Esplode il gap tra spesa sanitaria italiana ed europea

La sanità pubblica italiana è sempre più insostenibile dal punto di vista sanitario. A dirlo ci sono anche i dati contenuti nel 12° Rapporto Sanità a cura di C.R.E.A. Sanità – Università di Roma “Tor Vergata”, che rivelano come la spesa sanitaria corrente totale italiana nel 2015 si attestava a 2.436 euro pro-capite, con uno scarto di oltre il 32,5% rispetto ai 3.608 pro-capite dell’Europa occidentale. Un gap in aumento del 2,6% rispetto all’anno precedente e del 16,8% in confronto al 2005. Nel decennio 2005-2015 il gap in termini di spesa totale pro-capite tra l’Italia e l’Europa occidentale è, quindi, più che raddoppiato, passando dal 15,7% al 32,5%. E nel 2020, se si continuerà con questo ritmo, la forbice potrebbe arrivare al 40%. Allo stesso tempo, sottolinea il rapporto, la spesa privata dei cittadini cresce tuttavia agli stessi ritmi di quella dell’Europa occidentale, dimostrando di mantenere una funzione di complementazione della spesa pubblica anche in tempi di crisi.

LTC in Italia alle corde: urge una stampella privata

Prima di tutto i numeri. Secondo l’ultimo rapporto del Censis sul tema, in Italia il 5,5% della popolazione, ovvero 3.167.000, non è autosufficiente. Tra questi, le persone con non autosufficienza grave, in stato di confinamento, ossia costrette in via permanente a letto, su una sedia a rotelle o nella propria abitazione per impedimenti fisici o psichici, sono quasi la metà, per l’esattezza 1.436.000. E ancora: il modello tipicamente italiano – fatto secondo il Censis di una “centralità della famiglia con esercizio della funzione di caregiving e presa in carico della spesa per le esigenze dei non autosufficienti oltre che di un mercato privato di assistenza in cui l’offerta è garantita per la gran parte da lavoratrici straniere” – scricchiola. A rivelarlo è un altro dato eloquente: il 50,2% delle famiglie con una persona non autosufficiente (contro il 38,7% delle famiglie totali) ha a disposizione risorse familiari scarse. Per fronteggiare il costo privato dell’assistenza ai non autosufficienti, ancora il Censis sottolinea che 910mila famiglie italiane si sono dovute “tassare”, mentre altre 561mila hanno utilizzato tutti i propri risparmi, venduto la casa o si sono indebitate. Tutto ciò deriva anche dall’approccio dei cittadini alla non autosufficienza, che viene affrontata solo quando è conclamata. Specificatamente, il 30,6% dei cittadini non ci pensa e il 22,7% vedrà il da farsi quando accadrà. Il resto della popolazione conta sui risparmi accumulati (26,1%), sul welfare (17,3%) e sull’aiuto dei familiari (17%).

Numeri che fanno capire come la copertura LTC, per essere sostenibile, ha bisogno di una “stampella” privata, offerta ad esempio da fondi sanitari integrativi come Assidai. Del resto, un’altra criticità, altrettanto rilevante, è destinata ad aumentare il peso dell’LTC nei prossimi anni. Il nostro Paese detiene il primato della popolazione più anziana in Europa, con il 22% di ultra 65enni nel 2015 (di cui circa la metà oltre i 75 anni). Una quota che, secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, dovrebbe crescere fino al 33% entro la metà del secolo.

In Italia, inoltre, secondo le stime della Ragioneria Generale dello Stato, la spesa pubblica per LTC ammonta all’1,9% del Prodotto interno lordo, di cui circa due terzi erogati a soggetti con più di 65 anni. Il 90% di tale esborso è composto, in parti pressoché uguali, dalla componente sanitaria della spesa e dalle indennità di accompagnamento. Spesa che lo Stato italiano e gli enti pubblici sono purtroppo sempre meno in grado di sostenere.

Per l’OCSE troppi sprechi nella sanità

Un report dell’organizzazione sottolinea come il 20% delle spese potrebbe avere un utilizzo migliore. il 10% dei pazienti danneggiato in ospedale.

ll 20% della spesa sanitaria potrebbe essere indirizzato verso un utilizzo migliore. A sottolinearlo è un nuovo rapporto dell’OCSE – Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico – “Tackling Wasteful Spending on Health” che analizza come affrontare e tagliare le spese inutili che appesantiscono i bilanci dei sistemi sanitari. Ma il quadro è ancora peggiore se si pensa che in tutti i principali Paesi occidentali, secondo l’organizzazione, “nel migliore dei casi una quota significativa della spesa di assistenza sanitaria è uno spreco mentre nel peggiore può anche essere danneggiata la salute dei cittadini”. I numeri? Sempre nell’area OCSE, un paziente su dieci è inutilmente danneggiato presso il punto di cura e oltre il 10% della spesa ospedaliera viene impiegata per correggere gli errori medici prevenibili o infezioni che le persone contraggono negli ospedali. “In una fase storica in cui i bilanci pubblici sono sotto pressione in tutto il mondo tutto ciò è allarmante – fa notare l’Organizzazione – i governi potrebbero spendere molto meno per l’assistenza sanitaria e migliorare per giunta la salute dei pazienti”.

Ancora: in Italia il 20% degli accessi al Pronto soccorso sono impropri mentre negli Stati Uniti più del 20% della spesa sanitaria totale è bruciata dagli sprechi. Nei 35 Paesi OCSE, invece, un bambino su tre nasce con il taglio cesareo, a fronte di indicazioni mediche che suggeriscono un tasso massimo del 15%. Tutto ciò mentre la penetrazione sul mercato di farmaci generici è ancora bassa ed eterogenea (tra il 10% e l’80% in tutti i paesi dell’area OCSE). Senza contare un problema altrettanto rilevante, rappresentato dalla percezione della corruzione: un terzo dei cittadini, infatti, considera il settore sanitario corrotto.

 

Nuovi LEA, si può ripartire

Il punto di vista di Stefano Cuzzilla, Presidente Federmanager

Il Ministro Lorenzin ha definito “un passaggio storico” la firma dei nuovi Livelli Essenziali di Assistenza. Dopo ben 15 anni, infatti, è stato aggiornato l’elenco delle prestazioni sanitarie per le quali va garantito il diritto universale alla cura.

L’adeguamento dei LEA è di fondamentale importanza anche per noi che, attraverso i nostri Fondi di assistenza sanitaria integrativa, ci siamo dati il compito di rafforzare il sistema pubblico negli obiettivi di equità di accesso alle prestazioni, qualità delle stesse, ampliamento dei servizi e loro fruibilità sul territorio nazionale. L’aggiornamento dovrà infatti trovare applicazione uniforme nei diversi sistemi sanitari regionali, e questo è un obiettivo tutt’altro che immediato.

La sanità integrativa dunque potrà concentrarsi più consapevolmente nella propria funzione di supporto e complementarietà al SSN. Le politiche adottate dai Fondi come Assidai hanno finora anticipato molte scelte del decisore pubblico, rispondendo in modo flessibile all’evoluzione della domanda di assistenza degli associati. Continueremo secondo questo criterio, adeguando la nostra azione ai bisogni espressi dai colleghi e finalizzandola su quelle aree in cui il SSN mostra minore capacità di intervento.

Sempre più leader nella Long Term Care: Assidai amplia ancora le prestazioni

Il Fondo si conferma in prima linea sul tema della non autosufficienza con diverse novità a favore degli iscritti

Dopo quella del 2015, Assidai imprime una nuova svolta sulla copertura Long Term Care (LTC), ovvero l’insieme dei servizi socio-sanitari forniti con continuità a persone che necessitano di assistenza permanente a causa di disabilità fisica o psichica. Se due anni fa la copertura era stata estesa anche al coniuge o al convivente more uxorio dell’iscritto, nel 2017 vengono introdotte novità molto positive e rilevanti. Vediamole nel dettaglio.

Novità LTC under 65 anni

La tutela Long Term Care per coloro che sono nella fascia di età sotto 65 anni è stata allargata a tutto il nucleo familiare dell’iscritto con aumento del 30% della rendita in caso di presenza di un figlio minore e fino alla sua maggiore età, e raddoppio della rendita in presenza di un figlio già non autosufficiente.
Va dunque rilevato che la tutela è estesa, quindi, anche ai figli fino al ventiseiesimo anno presenti nello stato di famiglia e, qualora l’assistito non risulti autosufficiente, è garantito il pagamento di una rendita annua vitalizia immediata, erogata in rate mensili di 1.100 euro fintanto che il percipiente è in vita. Detto in altri termini, in caso di riconoscimento dello “stato di non autosufficienza” dell’iscritto che ha un figlio minorenne, l’ammontare della rendita annua è pari a 17.160 euro (fino ad oggi era 13.200) fino al raggiungimento della maggiore età del figlio minore. Se invece si tratta di un figlio disabile l’ammontare stesso passa da 13.200 a 26.400 euro.

Novità LTC over 65 anni

Il pacchetto garantito agli over 65 anni, invece, è stato arricchito con ulteriori importanti prestazioni, anche se gli iscritti sono autosufficienti: assistenza fisioterapica a domicilio (nel caso di fratture del femore, delle vertebre o del bacino), assistenza a domicilio tramite operatore socio-sanitario, spesa a domicilio, consegna farmaci presso l’abitazione e custodia animali (queste ultime tre fattispecie previste in caso di fratture del femore, delle vertebre, del bacino o del cranio).
Va anche ricordato che Assidai è da sempre in prima linea sulle coperture Long Term Care, un tema destinato ad avere sempre più peso in Italia e negli altri Paesi europei alla luce del trend di invecchiamento della popolazione e delle difficoltà del Sistema sanitario nazionale.
In Italia non esiste una vera e propria esperienza in ambito di coperture LTC rispetto ad altri Stati. In modo assolutamente innovativo, fin dal 2010, Assidai ha scelto di essere accanto ai propri iscritti introducendo le coperture del rischio di non autosufficienza che, nel giro di pochi anni, hanno visto aumentare il livello delle prestazioni garantite.

Assidai: che cos’è la non autosufficienza

La definizione di non autosufficienza varia in base all’età dell’assistitito. Fino a 65, anni la perdita di autosufficienza avviene quando l’assistito a causa di una malattia, di una lesione o la perdita delle forze si trovi in uno stato tale da aver bisogno, prevedibilmente per sempre, quotidianamente e in misura notevole, dell’assistenza di un’altra persona nel compiere almeno quattro delle seguenti sei attività elementari della vita quotidiana: lavarsi, vestirsi e/o svestirsi, mobilità, spostarsi, andare in bagno, bere e/o mangiare. Dal 66esimo anno di età, la perdita di autosufficienza avviene quando l’assistito è incapace di compiere in modo totale, e presumibilmente permanente, almeno tre delle attività elementari della vita quotidiana (sopra citate) e necessita di assistenza continuativa da parte di una terza persona per lo svolgimento delle stesse.

Presentazione Welfare 24

La parola al Presidente Assidai, Tiziano Neviani

La copertura Long Term Care è un tema di stretta attualità. E lo sarà sempre di più, soprattutto in Italia, viste le dinamiche di invecchiamento della popolazione e le difficoltà finanziarie del Sistema Sanitario Nazionale. Dal canto suo, Assidai su questo fronte ha sempre lavorato in prima linea. Fin dal 2010 i Piani Sanitari includono coperture per la non autosufficienza, nel 2015 il Fondo ha esteso la copertura al coniuge dell’iscritto e da quest’anno inserisce ulteriori garanzie prevedendo novità importanti sia per gli iscritti under che over 65 anni.

Tutti elementi illustrati nel dettaglio nel nuovo numero di Welfare 24, che offre ai lettori anche il prezioso punto di vista di un esperto di welfare aziendale come il Professor Luca Pesenti, il quale evoca la necessità di una svolta “culturale” in questo campo, anche a fronte degli importanti incentivi messi in campo dall’esecutivo negli ultimi due anni.

E a proposito di Governo: dopo 15 anni, il Ministero della Salute ha finalmente aggiornato i Livelli Essenziali di Assistenza (i cosiddetti Lea): il Presidente di Federmanager, Stefano Cuzzilla, sottolinea come si tratti di una decisione “storica” che permette così alla sanità integrativa, cioè anche a noi di Assidai, di concentrarsi più consapevolmente nella funzione di supporto e complementarietà al Sistema sanitario nazionale.

Per una “welfare community”

Il punto di vista di Stefano Cuzzilla, Presidente Federmanager

Dalle analisi Bankitalia sappiamo che negli ultimi anni, complici la contrazione dei fatturati ma soprattutto la sfiducia verso la possibilità di una ripresa economica, gli strumenti di incentivazione della produttività sono stati gradualmente tralasciati dalle imprese italiane. Pertanto, bene ha fatto il governo con questa manovra a confermare l’utilizzo della leva fiscale per sostenere la premialità e, soprattutto, a detassarla ulteriormente quando essa è tradotta in welfare.

Ci piace pensare che la Legge di Bilancio 2017 alimenterà la propensione degli imprenditori verso l’investimento in welfare aziendale in modo da agire più decisamente a livello di contrattazione di lavoro, e stabilizzare, per tutti i settori, il riferimento a sanità e previdenza integrative. Entrambe, più di altri tipi di benefit pur graditi, sono da considerare i pilastri su cui costruire una società più sana e un’economia più competitiva.

Rendiamo queste misure il più possibile strutturali e dotiamole progressivamente di autonomia rispetto al sistema dei premi di risultato: ne deriverà sicuramente un vantaggio condiviso e un nuovo modello di “welfare community” che corrisponde al disegno di Federmanager e delle più moderne politiche di relazione industriale già in atto in altri Paesi.