Incentivi alla sanità per favorire la prevenzione

Analisi dello studio pubblicato dalla rivista di politica sanitaria “Health Affairs”

Essere pagati per andare dalla medico. Oppure per sostenere visite e esami di carattere preventivo. Quello che oggi, messo in questi termini, potrebbe sembrare irrealizzabile o quanto meno utopistico, un domani potrebbe anche diventare realtà. Con obiettivi di fondo diversi a seconda del contesto in cui si applicherebbe questa sorta di “incentivo alla salute”. Nei Paesi in via di sviluppo, dove paradossalmente queste politiche (in particolare in America Latina) vengono già perseguite, l’intenzione è anche quella di spezzare la catena di povertà che condanna determinate fasce della popolazione a non uscire mai dalla propria condizione di indigenza. Nei Paesi occidentali, invece, il tema è un altro: attraverso la prevenzione (in parte sussidiata dallo Stato) si punterebbe a evitare l’insorgere di malattie che costerebbero poi allo Stato stesso, in termini di cure, somme decisamente più elevate. Insomma, la prevenzione – un tema molto importante per Assidai – promossa con un duplice obiettivo: tutelare la salute dei singoli cittadini e preservare la sostenibilità finanziaria del Servizio Sanitario Nazionale, già messo a dura prova dal graduale invecchiamento della popolazione e dalle costanti ristrettezze dei bilanci pubblici.

L’esperimento di New York: incentivi per le famiglie a basso reddito

In questo quadro si colloca un interessante studio, pubblicato recentemente dalla rivista di politica sanitaria “Health Affairs” e coordinato dall’Imperial College di Londra, che in sostanza ha testato il modello degli incentivi sanitari su 2.377 famiglie a basso reddito di New York (l’80.9% monoreddito e praticamente tutte ispaniche o di colore), alle quali per tre anni sono stati corrisposti poco meno di settemila euro. La condizione per ricevere questa somma era quella di garantire per sé e per i propri familiari la frequenza scolastica, l’utilizzo dei servizi sanitari a scopo preventivo (vaccinazioni) e l’impegno dal punto di vista lavorativo da parte dei genitori.

I risultati? Molto interessanti. Innanzitutto – elaborando un confronto statistico con un “gruppo di controllo” di altre 2.377 famiglie a basso reddito della Grande Mela che non hanno goduto degli incentivi – emerge un maggior ricorso alla prevenzione; in secondo luogo, tra gli adulti è migliorata la percezione di essere in salute; infine, aspetto non secondario, sempre tra i genitori c’è un’accresciuta speranza di migliorare la propria condizione finanziaria e sociale. Insomma, è la dimostrazione che il modello degli incentivi alla salute può essere esportato anche nei Paesi occidentali, anche se dallo studio su New York emergono riscontri più deboli rispetto a quelli ottenuti in alcuni Paesi dell’America Latina.

La rinuncia alle cure, anche in Italia

A spiccare, in particolare, è il significativo miglioramento nell’accesso alle cure dentistiche e odontoiatriche, che come risultato del programma sono aumentate tra l’11% e il 14%. Un elemento da non sottovalutare visto che negli Stati Uniti sono una delle cure a cui si rinuncia più spesso (in particolare per quanto riguarda i bambini) considerati i costi elevati della sanità privata in quella nazione.

Va ricordato, sempre nell’ottica di un’eventuale applicazione di questo modello nei Paesi industrializzati, che il fenomeno della rinuncia alle cure si sta diffondendo sempre di più anche in Italia, soprattutto per quanto riguarda accertamenti diagnostici e cure odontoiatriche. Prestazioni, quest’ultime, che evidentemente non vengono percepite come indispensabili, perlomeno nell’immediato, quando una famiglia deve fare i conti con le ristrettezze economiche.

Gli ultimi rapporti eleaborati dal Censis sulla Sanità Pubblica, Privata e Intermediata rivelano che nel 2017 sono stati 12,2 milioni gli italiani che hanno rinunciato a una prestazione sanitaria (o l’hanno rinviata) per ragioni economiche: 1,2 milioni in più, ovvero il 10,9%, rispetto al 2016. Secondo queste ricerche, “si tratta ormai di un comportamento stabile, consolidato e ordinario delle famiglie italiane, una sorta di sanità negata non più eccezionale o legata a difficoltà congiunturali, ma stabilmente presente nella società, i cui effetti nel lungo periodo potrebbero toccare lo stato di salute medio dei cittadini”. Un motivo in più, stante la situazione attuale, per guardare con interesse all’ipotesi degli incentivi alla sanità in termini di prevenzione.  

 

Alcol, fumo e alimentazione: come battere le Malattie Non Trasmissibili

Analisi dati Rapporto Osservasalute 2017 e importanza della prevenzione

Le cosiddette Malattie Non Trasmissibili (MNT) uccidono 40 milioni di persone ogni anno, pari a circa il 70% di tutti i decessi a livello mondiale. In particolare, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), sono quattro i gruppi di malattie killer responsabili dell’80% dei decessi prematuri legati alle MNT:

  • infarto e ictus (17,7 milioni di morti),
  • tumori (8,8 milioni),
  • malattie respiratorie (3,9 milioni principalmente asma e bronco pneumopatia cronico ostruttiva)
  • diabete (1,6 milioni).

XV Rapporto Osservasalute 2017

A rivelare questi dati è il XV Rapporto Osservasalute 2017, pubblicato di recente dall’Osservatorio nazionale sulla salute nelle Regioni italiane (Università Cattolica di Roma), e coordinato dal Direttore dell’Osservatorio e Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), Walter Ricciardi.

Una mappa approfondita sullo stato della Sanità italiana, Regione per Regione, che evidenzia – partendo dai dati aggregati a livello mondiale – come la prevenzione possa giocare un ruolo fondamentale per abbattere le morti legate alle Malattie Non Trasmissibili.

Altri numeri sono lì a dimostrarlo: nel mondo, il fumo di tabacco causa 7,2 milioni di morti ogni anno (compresi gli effetti dell’esposizione al fumo passivo) con previsioni di notevole aumento nel corso dei prossimi anni. All’eccesso di sale, concausa dell’ipertensione, sono attribuibili 4,1 milioni di decessi annuali, mentre all’uso di alcol, non solo l’eccesso, sono legati oltre 3,3 milioni di decessi annuali e più di oltre 200 patologie, tra cui numerosi tipi di cancro. L’insufficiente attività fisica causa 1,6 milioni di morti ogni anno mentre all’aumento della pressione arteriosa sono attribuiti circa il 19% di morti globali, cui seguono in termini di impatto il sovrappeso/obesità, l’iperglicemia (glicemia alta) e l’iperlipidemia (elevati livelli di grassi nel sangue).

A fronte di queste cifre è facile intuire come la semplice prevenzione di comportamenti scorretti (o la pratica di abitudini sane) – due fronti sui quali Assidai, Fondo di assistenza sanitaria integrativo, si è sempre impegnato in prima linea – possono dare risultati e miglioramenti importanti. E su questo punto va dato atto all’Italia di essersi posta un obiettivo importante: la riduzione del 25% delle morti premature da MNT entro il 2025.

L’analisi delle Malattie Non Trasmissibili in Italia

Vediamo ora i principali risultati dell’analisi di Osservasalute sulla diffusione, in Italia, di alcuni dei principali fattori di rischio che determinano la mortalità legata alle Malattie Non Trasmissibili, ovvero fumo, consumo di alcol, alimentazione non corretta ed eccesso di peso.

Fumo, un calo “rallentato”

In Italia i fumatori sono 10,43 milioni, di cui poco più di 6,3 milioni di uomini e oltre 4,1 milioni di donne: si tratta del 19,8% della popolazione di 14 anni ed oltre. Il numero di coloro che fumano è rimasto pressoché costante a partire dal 2014, anche se il numero medio di sigarette accese al giorno continua a diminuire in un trend continuo dal 2001, da una media di 14,7 sigarette nel 2001 a 11,5 del 2016, una variazione che conferma la tendenza alla riduzione di tale abitudine.  La più alta prevalenza di fumatori si continua a registrare in Campania (23,4% della popolazione di 14 anni ed oltre), seguita da Umbria (22,8%) e Basilicata (21,5%); la Calabria invece è in coda alla classifica (15,9%). Altro dato statistico interessante: i fumatori più accaniti sono gli uomini rispetto alle donne (12,5 contro 9,9 sigarette).

Alcol, 1 giovane su 5 a rischio

Nel 2016, la prevalenza italiana dei non consumatori, ossia di coloro che non hanno consumato alcol sia durante l’anno precedente che nel corso della vita (astinenti degli ultimi 12 mesi ed astemi) di età superiore a 11 anni, è stata del 34,4% ed è rimasta pressoché uguale rispetto al 2015. In pratica un italiano su tre non ha mai toccato alcol e non l’ha fatto nell’ultimo anno.

A livello territoriale, inoltre, si rileva un importante incremento dei non consumatori in Abruzzo, Calabria e Piemonte. Passiamo ora alle note dolenti ovvero i consumatori “a rischio”. Per definirli tali si utilizzano le cosiddette Unità Alcoliche: una di esse equivale a un bicchiere di vino da 125 ml o una lattina di birra da 33 ml o un coocktail. Un adulto a rischio, per esempio, è chi dichiara di avere consumato giornalmente (con una certa continuità) due unità alcoliche oppure di averne consumate sei assieme in un’unica occasione; per donne e minorenni le quantità soglia scendono. Ebbene, in Italia i consumatori giovani a rischio (11-17 anni) sono il 20,4% della categoria, gli adulti a rischio sono il 19,2% degli uomini e l’8,5% delle donne e i consumatori anziani a rischio (da 65 anni) il 36,2% degli uomini e l’8,3% delle donne. Si tratta, in generale, di dati stabili rispetto al 2015.

Alimentazione, ancora lontani dall’obiettivo

Qui l’obiettivo è chiaro e ambizioso: consumare almeno cinque porzioni di VOF (Verdura, Ortaggi o Frutta) ogni giorno. Qual è la situazione in Italia? Nel 2016, circa tre quarti (74,5%) della popolazione di 3 anni ed oltre dichiara di consumare giornalmente frutta; meno diffuso il consumo di verdura, che riguarda in media poco più della metà della popolazione (52,6%), e di ortaggi, che risulta pari al 45,9%. I consumi giornalieri di verdura e ortaggi sono più diffusi nelle regioni del Nord e del Centro, mentre al Meridione e al Centro si osservano prevalenze più elevate nel consumo giornaliero di frutta. Prendendo in considerazione le porzioni di VOF consumate giornalmente, si osserva come, in tutte le regioni, il consumo sia diffusamente al di sotto dell’obiettivo delle 5 porzioni e si attesti, principalmente, tra le 2-4 porzioni.

Sovrappeso e obesità, allarme bambini

In Italia, nel 2016, più di un terzo della popolazione adulta (35,5%) è in sovrappeso, mentre poco più di una persona su dieci è obesa (10,4%); complessivamente, il 45,9% dei soggetti di età superiore a 18 anni è da considerarsi in eccesso ponderale (cioè dovrebbe perdere peso). Questi valori presentano sia piccole variazioni statisticamente significative a livello territoriale rispetto al 2015, sia un aumento dell’1% di persone obese e una diminuzione dell’1,4% delle persone in sovrappeso a livello nazionale.  Il vero tema, peraltro, è quello dei minori. I dati (media 2015-2016) mostrano che, in Italia, i bambini e gli adolescenti in eccesso di peso sono una quota considerevole pari al 24,7% con la prevalenza più elevata tra i bambini di età 6-10 anni.

Fattori di rischio delle Malattie Non Trasmissibili

Questo, dunque, il quadro dell’Italia sui fattori di rischio. L’indagine di OsservaSalute evidenza una situazione sostanzialmente stabile nell’ultimo biennio, ma per quanto l’Italia – sotto alcuni aspetti – sia meglio rispetto ad altri partner europei, la strada da percorrere resta ancora parecchia per migliorare la vita e la salute delle persone (specie in età avanzata) e per garantire una piena sostenibilità al Servizio Sanitario Nazionale.

Per concludere, ecco un breve vademecum (cinque regole da tenere sempre a mente) per ridurre i fattori di rischio legati alle Malattie Non Trasmissibili in base all’analisi del Rapporto OsservaSalute:

  • non fumare
  • non bere (o limitare il consumo sotto l’unica alcolica al giorno)
  • consumare cinque o più porzioni di frutta, ortaggi o verdura al giorno
  • evitare situazione di sovrappeso (specie nei bambini) con una corretta alimentazione
  • svolgere attività fisica con regolarità

 

 

Obesità e diabete, allarme in Italia e nel mondo

Innanzitutto è un fenomeno sottostimato. Per ogni tre persone con diabete di tipo 2 diagnosticato ce n’è una che non sa di avere il diabete; inoltre le ultime stime dicono che, per una persona con diabete noto, ce n’è almeno un’altra ad alto rischio di svilupparlo (cioè con ridotta tolleranza al glucosio o elevata glicemia a digiuno).

In secondo luogo è una patologia in forte crescita. In Italia, secondo i dati Istat del 2016, sono oltre 3,2 milioni le persone che dichiarano di avere il diabete, passando così negli ultimi trent’anni dal 2,9% al 5,6% dell’intera popolazione, principalmente per tre motivi: l’invecchiamento generale, l’aumento della sopravvivenza dei malati e l’anticipazione dell’età in cui si diagnostica la malattia.

In terzo luogo, oltre ad essere legato fortemente allo svantaggio socio-economico con significative differenze in Italia a livello regionale e tra città e aree rurali. Il diabete – che conta oltre 74mila morti l’anno (9 persone l’ora) come causa iniziale o associata – impatta fortemente sulla spesa: in media ogni malato spende 2.600 euro l’anno per la sua salute, più del doppio rispetto ai concittadini senza diabete, incidendo per il 5,61% sulla spesa sanitaria e per lo 0,29% sul Pil.

Italian Diabetes & Obesity Barometer Report

Sono questi alcuni dei principali numeri dello studio analizzato in modo approfondito da Assidai considerata la rilevanza del tema: “Italian Diabetes & Obesity Barometer Report”, diffuso nei giorni scorsi e realizzato dall’Italian Barometer Diabetes Observatory  Foundation in collaborazione con l’Istat.

Uno studio approfondito su una malattia di cui purtroppo si parlerà sempre più in futuro – secondo l’OMS nel 2030 sarà la quarta causa di morte al mondo – e che, soprattutto, lancia un allarme sulla “Diabesità”, ovvero sul legame ormai conclamato tra obesità e diabete. Emerge, infatti, che il 44% dei casi di diabete siano attribuibili a situazione di obesità o sovrappeso. Tra i 45-64enni la percentuale di persone obese che soffrono di diabete è al 28,9% per gli uomini e al 32,8% per le donne. C’è un’ulteriore statistica che aumenta le preoccupazioni degli esperti e cioè che il rischio complessivo di morte prematura raddoppia ogni 5 punti di crescita dell’indice di massa corporea: una persona con diabete e sovrappeso ha un rischio raddoppiato di morire entro 10 anni rispetto a un diabetico di peso normale e una persona con diabete e obesa addirittura un rischio quadruplicato.

È opinione generale, osserva il rapporto, che l’obesità abbia ormai i caratteri di una vera e propria epidemia mondiale, tanto da preoccupare non solo il mondo medico scientifico, ma anche i responsabili della salute pubblica. I dati oggi disponibili ci indicano che le persone in sovrappeso, obese o con diabete crescono in tutto il mondo.

In Italia è sovrappeso oltre 1 persona su 3 (36%, con preponderanza maschile: 45,5% rispetto al 26,8% nelle donne), obesa 1 su 10 (10%), diabetica più di 1 su 20 (5,5%) e oltre il 66,4% delle persone con diabete di tipo 2 è anche molto sovrappeso o obeso. In pratica, sono sovrappeso quasi 22 milioni di italiani, obesi 6 milioni, con diabete quasi 3,5 milioni: «diabesi», ossia contemporaneamente obesi e con diabete, circa 2 milioni. Inoltre, secondo alcune stime, i costi diretti legati all’obesità in Italia sono pari a 22,8 miliardi di euro ogni anno e il 64% di tale cifra è speso per l’ospedalizzazione.

Nonostante ciò, l’obesità è una malattia cronica che fino a qualche anno fa è stata sottovalutata ed è, ancora oggi, poco curata. Purtroppo la situazione è ben diversa: l’obesità e il diabete rappresentano un problema di salute particolarmente preoccupante, tanto da configurarsi a livello internazionale come elementi di una “moderna pandemia”.

In quest’ottica agire sulla prevenzione, a più livelli e a diversi stadi della malattia, è fondamentale. La diagnosi tempestiva e il costante controllo delle persone con diabete, grazie a terapie di qualità, riducono del 10- 25% il rischio di complicanze minori (danni agli occhi e ai reni) e del 15-55% il rischio di complicanze più gravi (insufficienza renale cronica, patologia coronarica, perdita della vista). Inoltre, si stima che tali azioni siano in grado di ritardare di oltre 5 anni l’insorgere di complicanze e di prolungare la vita delle persone affette da diabete in media di 3 anni. Nel lungo termine, un simile miglioramento del quadro terapeutico consentirà una riduzione media dei costi di oltre il 30%.

Embolia polmonare: come prevenirla e come combatterla

Pochi sanno che la celebre tennista Serena Williams, dopo avere dato alla luce la propria bambina, è stata colpita da embolia polmonare. Come lei, in Italia, questa malattia spesso sottovalutata (o molto più semplicemente poco conosciuta) colpisce ogni anno una persona su 100 ed è – aspetto forse ancora più rilevante – la causa più probabile di morte nelle donne dopo il parto. Non solo: l’11% di chi incorre in un’embolia polmonare perde la vita entro 30 giorni.

È partendo da questi numeri che ALT, Associazione per la Lotta alla Trombosi e alle malattie cardiovascolari Onlus, mercoledì 18 aprile è scesa in campo con la sua 7° Giornata Nazionale per la Lotta alla Trombosi: una campagna social dedicata quest’anno proprio all’embolia polmonare, una malattia subdola e molto grave, ma che se intercettata in tempo può essere curata. Essa, infatti, altro non è che la conseguenza di trombosi venose gravi le quali, qualora non riconosciute, possono portare alla formazione di un embolo che a sua volta, “viaggiando” lungo tutto il corpo, arriva al polmone e può rivelarsi letale.

Una trombosi venosa non riconosciuta e non curata si trasforma in embolia polmonare in 40 casi su 100. Non solo: se la causa che l’ha determinata non viene eliminata del tutto o se l’embolia non viene curata in modo efficace e tempestivo, può anche ripresentarsi. Se a ciò si aggiunge che i sintomi sono difficili da capire perché spesso si presentano con un dolore addominale improvviso, facilmente scambiabile per un’appendicite acuta o per una peritonite, il quadro è chiaro: per battere l’embolia servono innanzitutto prevenzione e diagnosi precoce, due concetti da sempre sostenuti con convinzione da Assidai per tutto ciò che concerne la salute, anche con specifiche campagne.

Del resto, va anche osservato, in Italia le malattie da trombosi in generale sono la causa di 44 morti su 100 (o di situazione altamente invalidanti): decessi spesso prematuri che si sarebbero potuti evitare in un caso su tre, risparmiando dolore, denaro e distruzione della famiglia.

I sintomi dell’embolia polmonare da non sottovalutare

Scopriamo allora quali sono i principali sintomi dell’embolia polmonare da non sottovalutare per cercare di riconoscerla e batterla in tempo. Tra questi, secondo gli esperti, spiccano: fiato corto, cuore che batte veloce, dolore al dorso o al polmone, tosse e striature di sangue nel catarro, gonfiore di un arto o difficoltà nel respiro. C’è poi un sintomo particolarmente importante e indicativo, non legato al polmone, che può essere invece indice di un’embolia particolarmente grave: è un disturbo legato a un ritmo improvviso del cuore, come se il muscolo cardiaco saltasse nel petto perché non riesce più a spingere il sangue nel polmone. Molto spesso, peraltro, l’embolia polmonare è asintomatica. A maggior ragione è importante riconoscerla in anticipo ove ce ne sia la possibilità perché, pur essendo un evento potenzialmente devastante, se sospettata e curata rapidamente con i farmaci giusti si può mettere il paziente nella condizione di recuperare rapidamente e completamente; se ciò non accade le cose diventano più difficili.

Le categorie più a rischio embolia polmonare

Infine, quali sono le categorie più esposte al rischio di embolia polmonare? Le persone che l’hanno già avuta o in famiglia hanno altri casi di eventi da trombosi, chi è sovrappeso o è costretto a letto per lunghi periodi di tempo oppure chi ha un’ingessatura o è immobilizzato per un intervento chirurgico. In questi casi c’è un modo per prevenire l’embolia polmonare: l’utilizzo di calze elastiche per compressione graduata.

Infine, una considerazione a parte la merita la gravidanza, che è la fase della vita in cui la donna è a più alto rischio di trombosi, in media quadruplicato rispetto al normale. Si verificano infatti tre situazioni che contribuiscono ad incrementarlo: aumenta la quantità del sangue, rallenta la circolazione dello stesso e si rafforzano i fattori che spingono alla sua coagulazione. E nei 25 giorni immediatamente dopo il parto il rischio si moltiplica per 25-60 volte.

Numeri eloquenti che fanno capire come la prevenzione, anche per quanto riguarda trombosi ed embolia polmonare, possa essere una carta vincente sia per il singolo individuo sia per il Servizio Sanitario Nazionale.

App sulla salute: italiani digitali, ma poco attenti alla privacy

Le App per la salute e il fitness sembrano essere diventate un “must” per chiunque, ma la realtà è diversa: in Europa il 73% delle persone non le ha mai usate, anche se il 63% della popolazione sarebbe disponibile o interessata a sfruttarle in futuro.

Questo almeno è quanto emerge dall’ultimo rapporto “Taking the pulse of eHealth in the EU” di Incisive Health International (società con sede a Bruxelles e Londra e specializzata in ricerca e comunicazione sulla sanità) che nei mesi scorsi ha condotto un sondaggio esclusivo in sette Paesi dell’Unione Europea: Austria, Bulgaria, Estonia, Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia. E proprio dal nostro Paese arrivano due dati che spiccano in tutta la ricerca.

Tante app sulla salute e il benessere

In primo luogo, dopo la Francia (40%) siamo il Paesi più propenso ad usare App per la salute con il 35% degli intervistati che ha dichiarato di avvalersene, a fronte per esempio del 18% della Germania, del 19% dell’Austria o del 27% della Gran Bretagna. Un numero che, se da una parte dimostra l’elevata digitalizzazione del nostro Paese, dall’altra tradisce anche una certa propensione a fare da sé in campi, come il benessere e la tutela della salute in generale, che necessiterebbero comunque del parere di un esperto: un trend che ricorda, con le dovute proporzioni, l’atteggiamento di chi cerca diagnosi su Internet (con il relativo ed elevato rischio di imbattersi in contenuti “fake”) anziché rivolgersi al proprio medico, tema già affrontato da Assidai anche nell’articolo “Le bufale sulla salute? Ecco come smascherarle”.

Ma poco interesse per la protezione dei dati

L’altro dato di rilievo che emerge dalla ricerca riguarda il fatto che gli italiani sono i meno preoccupati, tra i partner europei presi in considerazione, dal destino che faranno i dati sanitari immessi (per quanto in forma anonima) nelle varie App: soltanto il 13% dei nostri concittadini cita questo elemento come una possibile criticità contro il 15% della Gran Bretagna, il 16% della Francia e addirittura il 39% della Germania e il 41% dell’Austria. In generale, comunque, la maggioranza delle persone che in tutta Europa ha risposto a questa domanda, per la precisione il 71%, ritiene utile a livello sociale  potere condividere i propri dati sanitari per realizzare ricerche che contribuiranno al benessere collettivo.

In ogni caso, a livello europeo, il quadro che emerge è chiaro, le App per il benessere e il fitness devono ancora realmente essere recepite dalla popolazione: il 73% degli intervistati non le ha mai usate e i tre quarti degli utilizzatori, il restante 27%, ha meno di 34 anni; in ogni caso la maggior parte di coloro che ricorrono a queste App le utilizza, comunque, soltanto meno di una volta alla settimana. Nel dettaglio, il 13,5% degli utenti le consulta ogni giorno, il 35,5% le apre una volta alla settimana, il 15,5% una volta al mese, il 27% una volta l’anno e l’8,5% ha scaricato almeno una App sulla salute ma non l’ha mai sperimentata. Altro tema cruciale è ovviamente il tipo di App utilizzata: quasi in tutti i Paesi, e in Italia soprattutto, l’obiettivo è quellodi capire come stare in forma e mantenersi sani, monitorando attività fisica e dieta. Nello specifico, il 55% degli italiani usa le App per mantenersi sani, il 50% per controllare il proprio stato di salute, il 30% per conoscersi meglio, il 20% per archiviare i propri dati sanitari e solo il 15% per monitorare una condizione patologica specifica. Un aspetto confortante? A differenza di altri Paesi si scopre che gli italiani usano meno le app per gestire malattie conclamate come ipertensione o diabete: appunto il 15% contro il 25% di Germania e Francia.

C’è un’ultima domanda affrontata dallo studio: che cosa potrebbe spingere le persone ad usare di più le App per benessere e fitness? In questo caso il 31% chiede con forza regolamentazione, trasparenza e controllo mentre il 20% sottolinea che ci sono troppe app a pagamento e il 18% caldeggia un controllo completo sui tempi di stoccaggio dei dati da parte delle aziende che hanno ideato le app stesse.

Insomma, l’universo delle App per la salute si dimostra variegato e con varie sfaccettature e proprio per questo – secondo la ricerca – necessita di un intervento e di una regolamentazione a livello europeo, visto che si tratta pur sempre di argomenti delicati che non possono dunque essere trattati da chiunque e con estrema superficialità.

 

Quanto sale ogni giorno: i consigli della SINU

Dimezzare da 10 a 5 grammi al giorno il consumo abituale di sale riduce del 23% il pericolo di avere un ictus e del 17% il rischio di avere una malattia cardiaca. Bastano queste statistiche per intuire l’obiettivo della recente Settimana Mondiale 2018 “Meno Sale più salute” che ha puntato il dito su un problema troppo spesso sottovalutato nelle nostre abitudini alimentari, cioè l’eccessivo consumo di sale.

L’iniziativa è stata promossa dalla Società Italiana di Nutrizione Umana, in collaborazione con il Gruppo di lavoro intersocietario per la riduzione del consumo di sodio in Italia, nell’ambito della più ampia campagna organizzata a livello mondiale da World Action on Salt and Health (Wash) – Wolfson Institute of Preventive Medicine – Queen Mary University of London. Ma su questo fronte, va ricordato, si è sempre dimostrato attivo anche il nostro Ministero della Salute sulla base di un dato di fatto preoccupante: in Italia l’uso medio di sale procapite è stimato pari a circa 10 grammi giornalieri (ma c’è chi arriva a 15), il doppio rispetto al limite massimo di 5 grammi fissato dall’Organizzazione mondiale per la sanità. Ridurre gli eccessi nel consumo di sale significa abbattere le probabilità di avere ictus o malattie cardiache: questo conferma un tema affrontato più volte da Assidai nel corso di convegni e sulla propria newsletter “Welfare 24”, realizzata in collaborazione con “Il Sole 24 Ore”, ovverosia che fare prevenzione, anche a tavola, è molto importante per il proprio benessere psico-fisico.

5 regole per consumare la giusta quantità di sale

Analizziamo la situazione iniziando a ragionare con qualche esempio pratico, che spieghi numeri all’apparenza di difficile comprensione: una colazione a base di latte e cereali contiene già mezzo grammo di sale. Invece, un pranzo che prevede spaghetti alle vongole (1,5 grammi di sale), un’insalata di tonno e mais (3 grammi), pane (0,4 grammi) e gelato (0,5 grammi) supera già il tetto fissato dall’Oms e si posiziona a 5,4 grammi di sale. Finiamo con una cena con pasta alle acciughe (3,3 grammi), 80 grammi di prosciutto crudo (3,3 grammi), pane (0,4 grammi) e una fetta di cheesecake (0,5 grammi) e si consumano altri 7,5 grammi di sale per arrivare a un totale giornaliero abnorme e cioè 15 grammi di sale, che fanno quasi mezzo chilo al mese. Un’obiezione potrebbe essere rappresentata dal fatto che non abbiamo preso a modello dei pasti particolarmente leggeri. È vero, tuttavia, non abbiamo tenuto conto dei vari spuntini e snack (spesso salati, talvolta vero e proprio “junk food”, il cosiddetto cibo spazzatura) consumati tra un pasto e l’altro e che, spesso, molti alimenti contengono già di per sé sale e non ne siamo a conoscenza.

Come fare dunque per diminuire il consumo di sale? Ecco cinque regole d’oro da seguire secondo lo studio analizzato:

  1. fare un generoso uso di erbe e spezie al posto del sale e limitare il gusto di condimenti contenenti sodio (come dado da brodo, ketchup, salsa di soia o senape): il nostro gusto si abituerà rapidamente.
  2. preferire frutta e verdura fresche e limitare il consumo di piatti industriali e sughi già pronti; risciacquare il più possibile le verdure e i legumi in scatola, moderando al tempo stesso il consumo di formaggi (preferendo per esempio quelli freschi agli stagionati) e salumi.
  3. controllare l’etichetta presente sui singoli prodotti che acquistiamo e scegliere quelli meno salati (diversi alimenti subiscono, infatti, trattamenti industriali che li rendono più salati).
  4. scegliere pane, cracker e prodotti da forno meno salati che renderanno la dieta più salutare. Per uno spuntino meglio preferire frutta e spremute.
  5. eliminare la saliera: cosa che incoraggerà i più giovani a non aggiungere ai piatti condimenti salati. Quando possibile, aggiungere meno sale alle ricette: pasta e riso, per esempio, possono essere cotti in acqua poco salata.

Puntare sul sale iposodico

Tutti questi discorsi, ovviamente, non devono spingerci verso l’eccesso opposto e cioè il totale abbandono del consumo di sale, anche perché l’organismo non produce il sodio contenuto nel sale stesso: dunque abbiamo bisogno di introdurlo nella dieta, ma non in eccesso. Piuttosto meglio propendere per i cosiddetti sali iposodici, cioè prodotti a basso apporto di cloruro di sodio, sostituito generalmente dai sali di potassio, che però hanno un sapore amarognolo e per questo il prodotto finale, a fronte di un costo superiore a quello del comune sale da cucina, è talvolta poco gradito. Ancora meglio sarebbe l’utilizzo di sale iposodico iodato e cioè addizionato artificialmente di iodio sotto forma di ioduro o iodato di potassio. Va ricordato che il sale iodato è la soluzione proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) per ridurre i disordini da carenza iodica: esistono infatti delle aree del pianeta, tra cui l’Italia, in cui l’apporto dietetico di questo minerale è particolarmente basso e purtroppo ciò può causare gravissimi problemi di salute.

Insomma, per preservare la nostra salute e prevenire malattie invalidanti (come l’ictus) dobbiamo riporre grande attenzione su ogni aspetto della nostra alimentazione, compresi i condimenti e ovviamente il principale di essi cioè il sale, che va assunto nelle giuste quantità e senza esagerare né in un senso né nell’altro.

Le bufale sulla salute? Ecco come smascherarle

Un mal di testa più forte del solito, un dolore al fianco che non abbiamo mai avuto oppure una tosse troppo insistente. Alzi la mano chi, di fronte a un malessere o a un sintomo che non riesce a decifrare, in prima battuta non abbia avuto la tentazione di cercare la risposta su Internet anziché rivolgersi al medico. Del resto sembra così facile: basta andare su un qualsiasi motore di ricerca, digitare due o tre parole chiave e il gioco è fatto. Ecco che si può leggere subito una diagnosi (o un ventaglio di malattie, spesso una più grave dell’altra) che apparentemente sembra perfetta. Peccato che sia quasi sempre sbagliata e che il più delle volte ci faccia sprofondare nell’inquietudine e, talvolta, nel panico.

Benvenuti nello “splendido” o, sarebbe il caso di dire, terribile mondo delle fake news sulla salute. “Bufale e falsi miti” che l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), con un’iniziativa avviata nelle scorse settimane, ha deciso di smascherare e denunciare, partendo appunto da un preoccupante dato di fatto: almeno un italiano su tre, secondo una recente indagine del Censis, naviga in rete per ottenere informazioni sulla salute e di questi, oltre il 90,4% effettua ricerche su specifiche patologie.

Per questo, l’Istituto Superiore di Sanità ha deciso di smascherare le 150 bufale sulla salute più frequenti (che ben presto saliranno a 400) in una sezione realizzata ad hoc sul proprio sito. L’obiettivo? Lo chiarisce il Presidente dell’ISS, Prof. Walter Ricciardi (intervsitato anche su Welfare 24, newsletter di Assidai su altri temi importanti):

“È necessario offrire ai cittadini che sempre più spesso consultano il web per motivi di salute, trovando tutto e il contrario di tutto, un approdo sicuro, un punto di riferimento rigoroso e autorevole. In altre parole, un’informazione certificata all’origine che contribuisce all’equità e alla sostenibilità del nostro sistema sanitario”.

Come ha ricordato Assidai, analizzando numerosi rapporti e indagini di mercato, infatti, gli sprechi del Sistema Sanitario Nazionale derivano anche da un approccio non corretto da parte dei pazienti, che talvolta si rivolgono subito a uno specialista (convinti erroneamente di avere una determinata patologia) anziché passare prima dal medico di base.

Il portale messo da punto dall’Istituto Superiore di Sanità analizza le fake news attinenti a 15 ambiti: alimentazione, attività fisica, fumo, alcol e droghe, vaccini, farmaci, screening, sessualità, salute della donna, infanzia, salute mentale, trapianti e donazioni, malasanità, migranti, ricerca e Internet. Ognuno di essi ha le sue bufale con la relativa spiegazione. Qualche esempio? “Bere solo birra fa meno male che bere altri alcolici”, “Più sudo e più dimagrisco”, “Fare attività fisica in gravidanza è troppo pericoloso”, “Sono giovane e sto bene, non ha senso che faccia il Pap Test”, “Il taglio cesareo è sempre la soluzione migliore perché non si soffre”.

Troppo banali? Ecco allora delle fake news ancora più subdule: “Lo zucchero di canna è migliore di quello bianco”.  Falso: nessuno studio scientifico ha mai provato che lo zucchero di canna apporti maggiori benefici rispetto allo zucchero bianco. Entrambi contengono, infatti, esattamente la stessa molecola, il saccarosio mentre il processo industriale al quale viene sottoposto, lo zucchero per diventare bianco non danneggia il prodotto. Oppure: “Se hai bisogno di ferro mangia tanti spinaci”. Falso anche questo, poiché gran parte del ferro che contengono queste verdure è inutilizzabile come nutriente perché presente insieme a sostanze che ne inibiscono l’assorbimento nell’intestino.

Insomma, una sezione web – quella messa a punto dall’Istituto Superiore di Sanità – decisamente utile e soprattutto educativa per tutti coloro che si affidano troppo spesso alla giungla di Internet, anziché ai medici, per risolvere i propri problemi di salute. Prendere visione di quanto ideato dall’ISS e informarsi diventa, così, un modo quasi divertente per costruirsi una corazza difensiva dalle bufale più pericolose perché riguardano la nostra salute.

Ora la copertura LTC (Long Term Care) preoccupa anche i giovani

Se la sua azienda le offrisse prestazioni di welfare quali le risulterebbero più utili? Al primo posto, con grande distacco, vince la voce relativa all’area salute e sanità, intesa come “assistenza sanitaria in caso di malattia, autosufficienza e infortuni” con il 53,8% delle preferenze. Ma la vera notizia, contenuta nel primo e recente rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, è un’altra.

A votare in massa per questa opzione sono i giovani di età compresa tra 18 e 34 anni (i cosiddetti Millennials) con il 49,5%, più del doppio rispetto a quanto raccolto da altre due opzioni che, a prima vista, potevano incontrare maggiormente i loro favori come “acquisti da negozi a prezzi convenzionati” e “palestra o spazi benessere aziendali”, che si fermano rispettivamente al 22,8% e al 23,8%. Bisogna precisare che la voce “salute e sanità” riscuote maggior successo tra i lavoratori del Nord-Ovest (56,8%) e quelli con figli (56,4%), i Baby Boomers, cioè coloro di età compresa tra 35 e 64 anni (55,4%) e le donne (54,7%). Tuttavia, è estremamente rilevante che il tema delle prestazioni per la non autosufficienza Ltc (Long Term Care) – su cui Assidai si muove da sempre all’avanguardia– stia finalmente facendo breccia in un Paese, l’Italia, in cui è stato spesso sottovalutato.

La copertura LTC (Long Term Care) “libera” le donne sul lavoro

Lo studio Censis-Eudaimon evidenzia un altro tema chiave attinente alla copertura per la non autosufficienza e che rischia di penalizzare il percorso professionale delle donne. “Il ritardo rilevante con cui il nostro welfare si va ridefinendo per la nuova composizione dei bisogni sociali, dall’infanzia alla non autosufficienza, mette sotto pressione le donne forzandole spesso ad una scelta di uscita, temporanea o definitiva dal mercato del lavoro”, sottolinea la ricerca. In parole povere, quando c’è da mettere una pezza in famiglia – che sia accudire i figli o prendersi cura dei genitori anziani – molto spesso è la donna a dover sacrificare la propria vita lavorativa.

Una distorsione che potrebbe essere attenuata o eliminata sottoscrivendo una adeguata copertura per la non autosufficienza. E su questo aspetto, si osserva, c’è peraltro anche una convergenza di interessi tra il lavoratore e l’azienda, che preferisce sicuramente avere dipendenti “disponibili, non troppo stressati e focalizzati sugli obiettivi professionali”, anziché costretti a “tappare i buchi del welfare pubblico che si va ritirando” o la mancata organizzazione familiare su determinate emergenze. Al proposito, va ricordato che proprio un anno fa Assidai ha impresso una nuova svolta sui servizi socio-sanitari forniti con continuità a persone che necessitano di assistenza permanente a causa di disabilità fisica o psichica. E se nel 2015 la copertura era stata estesa anche al coniuge o al convivente more uxorio dell’iscritto, nel 2017 sono state introdotte novità molto positive e rilevanti per i propri assistiti.

Sul welfare aziendale vince la sanità

In generale, come detto, dal rapporto Censis-Eudaimon emerge che le prestazioni più richieste di welfare aziendale sono quelle relative all’area della salute e della sanità, con il 53,8% delle preferenze, seguita da previdenza integrativa (33,3%) e buoni pasto/mensa aziendale (31,5%). Secondo lo studio inoltre, il welfare aziendale ha un valore potenziale di 21 miliardi di euro: una cifra decisamente elevata ma che per essere raggiunta necessita ancora di molto lavoro su tutti i fronti, ovvero da parte dello Stato, delle aziende e degli stessi fondi integrativi. Del resto, la conoscenza di questa opportunità è ancora scarsa se si pensa che solo il 17,9% dei lavoratori italiani – stando ai numeri rivelati da Censis-Eudaimon – sa esattamente di cosa si stia parlando, mentre il 58,5% padroneggia queste nozioni soltanto “a grandi linee” e il 23,6% non ne sa nulla.

Poi c’è la classica domanda “da 1 milione di dollari”: meglio le prestazioni di welfare o gli aumenti in busta paga? Di fronte alla possibilità di trasformare premi annuali in welfare (con i vantaggi fiscali concessi dalle ultime Leggi di Bilancio), il 58,7% di lavoratori sceglie la prima ipotesi e solo il 23,5% la seconda. Ad essere più favorevoli sono i dirigenti e quadri (73,6%), i lavoratori con figli piccoli, fino a 3 anni (68,2%), i laureati (63,5%) e i lavoratori con redditi medio-alti (62,2%) mentre si scende con gli operai (41,3%) e gli impiegati (36,5%). Infine il welfare aziendale migliora il clima nelle imprese poiché contribuisce a una “visione meno conflittuale del rapporto tra lavoratori e impresa e meno unilaterale dal punto di vista dei ruoli e della distribuzione del valore creato”: lo pensa il 47,7% dei lavoratori interpellati mentre il 16,8% ritiene che possa aumentare la produttività dei lavoratori stessi.

 

Focus sulla prevenzione cardiovascolare nelle donne

Chiudete gli occhi e pensate a un paziente tipo colpito da un infarto: molto probabilmente immaginate un uomo di mezza età, che fuma, sovrappeso e che ha il diabete. “In realtà questo è solo uno stereotipo: gli attacchi di cuore possono colpire un ampio spettro di persone, compreso ovviamente l’universo femminile”. A dirlo è Chris Gale, professore di medicina cardiovascolare all’Università di Leeds nel North Yorkshire, Regno Unito e coautore di uno studio, pubblicato sul “Journal of the American Heart Association” e realizzato insieme con il prestigioso Karolinska Institutet di Stoccolma. Il risultato del suo lavoro? Una disparità di genere nel trattamento, pre e post infarto, che porta a una mortalità più elevata delle donne rispetto agli uomini. Non solo, ci sono altri studi – realizzati invece negli ultimi anni proprio dall’American Heart Association – che rivelano come, tra le donne stesse, ci sia un problema di consapevolezza delle malattie cardiache: nel senso che persiste un gap tra il rischio percepito e quello reale con una conseguente e mancata prevenzione.

Prevenzione: fattore chiave per la salute

Tutti sanno, ormai, come la prevenzione rappresenti un fattore chiave sia per la salute personale sia per preservare gli equilibri del Sistema Sanitario Nazionale. Anche per questo Assidai è da sempre in prima linea su questo fronte: i responsabili delle risorse umane e i decision maker aziendali, chiamati a valutare l’inserimento nella propria struttura societaria di un Fondo sanitario come benefit per i dipendenti, possono dare la giusta rilevanza alla prevenzione poiché i nostri Piani Sanitari sono “taylor made”, o per dirla in italiano “cuciti su misura”.

Solo a titolo di esempio, i Piani Sanitari per le aziende, dedicati a coloro che non hanno un fondo sanitario primario, prevedono – sia per il capo nucleo sia per il coniuge – alcuni accertamenti diagnostici, a scopo preventivo, che riguardano il sistema cardiocircolatorio. Nel dettaglio il check-up donna (gino-test) prevede un esame mammografico, un pap-test e un esame elettrocardiografico; il check-up uomo (andro-test) annovera invece elettrocardiogramma a riposo e da sforzo, esame radiologico del torace ed esami del sangue. Va infine ricordato che gli specifici esami saranno riconosciuti solo se effettuati in un’unica soluzione e in forma diretta presso le strutture convenzionate Assidai.

Le donne curate in ritardo e con “leggerezza”

Il lavoro condotto sull’asse Leeds-Stoccolma ha esaminato per 10 anni 180.368 pazienti svedesi che avevano avuto un infarto miocardico acuto e ha evidenziato che le donne mostravano una mortalità più elevata rispetto agli uomini (addirittura doppia nel caso di un secondo infarto gravo entro un anno dal primo attacco). Con un particolare da non sottovalutare: la mortalità stessa diventava simile a quella maschile nei gruppi di donne che ricevevano gli stessi trattamenti indicati della linea guida per affrontare d’urgenza l’infarto miocardico acuto.

La teoria è la seguente: le donne vengono curate più tardi e con maggiore leggerezza – tendenzialmente – rispetto ai pazienti uomini, per i quali invece si tende a sospettare subito l’infarto. E i numeri confermano inequivocabilmente questo modus operandi. Già al pronto soccorso, secondo la ricerca, le donne avevano meno probabilità di ricevere gli stessi test diagnostici, portandole ad avere il 50% in più di probabilità di ricevere una diagnosi sbagliata. La “forbice” si allarga ulteriormente in una seconda fase: le donne che hanno subìto un infarto miocardico acuto avevano il 34% di probabilità in meno di ricevere procedure che disostruiscono le arterie bloccate, il 24% di probabilità in meno di godere di terapie per prevenire il secondo infarto e il 16% in meno di probabilità che venga loro prescritto l’acido acetilsalicilico, cruciale per prevenire la formazione di nuovi coaguli di sangue.

Il rischio infarto è poco percepito dalle donne

L’American Heart Association è molto attiva sul fronte delle disparità di genere nel trattamento dell’infarto. In uno studio diffuso l’anno scorso ha sottolineato che quando una donna giovane è colpita da infarto, spesso sottovaluta la situazione, arriva tardi al pronto soccorso e, una volta in ospedale, ha una probabilità doppia di morire rispetto a un uomo della stessa età e con gli stessi sintomi. Non solo: il numero di donne che muoiono ogni anno per patologie cardiovascolari è paragonabile a quello delle donne che muoiono per tumore al seno nella stessa classe di età.

Scarsa prevenzione cardiovascolare per le donne

E qui entra in gioco un altro fattore chiave: la percezione del rischio di malattie cardiache da parte delle donne, che purtroppo è ancora inferiore rispetto a quello “reale” con gravi ripercussioni a livello di mancata prevenzione. In particolare, su un campione di oltre 1.000 donne intervistate in tutta America (uniformemente distribuite tra tutte le classi sociali e le razze), molte di loro hanno dichiarato di essere preoccupate molto più del cancro che delle malattie cardiovascolari, cosa che ha permesso alle campagne di prevenzione oncologiche di funzionare meglio. E ciò nonostante le malattie cardiovascolari siano ormai stabilmente la prima causa di morte per le donne negli Stati Uniti con il 41,3% (più di tutte le forme di cancro messe assieme) con oltre mezzo milione di decessi l’anno. E’ anche vero che, negli ultimi anni, le cose sono comunque migliorate: in un altro studio è emerso che dal 2004 al 2014, la coscienza di essere ipertesi è aumentata dal 65,8% al 67,4% e nelle donne lo stesso valore si è portato dal 53% al 55%. E tutti, o quasi, sanno come controllare la pressione arteriosa sia uno dei fattori più importanti per migliorare la sopravvivenza.

 

 

Test CancerSEEK, biopsia liquida per scovare il cancro

Assidai, Fondo di assistenza sanitaria integrativa, ha analizzato con interesse un recente studio il cui nome in codice è “CancerSEEK”, condotto da un team di ricercatori – tra cui anche un mini pool di italiani – guidati da Nickolas Papadopoulos della Johns Hopkins University di Baltimora (Stati Uniti). Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Science e ha utilizzato una tecnica innovativa: analizzare sia il DNA mutato del cancro, che circola liberamente nel sangue, sia alcune proteine prodotte sempre dal tumore e per questo presenti a livelli anomali nell’organismo. Con un obiettivo ambizioso: mettere a punto una biopsia liquida, cioè uno speciale test del sangue che consentirebbe di scoprire, con particolare anticipo, quelli che sono gli indicatori tipici del tumore. Se si se centrasse questo risultato (più che insperato e ad oggi ancora molto lontano) potrebbero essere avviati robusti programmi di screening, per riuscire a intervenire in maniera precoce attraverso i trattamenti prima che il cancro emerga, ovvero sia visibile, per gli attuali strumenti di diagnostica.

Tuttavia, dato che la materia è delicata, prima di addentrarsi in un’analisi più approfondita del lavoro dell’Università di Baltimora è utile fare una precisazione: si tratta di un semplice studio e ad oggi nel mondo non ci sono, purtroppo, ancora test del sangue che consentono di rivelare in anticipo la presenza di un tumore.

Tecnica e numeri della ricerca: scovato il 70% dei tumori già diagnosticati

Nel dettaglio, il test è stato condotto su una popolazione di 1.005 pazienti oncologici, che avevano già ricevuto la diagnosi per otto differenti tipi di tumore (al fegato, allo stomaco, alle ovaie, al pancreas, all’esofago, al colon-retto, al polmone o alla mammella), senza metastasi, di stadio incluso tra il I e III, mentre il cosiddetto gruppo di controllo (per verificare il tema dei “falsi positivi”) era costituito da una popolazione di 812 persone sane, prive di qualsiasi storia pregressa di cancro e malattie autoimmuni. “CancerSEEK” ha poi valutato 8 biomarcatori proteici, per determinate tipologie di cancro e delle mutazioni genetiche presenti in 16 geni del DNA tumorale in circolo.

Vediamo adesso i risultati del test, che in futuro potrebbe costare una cifra relativamente sostenibile e pari a circa 500 dollari. A partire dal numero più importante: “CancerSEEK” è stato in grado di rilevare la malattia in circa il 70% degli individui ai quali era già stato diagnosticato un tumore. La percentuale, tuttavia, cambiava a seconda del tipo di cancro: quello alle ovaie è stato scovato nel 98% dei casi (all’incirca come quello al fegato), attorno al 70% si sono posizionati stomaco e pancreas, per poi scendere fino al 33% del seno. Ci sono altri dati estremamente significativi da segnalare. Il test è stato in grado di individuare l’organo in cui la malattia aveva messo radici in circa il 63% dei pazienti. Tuttavia, ha ottenuto risultati migliori sui tumori in stadio avanzato rispetto a quelli precoci, trovando il 78% della malattia al III stadio rispetto al 43% dei tumori al I stadio (cosa che rappresenta comunque un risultato più che rispettabile, secondo gli esperti). Infine i falsi positivi, cioè gli individui sani in cui il test ha invece rilevato la presenza di un cancro, sono stati soltanto l’1%.

Le sfide e gli sviluppi futuri: un nuovo studio su 10 mila individui

Come giudicare questi risultati? Per farlo è necessario una premessa: i test come CancerSEEK sono particolarmente difficili da mettere a punto perché i tumori di piccole dimensioni non liberano tanto DNA nel sangue, come invece fanno quelli più grandi. Inoltre c’è il tema dei falsi positivi: un risultato errato può causare alle persone stress eccessivo e portare a trattamenti non necessari e potenzialmente dannosi. Il tema vero è tuttavia il seguente: CancerSEEK riuscirà a rilevare anche tumori non diagnosticati e cioè a uno stadio in cui la cura ha alte probabilità di successo? Un obiettivo simile forse sarà raggiungibile soltanto tra diversi anni. Nel frattempo, tuttavia, Nickolas Papadopoulos e il suo team hanno già avviato uno studio che testerà lo screening “CancerSEEK” su una popolazione di almeno 10.000 individui sani.