Legge Sirchia, 20 anni dopo meno fumatori e malati

Vent’anni fa, per l’esattezza il 16 gennaio 2003, veniva approvata la “Tutela della salute dei non fumatori”, anche nota come “legge Sirchia”, una delle norme più coraggiose a tutela della salute pubblica.

Girolamo Sirchia era l’allora Ministro della Salute, che riuscì a condurre in porto quella che, per diversi anni, era sembrata un’impresa quasi impossibile: affermare il diritto delle persone di non essere esposte al fumo passivo. A ben venti anni di distanza quali sono stati gli effetti di questa svolta sulla salute degli italiani e sul numero di fumatori nel nostro Paese? La risposta è: sicuramente positiva, anche se – in particolare per il secondo aspetto – l’ultimo triennio, segnato dal Covid, ha registrato una preoccupante inversione di rotta.

La nascita della legge Sirchia

Che cosa prevedeva la Legge Sirchia? Innanzitutto va ricordato che tre anni prima, un altro ministro della Salute, il Professor Umberto Veronesi, uno dei più famosi oncologi del nostro Paese, aveva provato a promuovere senza successo un provvedimento simile. La norma del 2003 di Sirchia sarebbe entrata in vigore soltanto il 10 gennaio 2005 e si proponeva di proteggere la salute dei non fumatori in tutti i luoghi chiusi.

Niente più fumo passivo obbligato, quindi, alla macchinetta del caffè in ufficio, al bancone del bar, in pizzeria, sui treni. Oltre al divieto di fumo, dovevano essere affissi cartelli appositi, identificati i responsabili dell’applicazione della norma, previste multe per i fumatori che la violavano e per gli esercenti inadempienti, fissati stretti criteri per le aree fumatori, dove consentite (ventilazione, superfici, collocazione, barriere, segnalazioni).

Contrariamente alle più fosche aspettative, – ricorda un approfondimento sul sito della Fondazione Umberto Veronesi – quando i nuovi limiti entrarono in vigore, nel 2005, la gente non smise di uscire per mangiare, bere e incontrarsi. Ma si adattò e, anzi, accolse la misura con favore. Un’indagine dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) sui proprietari di pub e ristoranti rilevò che dopo l’entrata in vigore della legge antifumo solo il 2% aveva registrato proteste da parte dei clienti, favorevoli nel 76% dei casi, e solo l’11% aveva riportato perdite finanziarie significative.

Nel 2005, il 90% degli italiani intervistati si dichiarava a favore dei limiti al fumo nei luoghi chiusi e nel 2006 l’88% riteneva che la norma fosse rispettata senza problemi. Questa tendenza si è rafforzata nel tempo ed è cambiata anche la percezione del fumo nei luoghi privati: nel 2008 il 70% degli italiani dichiarava di non consentire il fumo in casa, in nessuna stanza, nel 2021 la percentuale era salita all’88,6%.

Il calo del numero di fumatori

Ma la domanda chiave che tutti ci poniamo è: avere vietato il fumo nei locali pubblici ha ridotto la percentuale di italiani tabagisti?

In linea generale sì, anche se non nelle fasce più adulte della popolazione. E si è registrato un calo anche nella media di sigarette fumate ogni giorno. Va precisato che i dati differiscono in base alla fonte utilizzata. In questo caso la scelta è di affidarsi ai numeri di Istat, elaborati da Info Data de Il Sole 24 Ore, che partono dal 2001 e arrivano fino al 2021. I dati evidenziamo che all’inizio del secolo il 23,7% degli italiani aveva il vizio del fumo. Una percentuale che, vent’anni più tardi, si è ridotta al 19%. Dato, quest’ultimo, in aumento rispetto al 18,4% riscontrato prima della pandemia, anche se non è chiaro se sia stato il lockdown a contribuire all’aumento.

Altro aspetto interessante è la riduzione della media di sigarette fumate ogni giorno. Nel 2001 il fumatore medio ne accendeva 14,6 ogni giorno, ovvero tre quarti di un pacchetto. Una cifra che due anni fa è scesa a 11, ovvero poco più di metà pacchetto. I trend cambiano se i dati vengono analizzati per fasce di età. Per esempio, tra chi ha un’età compresa fra i 60 e i 75 anni, la percentuale di fumatori è in aumento: dal 15% del 2001 al 20,5% del 2021. Allo stesso modo, nella fascia tra i 65 ed i 74 anni si è passati da un 13,1% di tabagisti al 15,1%.

In calo patologie asmatiche e coronariche

E gli effetti sulle patologie? Qui ci viene in soccorso uno studio della Società italiana di allergologia, asmologia e immunologia clinica che evidenzia un bilancio positivo.

Sono, infatti, diminuiti del 10-15% gli accessi al pronto soccorso e i ricoveri dei pazienti asmatici, anche tra i più piccoli. “I progressi ottenuti negli ultimi 20 anni rappresentano un importante risultato di salute pubblica”, sottolineano gli esperti della società.

Tra i benefici della legge 3/2003, l’Istituto Superiore di Sanità evidenzia anche la riduzione degli eventi coronarici acuti registrata in Italia tra il 2004 e gli anni successivi all’introduzione della legge, “con valori che vanno dal -4% al -13% dei ricoveri per infarto tra le persone in età lavorativa”. In generale – va ricordato – i dati elaborati e comunicati dal Ministero della Salute nel maggio 2022 dicono che in Italia siano attribuibili al fumo oltre 93.000 morti all’anno (il 20,6% del totale di tutte le morti tra gli uomini e il 7,9% del totale di tutte le morti tra le donne) con costi diretti e indiretti pari a oltre 26 miliardi di euro.

Assidai e la prevenzione primaria

Un Fondo di assistenza sanitaria integrativa come Assidai promuove costantemente, sia nel corso degli eventi che sui propri organi di comunicazione, l’importanza di stili di vita corretti e di un’alimentazione appropriata perché il benessere dei manager e delle loro famiglie è al primo posto.

Il tabacco e l’alcol rappresentano fattori di rischio elevati e contribuiscono in modo importante allo sviluppo di molti tumori, oltre che per le patologie cardiocircolatorie. Ridurre, quindi, al minimo il consumo di alcolici, evitare il fumo, seguire un’alimentazione equilibrata e una dieta varia, che comprenda almeno cinque porzioni di frutta e verdura al giorno, ed effettuare attività fisica (o semplice movimento) con regolarità sono i capisaldi della prevenzione primaria, il principale strumento a nostra disposizione per evitare l’insorgenza di malattie croniche.

Ricordiamo che Assidai è presente sul mercato da oltre 30 anni e nasce nel 1990 da un’intuizione di Federmanager come Fondo sanitario integrativo del Fasi. Nel corso degli anni ha esteso il proprio campo d’azione proteggendo anche coloro che sono iscritti ad altri fondi primari diversi dal Fasi e tutelando non solo i manager delle aziende industriali, ma anche quadri e alte professionalità. Tra i vantaggi sottolineiamo il fatto che gli iscritti possono fruire di un’eccellente rete di strutture sanitarie presente in modo capillare su tutto il territorio nazionale.

Sostanze chimiche, rischi per la salute e per l’apparato riproduttivo

Le sostanze perfluoroalchiliche, i cosiddetti Pfas, possono interferire con la fertilità influenzando la produzione di ormoni e, in sostanza, alterando il sistema riproduttivo attraverso svariati meccanismi, alcuni dei quali insospettabili. Ad affermarlo è un recente studio pubblicato su Cell, autorevole rivista inglese di biologia, e realizzato da un pool di ricercatori del consorzio GeneraLife, gruppo europeo di cliniche specializzate in medicina della riproduzione, in collaborazione con il laboratorio di Biologia dello sviluppo dell’Università di Pavia.

Ma di che materiali stiamo parlando esattamente? In questo caso, per una spiegazione, ci viene in soccorso il sito del Ministero della Salute: Pfos (acido perfluoroottansulfonico) e Pfoa (acido perfluoroottanoico) appartengono alla famiglia delle sostanze organiche perfluoroalchiliche (Pfas), si spiega.

Entrambi sono composti chimici, prodotti dall’uomo e pertanto non presenti naturalmente nell’ambiente, stabili, contenenti lunghe catene di carbonio, per questo impermeabili all’acqua e ai grassi. Grazie alle loro caratteristiche essi vengono utilizzati in prodotti industriali e di consumo per aumentare la resistenza alle alte temperature, ai grassi e all’acqua, di tessuti (in particolare i cosiddetti “prodotti tecnici” utilizzati per fare sport), tappeti ed abbigliamento, rivestimenti di carta ad uso alimentare, di pentole antiaderenti, nonché in schiume antincendio.

Il problema? “Pfoa e Pfos sono composti persistenti, ossia permangono per periodi prolungati nell’ambiente in seguito al rilascio e pertanto alcune ditte hanno previsto l’interruzione della produzione e la sostituzione di Pfoa e Pfos, cambiando i processi di produzione, riducendo il rilascio e il livello di questi composti nei loro prodotti”, sottolinea il Ministero della Salute.

Gli effetti sulla salute: diverse interpretazioni

Detto ciò, a livello medico Pfoa e Pfos sono ritenuti fattori di rischio per un’ampia gamma di patologie, anche se la questione è ancora oggi oggetto di approfonditi studi. Sicuramente, come detto, agiscono come interferenti endocrini, in grado cioè di alterare la sintesi di ormoni, compromettendo la crescita e riducendo la fertilità. Inoltre, i Pfas sono sospettati di interferire nella comunicazione intercellulare, aumentando così il rischio di sviluppare tumori.

Tra le malattie la cui causa potrebbe essere attribuita all’esposizione prolungata a queste sostanze, vi sono tumori ai reni e ai testicoli, ma anche disfunzionalità della tiroide, ipertensione in gravidanza e colite ulcerosa. Inoltre, alcuni studi suggeriscono un incremento delle patologie fetali e gestazionali nelle aree più esposte alla contaminazione.

Sull’argomento, il Ministero della Salute fa notare che gli studi sull’uomo hanno fornito risultati non coerenti sulle possibili relazioni tra i livelli di Pfoa e Pfos nel sangue e gli effetti avversi sulla salute e la loro interpretazione è resa ancora più difficile dalla presenza di fattori confondenti presenti nella popolazione generale (ad esempio, gli stili di vita). Tuttavia, “gli studi disponibili suggeriscono che un maggiore livello ematico di Pfoa e Pfos possa essere associato ad un aumento di livelli di colesterolo nel sangue, di acido urico e ad un aumentato rischio di pressione alta. Il principale organo bersaglio sembra essere il fegato anche in studi effettuati sugli animali”.

Pur essendo disponibili numerosi studi su diverse specie animali, l’estrapolazione di tali dati dall’uomo è particolarmente difficile per le significative differenze nel destino di tali sostanze all’interno dell’organismo e nel modo in cui queste provocano tossicità. Sebbene alcune ricerche abbiano suggerito una possibile correlazione con tumori testicolari e renali, a causa di incongruenze osservate, non è stato possibile concludere in modo definitivo circa il legame tra l’esposizione a Pfoa e Pfos e il cancro nell’uomo, continua il Ministero della Salute.

Gli effetti riscontrati sono stati interpretati con cautela in quanto non costantemente evidenziati, sia su lavoratori che sulla popolazione generale rispettivamente esposti a livelli elevati o più bassi di questi composti, non considerando altri potenziali fattori di rischio, quali il fumo. Diversamente, gli studi sugli animali hanno evidenziato un aumento di alcuni tipi di tumori a carico del fegato, testicolo, e tiroide.

Le conseguenze sull’apparato riproduttivo

Riguardo i Pfas, va ricordata un’altra analisi svolta due anni fa dall’Università di Padova, pubblicata sul Journal of Endocrinological Investigation, condotta su 120 ventenni nati e residenti nelle zone esposte all’inquinamento da Pfas, dimostrando una significativa alterazione del numero e della motilità degli spermatozoi. I risultati sono stati recentemente confermati da una ricerca danese, eseguita su giovani esposti a queste sostanze durante la gravidanza. Gli esperti, in questo caso, hanno raccolto campioni di sangue da oltre mille donne nel primo trimestre di gravidanza e hanno controllato le caratteristiche dello sperma di oltre 800 figli di quelle donne a 18 anni di distanza, dimostrando una relazione lineare tra le concentrazioni di Pfas delle madri e la scarsa motilità e la bassa conta degli spermatozoi.

Al proposito, il nuovo studio condotto dall’Università di Padova riporta che il Pfoa è presente anche nel liquido seminale dei giovani esposti, a concentrazioni di circa il 30% di quelle plasmatiche e dimostra la specifica interazione tra queste sostanze chimiche e i fosfolipidi di membrana, principali costituenti della membrana stessa. Cosa determina tutto ciò? Modifica la fluidità della membrana e interferisce con recettori e canali presenti sulla stessa, la cui attivazione è fondamentale per lo sviluppo del processo di fertilizzazione.

Assidai e la prevenzione primaria: il valore dell’informazione

Per quanto si tratti di concetti certamente complessi e per quanto le conclusioni degli studi empirici svolti sugli effetti dei Pfas non siano ancora completamente coerenti, quello di cui ci siamo occupati è un argomento di forte attualità e riguarda la nostra vita di tutti i giorni, visto che questi composti chimici possono essere presenti nelle pentole antiaderenti o nei tessuti tecnici.

Per questo, essere a conoscenza dei potenziali rischi di alcuni prodotti può essere considerato parte integrante del concetto di prevenzione primaria: Assidai – che si era già occupato di questi temi – la considera centrale per difendersi dalle cronicità, ovvero malattie cardiocircolatorie, tumori e diabete in primis. Laddove, ovviamente, per prevenzione primaria si intendono anche e soprattutto una serie di comportamenti da adottare nella vita di tutti i giorni per “trattare bene” il nostro corpo. Dunque, un’alimentazione equilibrata con le giuste dosi di frutta e verdura, lo stop a qualsiasi uso di tabacco, consumo moderato di alcol e praticare attività fisica, anche modesta, almeno due o tre volte a settimana.

I segreti dell’alimentazione dei centenari

Qual è il segreto per arrivare a 100 anni in buona salute? Diversi ricercatori, accademici ed esperti di alimentazione si sono esercitati su questo tema. Uno degli ultimi studi, in ordine temporale, è stato realizzato dall’Università di Teramo che ha esaminato un’area dell’Abruzzo che comprende 151 comuni delle zone interne e a ridosso dei Parchi: lì risiedono 503 centenari e 18.000 nonagenari (cioè oltre i 90 anni), attestati dall’Istat. Insomma, un’area non troppo grande su cui effettuare le proprie indagini con cura e che ha rivelato due fattori cruciali per la longevità, comuni peraltro ad altre ricerche effettuate in altre zone del mondo. Ovvero, “un’attività fisica costante e una dieta sana con grande consumo di prodotti vegetali quali verdura, frutta, legumi, cereali e, invece, l’assenza quasi totale di dolci”, ha sottolineato il professor Mauro Serafini, ordinario di Alimentazione e Nutrizione umana all’Università di Teramo.

Il caso dell’Abruzzo non è l’unico: negli ultimi anni sono saliti agli onori delle cronache, tra gli altri, i centenari della Sardegna (in particolare in provincia di Nuoro) e quelli dell’isola di Okinawa, in Giappone. E anche in questi casi emerge con forza il valore dell’alimentazione e delle buone abitudini nel determinare una vita lunga e in buona salute, evitando – attraverso la cosiddetta prevenzione primaria – l’insorgere di malattie croniche. Un concetto che Assidai, attraverso una costante attività di divulgazione e informazione verso i manager iscritti e tutti gli altri stakeholder, sostiene in modo convinto con due obiettivi: tutelare la salute ed evitare che i drammi legati alle patologie croniche, oltre alle gravi conseguenze dal punto di vista personale e familiare.

La dieta dei centenari abruzzesi e lo “stress infiammatorio”

Dunque, quali sono le abitudini alimentari dei centenari d’Abruzzo? Secondo gli studiosi gioca un ruolo centrale lo “sdijuno”, o “stappa digiuno”: sarebbe una prima colazione salata di circa 300 calorie, consumata alle 6:30 del mattino. Per pranzo, alle 12:30, pasto abbondante con polenta, carne, legumi, pasta fatta in casa. La cena, sempre seguendo la tradizione locale, è alle 18:30, a base di verdure, minestra, uova, formaggi. “Con questi ritmi si favorisce un basso stress infiammatorio notturno in concordanza con i ritmi circadiani (cioè di 24 ore) che, infatti, rallentano il metabolismo nelle ore serali. – ha sottolineato al proposito il Professor Serafini – Pur essendo, il nostro, uno studio osservazionale analizza l’importanza della crononutrizione legata all’orario dei pasti per una maggiore longevità: dalla cena al pranzo ci sono circa 17,5 ore della cosiddetta “restrizione calorica”, una finestra interrotta soltanto dalla prima colazione. Questo dà alle persone la capacità di non stressare né il sistema immunitario né il metabolismo, preparandoli per un pasto abbondante come il pranzo”. In sostanza, ha continuato, “si tratta di una possibile spiegazione della loro longevità, senza dimenticare che a determinarla intervengono numerosi altri fattori”, tra cui ovviamente anche la genetica.

Un concetto chiave è quello di “stress infiammatorio” – sottolinea al proposito la Fondazione Veronesi – che viene sempre più nominato in medicina, ma non è molto noto ai non addetti ai lavori: si tratta di una risposta immunitaria al cibo, una sorta di meccanismo di difesa dal cibo stesso, che si innalza dopo un pasto e scende dopo 7-8 ore. “Se il mangiare è continuo e non sano – osserva al proposito il professor Serafini – il livello dello stress non torna più giù. Ed è un danno”.

I casi della Sardegna e della giapponese Okinawa

Anche in Sardegna, nel Sud dell’isola e vicino Nuoro, ci sono zone con una vita media molto elevata. I segreti? Poco stress, niente fumo, attività fisica dettata dalle abitudini giornaliere (o dal lavoro nei campi) e alimentazione come fattore fondamentale. I centenari consumano prevalentemente prodotti naturali senza conservanti e additivi e bevono acqua pura durante tutto il giorno. La dieta è ricca di fibre e con modeste quantità di carboidrati e poca carne: legumi, cereali integrali, verdura e frutta fresca sono tra gli elementi più importanti, poi ci sono i formaggi mentre viene consumato poco pesce. Nell’isola giapponese di Okinawa, invece, la dieta si basa su un basso apporto calorico: la regola è alzarsi da tavola quando si è sazi all’80%. E poi ci sono gli alimenti cardine della dieta che si fonda soprattutto su cibo di origine vegetale: patate dolci come fonte primaria di carboidrati, tanti vegetali e legumi (soprattutto soia), consumo moderato di pesce e solo occasionale di carne magra e formaggi. Pochissimi grassi e alcol bandito. È utile ricordare che all’ingresso del villaggio di Ogimi, situato nel nord rurale della principale isola di Okinawa, c’è una piccola lastra in pietra che riporta alcune frasi in giapponese. La traduzione: “A 80 anni, sei un giovane. A 90, se i tuoi antenati ti invitano in cielo, chiedi loro di aspettare fino a che non arrivi a 100, poi puoi prendere in considerazione la cosa”. Secondo gli ultimi censimenti, 15 dei 3.000 abitanti del villaggio di Ogimi sono centenari e 171 sono ultranovantenni. Certo, conta anche la componente genetica, ma è indubbio che un’alimentazione equilibrata e senza eccessi giochi un ruolo fondamentale.

Assidai, il Fondo sanitario per i manager che guarda all’innovazione e alla sostenibilità

Videointervista di Radiocor – Il Sole 24 Ore al Presidente di Assidai Armando Indennimeo

“Un Fondo di assistenza sanitaria di natura non profit i cui valori cardini principali sono la solidarietà e la mutualità”. Armando Indennimeo, presidente di Assidai, il Fondo di assistenza sanitaria integrativa dei dirigenti di aziende industriali nato più di 30 anni fa su iniziativa di Federmanager, parla dell’impegno di guidare il Fondo in un’ottica di continuità, ascoltando i territori e gli stakeholder e con un’attenzione molto forte verso l’innovazione e la sostenibilità. Con l’obiettivo di allargare la platea e rafforzare il posizionamento del fondo integrativo del Fasi attraverso una sempre maggiore diffusione del Prodotto Unico Fasi-Assidai. Forte di soluzioni tailor made innovative e competitive, il presidente Indennimeo annuncia due importanti novità per il 2023: una sul Piano Sanitario Familiari e l’altra relativa alle prestazioni per la non autosufficienza.

Terapia protonica, nuovo strumento contro i tumori

In gergo tecnico si chiama terapia protonica. In termini più divulgativi si può definire una radioterapia con dose precisa e maggiore di radiazioni dirette a un sito tumorale, che risparmia organi e tessuti circostanti. È la grande novità che verrà lanciata nel settembre 2023 dall’Istituto Europeo di Oncologia – IEO. Proprio nelle scorse settimane, l’istituto milanese all’avanguardia nella lotta e nel trattamento del cancro ha ricevuto i componenti di Proteus One, definito il macchinario “più avanzato a livello internazionale per la terapia con protoni”. “Per la prima volta in Italia – hanno annunciato di recente dall’Irccs fondato da Umberto Veronesi – viene installato un sistema compatto di protonterapia all’interno di una struttura costruita appositamente per ospitarlo. IEO Proton Center è infatti il primo caso di edifico progettato e realizzato su misura per l’apparecchiatura di protonterapia, la forma più innovativa di radioterapia di altissima precisione”. Quali sono i principali vantaggi della protonterapia? Principalmente due. Innanzitutto consente la riduzione del rischio di tumori secondari indotti dai raggi ed è utilizzata in combinazione con altre discipline come chirurgia, chemioterapia, farmaci molecolari o altre metodiche radioterapiche. In secondo luogo può ottenere una risposta dal sistema immunitario decisamente superiore alla radioterapia tradizionale: per questo i centri di protonterapia si stanno moltiplicando in tutti i Paesi occidentali.

I numeri e le potenzialità del progetto

Per capire l’entità e l’importanza del progetto, bastano le parole dell’Amministratore Delegato dello IEO, Mauro Melis: “Il Proton Center è uno dei maggiori investimenti nella storia dell’Istituto Europeo di Oncologia. Ci abbiamo creduto già sei anni fa e lo porteremo a termine nei tempi previsti all’inizio dei lavori, malgrado l’epidemia Covid-19, la crisi energetica e la situazione economica generale. Saremo il primo Irccs a dotarsi di un proprio centro protoni, che sarà all’avanguardia tecnologica e con un alto profilo di sostenibilità. Disponiamo del sistema di protonterapia più avanzato a livello internazionale, installato per la prima volta in Italia e collocato all’interno di un edificio – su misura – e con tecnologie costruttive tipiche delle infrastrutture ma applicate all’edilizia sanitaria”. Ciò nasce anche, ha aggiunto, dall’esigenza di rispondere “all’urgente bisogno del Paese di questa cura innovativa, riconosciuta dal Ministero della Salute come salvavita. Allo stesso tempo assolveremo alla nostra missione che è quella di offrire ai pazienti oncologici, che a noi si rivolgono con fiducia e speranza, la miglior cura disponibile al mondo.” Qualche numero? Attualmente in Italia si stima che i malati candidabili a protonterapia siano circa 7.000, una domanda che i soli tre centri italiani, con una capacità di trattamento stimata di 1.000 pazienti all’anno, già oggi non possono soddisfare. Se poi gli studi scientifici in corso confermeranno le aspettative, nel nostro Paese la domanda di terapia protonica potrebbe riguardare fino al 15% di tutti i pazienti candidati a un trattamento di radioterapia.

Il ruolo della protonterapia nella sanità italiana

Dal punto di vista prettamente medico, “i risultati ottenuti su oltre 200.000 pazienti trattati con protoni nel mondo dimostrano ampiamente il valore terapeutico della protonterapia – ha sottolineato dal canto suo il direttore scientifico dello IEO, Roberto Orecchia – Inoltre le sue potenzialità sono ancora in gran parte inespresse. Si aprono quindi scenari di ricerca inediti, a cui il Proton Center Ieo contribuirà, anche grazie al suo collegamento con l’ospedale”. La protonterapia – ha proseguito l’esperto – è infatti in continua evoluzione, anche in combinazione con altre discipline, come chirurgia, chemioterapia, farmaci molecolari, immunoterapia o altre metodiche radioterapiche. Sono oltre 150 gli studi di validazione e approfondimento in corso nel mondo e i centri di protonterapia si stanno moltiplicando in tutti i Paesi ad alto tasso di sviluppo. L’Italia, insieme alla Francia, è oggi il paese europeo con il più basso rapporto tra sale di trattamento/numero di abitanti”. Va anche ricordato che il Ministero della Salute ha fatto rientrare la protonterapia fra le cure salvavita nel 2015 e nel 2017 ha individuato 10 patologie oncologiche per le quali è considerata appropriata. Inoltre, nel 2021 l’Istituto Superiore di Sanità ha emesso nuove raccomandazioni per l’uso dei protoni, indicando  che i maggiori vantaggi si ottengono nel trattamento di tumori solidi in pazienti pediatrici, tumori localizzati in sedi critiche perché circondati da strutture sensibili, tumori poco responsivi alla radioterapia convenzionale e per i quali è utile un approccio di dose-escalation, oltre che nei casi in cui occorre ridurre la tossicità complessiva dovuta al trattamento di ampi volumi in associazione a chemioterapia concomitante. Per riassumere, ha concluso Orecchia, quali sono i vantaggi per il paziente della cura con protoni: “Primo fra tutti la riduzione del rischio di tumori secondari indotti dai raggi. E poi il basso rischio di effetti collaterali durante e dopo il trattamento, che si traduce in una più rapida ripresa psicofisica. Va aggiunto infine un vantaggio per la società oggi non più trascurabile: la sostenibilità economica, garantita dall’ottimo rapporto costo/efficacia”.

Il ruolo della prevenzione primaria e la posizione di Assidai

Se la terapia protonica potrebbe rappresentare una importante svolta nel trattamento di alcuni tumori, va comunque ricordata l’importanza della prevenzione primaria. Essa resta infatti il principale strumento a nostra disposizione per diminuire l’incidenza delle malattie croniche (tra cui proprio il cancro), che nei Paesi industrializzati sono la principale causa dei decessi e delle situazioni di non autosufficienza. Una posizione che è sempre stata sostenuta con assoluta convinzione da Assidai nelle proprie informative agli iscritti, in cui ribadisce sempre il ruolo cruciale di un’alimentazione equilibrata (che preveda adeguate porzioni giornaliere di frutta e verdura) e di stili di vita che evitino la sedentarietà, il consumo di alcolici e, nella maniera più assoluta, quello di tabacco. Altrettanto importante è poi la prevenzione secondaria che, attraverso screening e visite specialistiche, consente in alcuni casi di scoprire le malattie croniche in anticipo e dunque di poterle affrontare con maggiore probabilità di successo. Del resto, come sappiamo, patologie simili sono innanzitutto un dramma umano, per il malato e per le famiglie, ma anche un enorme spesa per lo Stato e prevenirle aiuta in misura significativa la sostenibilità dei conti del Servizio Sanitario Nazionale (SSN).

Effetti benefici contro le malattie croniche dalle mandorle

Una manciata di mandorle al giorno (circa 56 grammi) avrebbe effetti benefici sulla salute dell’intestino e del colon, andando a rafforzare il microbioma, ovvero la micro-popolazione batterica intestinale che fa funzionare il colon. Oltre a ciò, le mandorle aiuterebbero anche a sostenere il sistema immunitario. A sostenerlo è il nuovo studio realizzato dal King’s College di Londra, pubblicato sull’American Journal of Clinical Nutrition. In realtà, nel corso degli ultimi anni, numerose e autorevoli indagini effettuate su diversi database alimentari nazionali hanno suggerito con forza che i consumatori di mandorle, in generale, hanno una migliore qualità della dieta. Questo si riflette in una maggiore assunzione di nutrienti come fibre, grassi insaturi, vitamina E, folati e altro, con un consumo inferiore di grassi saturi, zuccheri aggiunti e sodio. Non solo: alcune ricerche suggeriscono anche associazioni inverse fra il consumo di mandorle, fumo e sovrappeso. Una corretta alimentazione, come ricorda sempre Assidai nelle campagne di informazione dedicate ai propri iscritti, è uno dei pilastri della prevenzione primaria, fondamentale per diminuire i rischi di incidenza delle malattie croniche (patologie cardiocircolatorie, tumori e diabete).

I risultati dello studio: la chiave è il “butirrato”

Come è stato svolto esattamente lo studio dagli esperti del King’s College di Londra? Sono state reclutate 87 persone in salute con un’età compresa tra 18 e i 45 anni, tutte sostanzialmente “virtuose” dal punto di vista alimentare, visto che hanno dichiarato di avere l’abitudine di fare due spuntini giornalieri e di non seguire una dieta ricca di grassi. I volontari sono stati divisi in tre gruppi. Nell’arco di 4 settimane il primo gruppo doveva sostituire entrambi gli spuntini giornalieri, ogni volta con 28 grammi di mandorle intere (per un totale di 56 grammi al giorno, la famosa “manciata”). Il secondo gruppo aveva le stesse indicazioni con una sola differenza: le mandorle dovevano essere macinate e non intere. Infine, l’ultimo gruppo al posto delle mandorle consumava come spuntino un muffin equivalente come energia (cioè calorie). I risultati? I ricercatori hanno scoperto che chi consumava mandorle presentava livelli significativamente più elevati di butirrato, un acido grasso a catena corta dovuto alla fermentazione delle fibre delle mandorle nel colon, rispetto al gruppo di controllo del muffin. Un elemento cruciale: proprio il butirrato è importante per la salute dell’intestino, poiché funge da fonte primaria di carburante per le cellule del colon, consentendo loro di funzionare in modo ottimale. Non solo: può entrare nel flusso sanguigno dove è coinvolto nella regolazione della salute in altre aree del corpo, come fegato, cervello e polmoni. Infine, sempre il butirrato è importante perché forma una sorta di barriera nelle pareti intestinali, impedendo il pericoloso passaggio nel sangue da parte di microrganismi come i microbi: per questo viene anche considerato antinfiammatorio e protettivo nei confronti della colite (sindrome dell’intestino irritabile) e in grado di ridurre disturbi gastrointestinali come il gonfiore.

Un’ulteriore risultanza dello studio riguarda le differenze emerse se le mandorle fossero state mangiate intere o macinate: i volontari del primo gruppo hanno mostrato più movimenti intestinali dell’altro. L’ipotesi? Quando si consumano le mandorle intere, gran parte del loro grasso, a causa di una masticazione non prolungata, sfugge alla digestione e raggiunge di più il colon, facilitando il transito intestinale. 

Gli effetti benefici contro le malattie croniche

Come detto, le mandorle, secondo alcuni autorevoli studi, hanno effetti positivi anche su altre parti e altri meccanismi del nostro organismo. La dieta, per esempio, è fondamentale nella gestione del rischio cardiovascolare e oltre vent’anni di ricerca supportano il ruolo delle mandorle nell’aiutare a mantenere un cuore sano. Infatti, secondo la Food and Drug Administration le prove scientifiche suggeriscono, ma non dimostrano, che mangiare circa 42 grammi di mandorle come parte di una dieta povera di grassi saturi e colesterolo può ridurre il rischio di malattie cardiache.

I cambiamenti nell’alimentazione sono spesso i primi e più efficaci passi da fare per ridurre il rischio di malattia cardiovascolare, e le ricerche suggeriscono che mangiare mandorle può aiutare a mantenere un cuore e dei livelli di colesterolo sani. Gli studi su gruppi diversi geneticamente e su persone con diversi Body Mass Index (un indicatore che tiene conto di peso e altezza) mostrano una riduzione del colesterolo totale e Ldl (il colesterolo “cattivo”) e un mantenimento del colesterolo Hdl (quello “buono”). In studi più recenti, altri fattori di rischio di malattia coronarica, infiammazione e grasso addominale sono migliorati con il consumo di mandorle come parte di una dieta sana per il cuore.

Infine, nonostante la densità energetica relativamente alta, le mandorle quando assunte come parte di una dieta sana, non provocano aumento del peso e possono avere persino effetti benefici sulla composizione corporea, specialmente in adulti sovrappeso o obesi. Molti meccanismi spiegano le associazioni positive fra le mandorle e la frutta secca e il bilancio energetico e il peso corporeo, inclusi il loro potere saziante, la disponibilità di calorie incomplete e un possibile miglioramento della spesa energetica a riposo. 

La flora batterica intestinale può aiutare a prevenire il diabete?

La flora batterica intestinale, anche detta microbiota, può aiutare a prevenire alcune malattie autoimmuni, tra cui il diabete di tipo 1? Rispondere a questa domanda è il principale obiettivo di un nuovo studio recentemente finanziato dal Ministero della Salute e condotto dal gruppo di ricerca diretto dalla Dottoressa Marika Falcone presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. Il progetto si svolge in collaborazione con le Unità cliniche di Diabetologia, Pediatria e Gastroenterologia dell’Ospedale stesso. Il gruppo di ricerca Patogenesi Autoimmune, guidato proprio da Marika Falcone, analizza già da molti anni il ruolo che l’ambiente intestinale e il microbiota giocano nelle malattie autoimmuni extra-intestinali. Nel 2019, in uno studio pubblicato sulla rivista scientifica statunitense “Proceedings of the National Academy of Sciences”, organo ufficiale della United States National Academy of Sciences, i ricercatori sono stati peraltro tra i primi a rivelare un nesso causale tra infiammazione intestinale, alterazioni del microbiota e sviluppo del diabete, ma tale risultato è stato finora limitato a modelli sperimentali della malattia. Di qui la decisione di approfondire ulteriormente la questione con nuove e più approfondite analisi direttamente sull’uomo.

Il ruolo della flora batterica

Per spiegare meglio tutto ciò bisogna partire da un presupposto: il ruolo cruciale giocato dalla flora batterica intestinale. Quest’ultima, infatti, è composta da milioni di batteri, virus e funghi che vivono nel nostro intestino e – come sottolinea l’Ospedale San Raffaele sul proprio sito – sono fondamentali per un buon funzionamento del nostro organismo: regolano infatti diverse funzioni metaboliche, lo sviluppo del sistema nervoso e controllano il sistema immunitario. Negli ultimi anni, si è inoltre scoperto come il microbiota sia in grado di modulare alcuni nostri meccanismi di difesa, ad esempio, nel corso di infezioni e contro i tumori. In quest’ottica, è stata formulata l’ipotesi che il microbiota possa rivelarsi un fattore fondamentale anche nella prevenzione delle malattie autoimmuni, ovvero di quelle patologie in cui, per cause ancora sconosciute, il sistema immunitario attacca alcuni componenti del nostro stesso organismo, come le isole pancreatiche produttrici di insulina nel caso del diabete di tipo 1 o diabete autoimmune.

Come detto, già negli anni scorsi i ricercatori hanno dimostrato che in condizioni di infiammazione intestinale, come quella indotta da una dieta ricca di grassi o da alterazioni del microbiota, si assiste all’attivazione di cellule del sistema immunitario che dall’intestino migrano nel pancreas dove distruggono le cellule produttrici di insulina, provocando quindi il diabete. “A giocare un ruolo chiave nell’innescare questa risposta autoimmune verso le cellule pancreatiche sembra proprio essere il microbiota che, quando la barriera intestinale è compromessa da uno stato infiammatorio, entra in contatto diretto con il sistema immunitario alterandone le funzioni”, ha spiegato la Dottoressa Falcone.

Lo studio del San Raffaele: tecniche e obiettivi

Ora l’obiettivo dell’equipe del San Raffaele è dunque dimostrare l’esistenza di un rapporto causa-effetto, nell’organismo umano, tra composizione del microbiota, infiammazione intestinale e insorgenza di diabete autoimmune. Lo studio avverrà, come spesso accade, confrontando soggetti diabete di tipo 1 e individui sani mentre il prelievo di tessuto intestinale verrà effettuato di routine presso l’Unità di Gastroenterologia dell’Ospedale nell’ambito di indagini diagnostiche, per esempio, per la diagnosi di malattia celiaca, gastrite atopica e altri disturbi gastrointestinali e non comporta alcun rischio per i pazienti. “Il contributo di tutti, sia di soggetti affetti da diabete di tipo 1, sia di soggetti sani, che si rivolgono al nostro ospedale per effettuare una gastroscopia a scopo diagnostico, sarà essenziale per capire il ruolo del microbiota nello sviluppo del diabete di tipo 1 e aprirà la strada a nuove terapie volte a modificare l’ambiente intestinale per prevenire la malattia o migliorarne il decorso in pazienti diabetici”, è la conclusione di Marika Falcone.

Il diabete di tipo 1, Assidai e la prevenzione

Nel caso raggiungesse risultati positivi, la ricerca dell’ospedale San Raffaele consentirebbe di aggiungere un importante tassello al mosaico della prevenzione contro le malattie croniche, di cui il diabete fa parte. Quello di tipo 1 è una forma che si manifesta prevalentemente nel periodo dell’infanzia e nell’adolescenza, anche se non sono rari i casi di insorgenza nell’età adulta. Esso, come detto, rientra nella categoria delle malattie autoimmuni perché è causato dalla produzione di autoanticorpi (anticorpi che distruggono tessuti e organi propri non riconoscendoli come appartenenti al corpo ma come organi esterni) che attaccano le cellule del pancreas deputate alla produzione di insulina. La conseguenza è la forte riduzione della produzione di questo ormone il cui compito è quello di regolare l’utilizzo del glucosio da parte delle cellule.

La prevenzione è l’elemento fondamentale per la lotta alle cronicità. È questa una ferma convinzione di Assidai. Per due motivi: sia per tutelare la salute di tutti noi sia per contribuire alla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e delle sue caratteristiche, uniche al mondo, di universalità ed equità. Per questo, il nostro Fondo si impegna in una costante attività di informazione verso tutti i propri stakeholder – in primis gli iscritti – su questi temi, in modo che possano adottare i comportamenti più virtuosi possibili in base alle nuove frontiere tracciate dalla scienza.

 

Welfare aziendale – Fringe benefit, la soglia esentasse sale a 600 euro

Torniamo a occuparci di un tema molto importante in termini di welfare aziendale: i cosiddetti “fringe benefit”, la cui soglia di esenzione fiscale è stata innalzata a 600 euro grazie alle Legge n. 142 dello scorso settembre, “ammettendo” nel suo perimetro anche il pagamento delle utenze domestiche di luce, gas e acqua. Un dettaglio, quest’ultimo, non certo marginale, in un momento in cui il caro energia – con l’esplosione delle bollette – è tra le principali preoccupazioni del Paese. Si tratta, più in generale, di un provvedimento cruciale in ottica di sistema. I fringe benefit rappresentano, infatti, una voce addizionale alla retribuzione corrisposta da un’impresa ai propri dipendenti: un compenso “in natura”, che figura comunque in busta paga, come l’auto aziendale, i buoni pasto, lo smartphone e il pc portatile. Lato azienda si tratta di somme interamente deducibili, che riducono quindi l’imponibile fiscale dell’impresa. Dal punto di vista del dipendente sono somme non soggette a contribuzione né a prelievo fiscale. Nei limiti, ovviamente, stabiliti dal Governo che sono appunto saliti a 600 euro.

Fringe benefit e fisco dal 2020 ad oggi

A questo punto è tuttavia necessario un quadro riassuntivo delle norme emanate negli ultimi anni. Fino al 2020 per i fringe benefit era prevista una soglia di esenzione fiscale (il valore di beni e servizi che non concorre al reddito imponibile né ai contributi) di 258,23 euro, mentre con il Decreto Agosto dell’estate 2020, approntato per supportare il Paese nell’emergenza Covid, il limite fu raddoppiato a 516,46 euro. L’anno scorso il Governo ha in sostanza confermato il robusto aumento della quota esentasse, anche per il 2021, con il via libera al Decreto Sostegni. Infine, il decreto Aiuti-Bis, convertito il 21 settembre scorso nella Legge n. 142, ha modificato il limite di detassazione fiscale e contributivo dei fringe benefit a favore dei lavoratori dipendenti, innalzando la soglia a 600 euro, con la specifica che rientrano nell’agevolazione anche le somme erogate o rimborsate dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale.
Altro aspetto importante: il beneficio dei 600 euro è valido fino al 31 dicembre 2022 e può essere cumulato col “bonus benzina”. Il datore di lavoro potrà, pertanto, riconoscere ad ogni singolo dipendente una soglia di esenzione di 800 euro, di cui 600 legati al decreto Aiuti-bis e 200 di bonus benzina. In entrambi i casi, va precisato, si tratta di liberalità e non si configura dunque nessun obbligo di erogazione per il datore di lavoro.
In ogni caso la Legge 142 rappresenta un ulteriore passo in avanti nell’espansione di un settore, quello del welfare aziendale, che negli ultimi anni è cresciuto molto, anche perché ha dimostrato la propria forza e le proprie potenzialità in termini di soddisfazione del dipendente e di produttività dello stesso, a tutto vantaggio anche dell’azienda. A questo proposito, va ricordato che dal 2016 il Governo ha progressivamente introdotto una serie di incentivi, soprattutto di carattere fiscale, per favorire la diffusione del welfare aziendale con risultati ormai decisamente rilevanti se si pensa che ormai più di un’azienda su due lo prevede per i propri dipendenti.

Assidai e il welfare aziendale

Dal canto suo, anche Assidai, proprio per la sua mission, ritiene che il benessere personale e un corretto bilanciamento tra vita lavorativa e vita privata sono elementi positivi per i manager e i dipendenti in generale, perché accrescono il benessere organizzativo generale all’interno di un’azienda e il livello di energia e motivazione dei singoli. Numerose indagini in materia hanno peraltro dimostrato come l’assistenza sanitaria sia uno tra i benefit più richiesti a livello di welfare aziendale. Per questo Assidai ha specifici Piani Sanitari riservati alle imprese che consentono ai decision maker di attrarre e trattenere talenti all’interno delle realtà aziendali. In particolare, ci preme sottolineare che le aziende industriali oggi hanno una nuova grande opportunità: aderire al Prodotto Unico Fasi-Assidai, una copertura integrativa che garantisce ai dirigenti in servizio un’assistenza sanitaria completa. Infatti, attraverso il Prodotto Unico Fasi-Assidai essi potranno godere dell’incremento economico quasi totale delle prestazioni previste dal Nomenclatore Tariffario del Fasi stesso oltre a godere di vantaggi notevoli in termini di network di strutture di assistenza sanitaria eccellenti sul territorio e di semplificazione dei processi di invio delle richieste di rimborso in un unico click.

Un biosensore portatile per scoprire subito il morbillo

Un biosensore portatile, veloce e di alta sensibilità in grado di rilevare il virus del morbillo nella saliva umana: un test rapido potenzialmente applicabile, in futuro, anche ad altri virus. A realizzarlo, dopo una approfondita fase di sviluppo e di collaborazione, è stato un pool di eccellenze composto dall’Istituto nanoscienze del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa (Cnr-Nano), da Archa srl, dal Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia dell’’Università di Pisa, dalla Scuola Normale Superiore di Pisa e da Inta srl. Il dispositivo, che utilizza una tecnologia innovativa basata su onde acustiche di superficie, si presta a essere usato per test diagnosi precoci e in situazioni di emergenza, per il morbillo e per altri tipi di virus. La ricerca, pubblicata sulla rivista Advanced Functional Materials, presenta in sostanza un nuovo modo per rilevare una delle malattie a trasmissione aerea più infettive, appunto il morbillo, responsabile di ancora troppi decessi in tutto il mondo ogni anno e con una diffusività simile a quella della variante Omicron SARS-CoV-2.

Il funzionamento del biosensore

Come funziona esattamente il biosensore messo a punto dai ricercatori? Si tratta di un “lab-on-a-chip” (letteralmente un laboratorio su un chip) più piccolo di un centesimo di euro che usa onde acustiche di superficie per rilevare virus in un campione di fluido salivare. Nel dettaglio, spiega Marco Cecchini, coordinatore di Cnr-Nano, “le onde acustiche di superficie sono una sorta di micro-terremoto che si propaga lungo la superficie del sensore: quando il virus si attacca al sensore, rallenta la velocità di propagazione delle onde, rendendo possibile registrare la presenza della molecola. Abbiamo sfruttato queste onde meccaniche sia per mescolare il campione di fluido che per rivelare il virus e ciò ha permesso di migliorare drasticamente la sensibilità dei nostri sensori rispetto ad altri sensori acustici già presenti sul mercato”. Il ceppo utilizzato per i test di efficacia di questo sensore è quello già usato per lo sviluppo dei vaccini. Il virus è stato quindi aggiunto nella saliva di un donatore sano, precedentemente testata per assicurarsi che non contenesse già tracce virali. Parte della saliva è stata conservata invece come controllo. Come detto, il liquido è stato quindi analizzato con il biosensore che si è comportato bene: il legame tra il virus e il sensore determina infatti un cambiamento di densità di superficie che, a sua volta, modifica la velocità di propagazione di un’onda sonora.

Il possibile utilizzo del test per scoprire altri virus

È chiaro che tutto ciò apre nuove frontiere sul fronte della diagnosi delle patologie infettive. “La tecnologia può essere adattata ad altre tipologie di virus, ad esempio il Sars-Cov-2, e a batteri, proteine e acidi nucleici”, ha aggiunto infatti il ricercatore Cnr-Nano. Senza contare che l’apparecchio potrà essere sviluppato per eseguire diagnosi precoci di tipo point-of-care, ovvero in prossimità del paziente. “Mentre i test convenzionali richiedono l’elaborazione del campione, laboratori dedicati e personale specializzato, questo sensore non richiede particolare elaborazione e può essere impiegato in situazioni dove i test convenzionali non sono praticabili come aeroporti, stazioni, situazioni di emergenza”, ha sottolineato Mauro Pistello, professore ordinario del Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia dell’Università di Pisa e Direttore della Unità Operativa Virologia della Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana. Del resto, ha osservato, “una diagnosi tempestiva è infatti cruciale per ostacolare precocemente la diffusione di malattie ad alta trasmissione aerogena come morbillo, influenza e COVID-19″.

I numeri del morbillo

Perché il sensore è stato pensato proprio per diagnosticare il morbillo? Perché si tratta di una patologia che ancora oggi interessa circa 20 milioni di persone l’anno, soprattutto nei Paesi dell’Africa e dell’Asia, causando ancora troppi decessi: nel 2019 sono stati oltre 200mila. Inoltre, data la sua presenza in Paesi a basso reddito pro-capite, dove anche le analisi di laboratorio possono essere difficili da ottenere, un biosensore da utilizzare al letto del paziente potrebbe essere una soluzione utile, in particolare per individuare i casi prima che diano il via a delle epidemie.
Il morbillo, va ricordato, è una malattia virale altamente contagiosa a trasmissione respiratoria che colpisce prevalentemente i bambini tra 1 e 3 anni ed è una delle principali cause di mortalità infantile nei Paesi in via di sviluppo. Il numero di casi globali è in riduzione ma è ancora una malattia estremamente comune in molti paesi dei continenti africano e asiatico, nonostante l’esistenza di un vaccino efficace e sicuro, che costa poche decine di centesimi di euro. Persone con deficit del Sistema immunitario, come bambini malnutriti sotto i 5 anni o pazienti sieropositivi per HIV, sono particolarmente esposti a sviluppare forme gravi e letali dell’infezione. In assenza di cura la mortalità può arrivare anche al 20%.

Assidai e la prevenzione secondaria

Scoprire invece una patologia “in anticipo”, o comunque allo stadio iniziale, consente di affrontarla nel modo giusto e con maggiore efficacia. È anche questo l’obiettivo del biosensore portatile messo a punto dai ricercatori, che come detto potrebbe essere applicato anche ad altri virus in futuro. Ed è questo, più in generale, lo spirito della cosiddetta “prevenzione secondaria”, cioè le attività e gli interventi finalizzati a una diagnosi precoce delle malattie, quando sono ancora in una fase asintomatica con l’obiettivo di arrivare a un intervento terapeutico tempestivo, che permette migliori esiti clinici, in termini di guarigione o di riduzione della progressione della malattia. Assidai, da sempre, è un convinto sostenitore della prevenzione primaria e secondaria, strumenti cruciali a disposizione di tutti noi per ridurre l’incidenza e le conseguenze nefaste delle malattie croniche, e cerca di tenere aggiornati i propri iscritti su queste tematiche con campagne informative e divulgative ad hoc.

L’inquinamento dell’aria aumenta il rischio di infarto

L’inquinamento dell’aria soffoca i vasi del cuore e può provocare l’infarto, anche in un cuore sano. Ad affermarlo è uno studio coordinato dai dottori Rocco Antonio Montone e Filippo Crea, cardiologi di Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS- Università Cattolica, campus di Roma, presentato recentemente al congresso della Società Europea di Cardiologia di Barcellona e pubblicato in contemporanea sul Journal of American College of Cardiology (la rivista ufficiale del cardiologi americani) In altre parole: l’inquinamento fa ammalare e può essere letale, non soltanto danneggiando i polmoni, ma anche il cuore e senza necessariamente passare per le placche di aterosclerosi. Esso, infatti, determina – sostengono i ricercatori – un’ischemia da spasmo delle coronarie che aumenta fino a 11 volte nei soggetti più pesantemente esposti all’inquinamento da particolato fine (il cosiddetto PM2.5), causato soprattutto dal traffico veicolare. Tecnicamente, lo spasmo delle coronarie “taglia” il flusso di sangue al miocardio, determinando un infarto, cioè la morte del muscolo cardiaco, da “strozzamento” dei vasi. Per PM2.5 (particolato fine) si intendono invece, nel dettaglio, particelle di dimensioni infinitamente piccole che derivano da tutti i tipi di combustione (motori di automobili, impianti per la produzione di energia, combustione di legna per il riscaldamento domestico, incendi boschivi e vari processi industriali).

Numeri, tecniche e risultati della ricerca sull’inquinamento

Come è stata realizzata esattamente la ricerca? Sono stati esaminati 87 pazienti di entrambi i sessi, di età media di 62 anni: il 56% di loro era affetto da ischemia miocardica cronica in presenza di coronarie “sane” mentre il 44% aveva addirittura avuto un infarto a coronarie sane. La loro esposizione all’aria inquinata è stata determinata in base all’indirizzo di domicilio. Tutti sono stati sottoposti a coronarografia, nel corso della quale è stato effettuato un test provocativo all’acetilcolina. Il test è risultato positivo (cioè l’acetilcolina ha provocato uno spasmo delle coronarie) nel 61% dei pazienti. Aspetto cruciale: la positività del test è risultata molto più frequente tra i soggetti esposti all’aria inquinata, in particolare se sono anche fumatori e dislipidemici (la dislipidemia è la presenza anomala di lipidi nel sangue, causata da uno stile di vita sedentario con eccessiva assunzione dietetica di calorie, grassi saturi, colesterolo, e grassi).

 

L’impatto dell’inquinamento sul cuore

“Questo studio dimostra per la prima volta – ha sottolineato il dottor Montone — un’associazione tra esposizione di lunga durata all’aria inquinata e comparsa di disturbi vasomotori delle coronarie, suggerendo così un possibile ruolo dell’inquinamento sulla comparsa di infarti a coronarie sane; in particolare, l’inquinamento da particolato fine (PM2.5) nel nostro studio è risultato correlato allo spasmo delle grandi arterie coronariche”. Gli spasmi del cuore, secondo i ricercatori, potrebbero essere dovuti al fatto che l’esposizione di lunga durata all’aria inquinata determina uno stato di infiammazione cronica dei vasi, con conseguente disfunzione dell’endotelio, cioè lo strato di rivestimento della parete interna dei vasi. “Alla luce dei risultati di questo lavoro – ha fatto notare il professor Filippo Crea, Ordinario di Malattie dell’apparato cardiovascolare all’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Roma e Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Cardiologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS – limitare l’esposizione all’inquinamento ambientale, possibilmente riducendone le emissioni, potrebbe abbassare il rischio residuo di futuri eventi cardiovascolari correlati alla cardiopatia ischemica, sia su base aterosclerotica, che da spasmo delle coronarie. L’uso di purificatori di aria in casa e l’utilizzo delle mascherine facciali quando ci si trova immersi nel traffico delle grandi città potrebbe dunque già essere consigliato ai soggetti a rischio, in attesa di studi che ne valutino il reale impatto sulla riduzione del rischio. E naturalmente ribadiamo il divieto di fumo e la necessità di uno stretto controllo dei fattori di rischio per tutti, ma ancora di più a chi è esposto all’inquinamento, come chi vive in una grande città”.

 

La conferma dai ricercatori di Berlino

Tutto ciò è dimostrato da un altro studio, anch’esso presentato al Congresso della Società Europea di Cardiologia a Barcellona. Un gruppo di ricercatori tedeschi dell’ospedale Berlin Brandenburg Myocardial Infarction Registry ha incrociato i dati relativi a quasi 18mila infarti verificatisi tra il 2008 e il 2014 con quelli relativi alle condizioni atmosferiche come la temperatura giornaliera e i livelli di particolato atmosferico e ossido nitrico. Dalle analisi, corrette da eventuali fattori confondenti, è emerso che gli infarti sono risultati più frequenti nelle giornate con i maggiori livelli di ossido nitrico e nel giorno seguente ad almeno tre giornate continuative in cui si è verificato un innalzamento dei livelli di PM. Relativamente alle condizioni ambientali, si è registrato un aumento nel numero di infarti nelle giornate con temperature più fredde. Risultati che messi insieme indicano, seppur indirettamente, l’effetto dannoso dell’inquinamento sul sistema cardiovascolare.

 

L’importanza della prevenzione primaria

Come sottolineato dai ricercatori del Gemelli e dell’Università Cattolica, i risultati di questi studi fanno emergere, con enfasi ancora superiore, la necessità di praticare una prevenzione primaria all’altezza, a maggior ragione se si vive in grandi città esposte inevitabilmente all’inquinamento dell’aria. Abitudini e stili di vita sani, cioè un’alimentazione equilibrata e ricca di fibre, lo stop a qualsiasi uso di tabacco, un consumo moderato di alcol e un’attività fisica regolare sono gli strumenti principali a nostra disposizione per evitare l’insorgere delle malattie croniche (cardiovascolari, tumori, diabete) che sono la principale causa di decesso nei Paesi occidentali.
La parola d’ordine, di cui Assidai come Fondo di assistenza sanitaria si è sempre fatto portatore presso i propri iscritti (manager, quadri, consulenti e le loro famiglie) con costanti campagne informative e divulgative, è ridurre al minimo i fattori di rischio, insiti invece negli stili di vita sedentari e che prestano scarsa attenzione alla varietà dell’alimentazione.