Dall’Italia un disegno di legge contro la carne sintetica

L’Italia impone lo stop al cibo sintetico, con particolare attenzione alla carne sintetica e a quella cosiddetta “coltivata“.

Con il disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri del 28 marzo, infatti, si è deciso che:

«è vietato agli operatori del settore agroalimentare e a quelli del settore dei mangimi impiegare nella preparazione degli alimenti, bevande e mangimi, vendere, detenere per vendere, importare, produrre per esportare, somministrare oppure distribuire per il consumo alimentare alimenti o mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o da tessuti derivanti da animali vertebrati”.»

Una netta presa di posizione, che prevede anche un quadro sanzionatorio rilevante (multe comprese tra 10mila e 60mila euro, ma che possono arrivare anche a coprire il 10% del fatturato dell’operatore che ha violato il divieto, se superiore a 60mila euro), su un tema quanto meno controverso, visto che alcuni considerano proprio la carne sintetica come un mezzo per abbattere le emissioni di gas serra e fornire al pianeta alimenti proteici a basso costo e ridotto impatto ambientale.

La mossa del Governo

La decisione del Governo era stata anticipata nei giorni scorsi dal Ministro dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida, che presentando il provvedimento con cui è stata autorizzata in Italia (a precise condizioni) la messa in vendita delle farine di insetti aveva chiarito come sarebbero state “completamente diverse le regole sul cibo sintetico”.

Infatti, aveva aggiunto il politico, mentre le farine di insetti sono sì prodotti che non fanno parte della nostra cultura alimentare ma restano comunque naturali, gli alimenti iperprocessati non lo sono, né si possono escludere possibili effetti negativi sulla salute umana.

Per questo, mentre per le farine di insetti è bastato fissare regole commerciali (con precise indicazioni in etichetta, scaffali distinti nella grande distribuzione), per il cibo sintetico anche in base a un principio di precauzione l’idea di fondo è quella del divieto di produzione e commercializzazione. Divieto che però – aspetto cruciale – non si potrà estendere anche ai cibi sintetici prodotti in altri Stati che, in virtù del provvedimento appena emesso, dovranno trovare autonomi canali di distribuzione nel nostro paese.

La storia della carne sintetica

Un pochino di storia. Il primo hamburger 2.0 – ricorda un articolo del Sole 24 Ore.com – è stato prodotto dieci anni fa, nel 2013, nel laboratorio di Mark Post, cardiologo e professore di fisiologia vascolare all’Università di Maastricht, con uno sforzo finanziario non da poco: 250mila euro per 150 grammi di macinato. Un prezzo simbolico che include i costi di tutta la ricerca alla base dell’hamburger sintetico, nato da una coltura di cellule staminali bovine, a partire da un frammento estratto con una biopsia indolore dai muscoli del collo di una mucca.

Il Dott. Post stimò allora che in pochi anni i surrogati sintetici sarebbero diventati competitivi come le polpette vendute al supermercato, grazie alle economie di scala. Dopo un decennio, infatti, lo stesso hamburger può stare sul mercato a 4 dollari e gli analisti di Barclays stimano che il giro d’affari della carne sintetica sia destinato a raggiungere i 450 miliardi di dollari nel 2040, ossia il 20% del mercato globale della carne.

Il sistema appena illustrato, portato su scala industriale, sarà in grado di produrre da una sola cellula 10 mila chili di carne. In pratica quelle cellule per diventare hamburger impiegano poche settimane, mentre attraverso la crescita naturale di un bovino occorre un anno e mezzo.

A livello di Paesi, fra i più avanzati in questo ambito spiccano Singapore, città-Stato che importa il 90% del cibo, e Israele. In Italia la realtà pioniera è Bruno Cell: una startup nata nel Centro di Biologia Integrata di Trento, progetto dell’Università insieme alla Provincia Autonoma.

I vantaggi della carne sintetica

Quali sarebbero i vantaggi della carne sintetica? Innanzitutto, di carattere ambientale.

Gli allevamenti sono responsabili del 14,5% dei gas serra, e quelli intensivi sono la causa principale anche della deforestazione. E poi c’è il tema del dispendio idrico, sempre più d’attualità alla luce del recente crollo delle precipitazioni. Per un chilogrammo di carne bovina – sostengono gli esperti – servono in media 11.500 litri d’acqua, mentre per la stessa quantità di carne “coltivata” bastano tra 367 e 521 litri, mentre il consumo di suolo si riduce del 99%. Poi, come evidenziato da un articolo della giornalista Milena Gabbanelli su Corriere.it, ci sono ragioni sanitarie: l’allevamento intensivo è fonte di epidemie (mucca pazza, influenza suina, aviaria), mentre l’uso massiccio di antibiotici a scopo preventivo contribuisce a provocare l’antibiotico-resistenza negli esseri umani.

Infine, le ragioni etiche: ogni anno sono allevati 60 miliardi di animali, la maggior parte prima di finire al macello vive in condizioni di tortura per ottenere massima produttività. Il tutto può essere riassunto con una frase pronunciata da Winston Churchill nel lontano 1931: “Tra cinquant’anni la smetteremo con l’assurdità di allevare un pollo intero per mangiarne solo il petto o le ali. Faremo crescere queste parti separatamente, con l’aiuto di mezzi adatti”.

Sicurezza alimentare

Altra domanda cruciale: dal punto di vista della sicurezza alimentare, il consumo di carne coltivata rappresenta un rischio per la salute umana?

La risposta è negativa secondo un articolo di approfondimento della Fondazione Umberto Veronesi. In Unione Europea la carne coltivata è considerata un “novel food” e quindi deve sottostare a stretti controlli e normative che regolamentano l’introduzione di questi alimenti sul nostro mercato, si spiega, come avviene anche per i prodotti che contengono insetti.

In Italia risulta già obbligatorio per legge riportare gli ingredienti e la provenienza degli alimenti in etichetta; pertanto, la carne coltivata potrà essere consumata da tutti coloro che liberamente e in modo informato decidono di acquistarla.

«Qualora l’Autorità Europea sulla Sicurezza Alimentare (EFSA) dovesse approvare la sicurezza della carne coltivata, questa potrà entrare nel mercato europeo e potrà essere acquistata – aggiunge la Fondazione Veronesi – Il disegno di legge emanato dall’attuale governo dovrà pertanto sottostare alla decisione dell’Unione Europea, mettendo la popolazione italiana nella condizione di poter acquistare questa carne coltivata purché non abbia provenienza italiana.

Mettendo da parte questo concetto, uno degli aspetti che mette in dubbio la sicurezza di questo prodotto è la modalità con cui è realizzato. Ancora una volta ci si trova davanti a un tema molto polarizzante: naturale verso “sintetico” (anche se in realtà questo termine non è corretto perché la carne coltivata è prodotta in laboratorio a partire da cellule animali)”.»

Una cosa è certa: al di là della provenienza della carne, l’elemento fondamentale alla base della nostra dieta deve essere la varietà, con una forte predilezione per frutta e verdura. Come spesso ricordato da Assidai, Fondo di assistenza sanitaria integrativa di emanazione Federmanager, nelle proprie informative agli iscritti e nell’attività di divulgazione quotidiana sui mezzi di comunicazione, un’alimentazione equilibrata – insieme con l’adozione di stili di vita sani – rappresenta uno dei pilastri della cosiddetta prevenzione primaria, principale strumento a nostra disposizione per evitare l’insorgere delle malattie croniche.

La posizione di Coldiretti

Infine, sul tema della carne sintetica, va registrata anche la posizione di Coldiretti, che ha promosso il disegno di legge del Governo, poiché risponde – ha commentato il Presidente Ettore Prandini – alle richieste di mezzo milione di italiani che hanno firmato la petizione che abbiamo promosso per salvare il Made in Italy a tavola dall’attacco delle multinazionali.

Secondo Coldiretti si tratta di una

«pericolosa deriva che mette a rischio il futuro della cultura alimentare nazionale, delle campagne e dei pascoli e dell’intera filiera del cibo Made in Italy e la stessa democrazia economica”. […] Le bugie sul cibo in provetta confermano che c’è una precisa strategia delle multinazionali che, con abili operazioni di marketing, puntano a modificare stili alimentari naturali fondati sulla qualità e la tradizione.

La verità è che non si tratta di carne ma di un prodotto sintetico e ingegnerizzato, che non salva l’ambiente perché consuma più acqua ed energia di molti allevamenti tradizionali, non aiuta la salute perché non c’è garanzia che i prodotti chimici usati siano sicuri per il consumo alimentare e, inoltre, non è accessibile a tutti poiché è nelle mani di grandi multinazionali»,

ha concluso Prandini.

Un 2022 record per donazioni e trapianti di organi

Nel 2022 per la prima volta le donazioni di organi in Italia hanno superato quota 1.800 in un anno, con un significativo incremento anche dei trapianti: 3.887, il secondo miglior risultato di sempre. Inoltre, c’è stato un trend in crescita evidente delle donazioni di organi e di trapianti, già segnalato nel 2021, con un recupero totale ai livelli pre Covid, cosa che colloca l’Italia ai primi posti in Europa.

Ecco il quadro in deciso progresso che emerge dal recente report sull’attività di donazione e trapianti relativi al 2022 elaborato dal Centro Nazionale Trapianti (Cnt) e presentato di recente dal Ministro della Salute, Orazio Schillaci, insieme al Direttore del Cnt, Massimo Cardillo, e al Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro.

Il Ministro Schillaci ha commentato i dati in modo positivo, ricordando tuttavia come ci siano ancora molti pazienti in attesa di un trapianto. Inoltre, ha sottolineato l’importanza di continuare a investire sulla promozione della cultura della donazione, annunciando che “quest’anno la Giornata Nazionale per la Donazione di Organi e Tessuti si terrà domenica 16 aprile”. In tale occasione il Ministero della Salute farà partire la nuova campagna annuale, che rappresenta uno dei principali momenti di informazione e sensibilizzazione per i cittadini.

Una ricorrenza importante, come molte altre in ambito socio-sanitario, che rappresentano un utile momento di riflessione per tutti i cittadini; su questi temi Assidai è molto attento essendo un Fondo di assistenza sanitaria integrativa che informa i manager, quadri e consulenti iscritti insieme alle loro famiglie e promuove la cultura della salute verso i propri iscritti e stakeholder, perché il benessere degli iscritti e delle loro famiglie è prioritario per un Fondo di natura non profit, come il nostro, i cui valori sono la solidarietà e la mutualità.

Donazioni: Italia terza in Europa

Guardando al report del Centro Nazionale Trapianti nel dettaglio, emerge come le donazioni di organi solidi sono state complessivamente 1.830 (+3,7% sul 2021), 1.461 da donatori deceduti e 369 da viventi. Un risultato frutto in particolare di un nuovo aumento delle donazioni potenziali segnalate in rianimazione (2.662, +4,1%), che fanno un nuovo passo verso i livelli pre-Covid (la pandemia, d’altra parte, aveva avuto il suo impatto più forte proprio sulle terapie intensive), sottolinea il rapporto.

Per questo motivo il tasso nazionale di donazione per milione di popolazione risulta il più alto di sempre (24,7) e pone ancora una volta l’Italia ai vertici europei dietro alla Spagna e insieme alla Francia. La regione con il tasso di donazione più elevato si conferma la Toscana (49,3 donatori per milione) ma va segnalato l’aumento rilevante del tasso in Emilia-Romagna (46, +8,8 sul 2021) e il buon risultato del Veneto (36,3, +6,2). Ancora indietro nel complesso il Centro-Sud, con qualche lieve segnale di crescita in Lazio, Campania e Calabria.

Dati record anche sui trapianti

Diretta conseguenza dell’incremento delle donazioni è stato l’aumento dei trapianti: il numero complessivo ha raggiunto 3.887, quasi 100 in più rispetto al 2021 (+2,5%) e secondo miglior risultato di sempre, con tassi regionali in crescita quasi ovunque: la Lombardia si conferma la regione nella quale si realizzano più interventi seguita da Veneto (che è la prima in rapporto alla popolazione), Piemonte, Emilia-Romagna e Lazio.

Guardando al dettaglio dei singoli organi sono stabili i trapianti di rene (2.038, 4 in meno che nel 2021 a causa di una lieve contrazione delle donazioni da vivente) e quelli di cuore (254 pari a +0,8%). Si registra un aumento molto significativo di quelli di fegato (1.474 pari a +5,6%), mai così tanti, e di quelli di polmone (138, +17,9%), la specialità più penalizzata negli anni della pandemia; in calo i trapianti di pancreas, che scendono da 54 a 38. Da ricordare nel 2022 la realizzazione del secondo trapianto italiano di utero a Catania (il terzo è stato effettuato il 12 gennaio scorso) e la nascita di una bambina grazie al primo trapianto, quello del 2020. È stato effettuato anche un trapianto multiviscerale intestino-fegato-pancreas: complessivamente i trapianti combinati sono stati 56.
Numeri importanti anche per l’attività di donazione di tessuti, molto penalizzata durante la pandemia, ma che per il secondo anno di fila cresce considerevolmente: i prelievi nel 2022 sono stati 11.031 (+10,4%), con aumenti importanti per le cornee e il tessuto muscolo-scheletrico. Inoltre, è stato un 2022 da record per l’attività riguardante midollo osseo e cellule staminali emopoietiche: sono state 329 le donazioni effettive realizzate (+9,7%) e 961 i trapianti (+3,1%), miglior risultato di sempre in entrambi i casi.

Il nodo delle dichiarazioni di volontà

Sullo sfondo resta il tema delle dichiarazioni di volontà alla donazione depositate nel Sistema informativo trapianti al 31 dicembre 2022, fermo restando il fatto che si tratta di una scelta assolutamente personale.

Le dichiarazioni hanno superato quota 14 milioni e mezzo: 72% i consensi e 28% le opposizioni. Quelle registrate nel solo 2022 nei Comuni italiani attraverso il sistema CIE (carta d’identità elettronica) sono state 2,7 milioni, con una percentuale di no del 31,8% (+0,7% rispetto al 2021). In generale si è espresso (positivamente o negativamente) il 55,5% dei cittadini che hanno fatto richiesta del documento, mentre gli altri hanno deciso di non registrare alcuna indicazione.

“Le opposizioni registrate in vita restano alte, specialmente nelle regioni del Sud dove sfiorano o in qualche caso superano il 40%: un dato che conferma la necessità di sensibilizzare soprattutto due fasce d’età: i 18-30enni (tra i quali la percentuale di opposizione è più alta rispetto ai 30-40enni, e questo è particolarmente valido per i neo-maggiorenni) e gli over 60, tra i quali è frequente la convinzione che la donazione sia impossibile per ragioni anagrafiche: il recente trapianto di fegato realizzato in Toscana grazie alla donazione di una donna di quasi 101 anni (la più longeva di sempre a livello mondiale) dimostra che l’età non è ostacolo alla donazione”, conclude il report del Centro Nazionale Trapianti.

Giornata delle Malattie Rare, iniziative e obiettivi

La prima Giornata delle Malattie Rare è stata celebrata nel 2008, con la scelta del 29 febbraio come “un giorno raro per i malati rari”! E così, anche quest’anno, l’ultimo giorno di febbraio è stata un’occasione per promuovere in tutto il mondo l’inclusione delle persone con una malattia rara e la loro partecipazione piena, equa e significativa alla società.

Va ricordato che una malattia si definisce rara quando la sua prevalenza, intesa come il numero di casi presenti su una data popolazione, non supera la soglia dello 0,05%, ossia 1 caso su 2.000 persone. Si stima che i malati rari in Italia siano oltre 2 milioni e di questi 1 su 5 è un bambino. Le malattie rare ad oggi conosciute sono tra le 7.000 e le 8.000 e sono generalmente gravi, spesso croniche, talvolta progressive, non sempre facilmente diagnosticabili. Circa il 30% dei malati rari, infatti, non ha una diagnosi e rischia di convivere con una malattia che resterà per sempre senza nome.

L’iniziativa di sensibilizzazione “Scienza partecipata”

Di fronte a numeri di questa entità è evidente che un elemento cruciale è quello della sensibilizzazione, per evitare che chi viene colpito da una malattia rara non resti “invisibile” alla società o, peggio, abbandonato a sé stesso.

A tal proposito, tra le iniziative promosse negli ultimi giorni spicca “Scienza partecipata”, illustrata nel corso di un convegno organizzato, a Roma, dal Comitato nazionale per le malattie rare (Cnmr) e da Uniamo (Federazione italiana malattie rare Onlus), proprio in occasione della Giornata mondiale delle malattie rare.

Si tratta, in buona sostanza, di alcune soluzioni, idee o invenzioni finalizzate a migliorare la qualità della vita delle persone colpite da queste patologie. Qualche esempio? Un programma radiofonico condotto da pazienti, una moka che si può stringere con una mano sola, un videogioco per spiegare come gestire il sacchetto nei pazienti stomizzati e incontinenti, una rete di strutture turistiche con ausili specifici, gestite e rivolte da chi ha particolari esigenze dettate dalla propria condizione di salute.

Gli obiettivi: diagnosi più veloci e meno disagi sociali

“Le malattie rare – ha sottolineato Domenica Taruscio, già Direttore del Cnmr e ideatrice del progetto – sono caratterizzate da diversi aspetti: ritardi nella diagnosi, costi di cure che sono spesso elevati, disagi sociali che di conseguenza generano emarginazione e solitudine, scarse informazioni disponibili”. A maggior ragione quindi, è importante migliorare, con piccoli accorgimenti quotidiani, la vita di chi è colpito da queste patologie.

“I progetti sono un bellissimo laboratorio di pratica, in buona parte attuabili con pochi euro o con minimi cambiamenti organizzativi, per cambiare concretamente alcune cose”, ha aggiunto Annalisa Scopinaro, Presidente di Uniamo. La stessa Scopinaro ha fatto notare come varie indagini hanno permesso di quantificare in oltre quattro anni il ritardo diagnostico per le persone con malattia rara, senza mettere in conto coloro che stanno ancora aspettando un nome per la loro patologia

Quindi, “è necessario aumentare le patologie indagate e studiate via via che si sviluppano terapie, con procedimenti burocratici più snelli, sviluppando nel contempo un’accurata presa in carico successiva alla diagnosi”. Basti pensare che i bisogni dei bambini con malattie rare sono cambiati notevolmente negli anni, in rapporto a nuove e sempre più efficaci opportunità di diagnosi, cura e prevenzione.

“Anche quest’anno – ha concluso Scopinaro – è stata una campagna molto intensa: ci ha portato ad attraversare otto regioni in Italia, con eventi che hanno visto la partecipazione delle istituzioni, degli enti, dei politici, di tantissime associazioni. Lo scopo è stato raggiungere e sensibilizzare un pubblico sempre più ampio sul lungo percorso che compiono i pazienti quando affrontano la malattia, partendo dal momento del percorso diagnostico. È fondamentale accendere tutti i riflettori possibili, perché le persone colpite da una malattia rara ancora oggi hanno una diagnosi che ritarda quattro anni in media, a volte sette, a volte venti, a volte non vengono mai diagnosticati”.

Marcello Gemmato, sottosegretario alla Salute con delega alle malattie rare, ha chiosato: “Abbiamo celebrato questa importante giornata con due certezze: una l’approvazione del Piano delle Malattie rare, l’altra la certezza di avere una serie diffusa sul territorio di associazioni che affrontano le malattie rare. Uniamo la politica per andare incontro ai nostri malati”.

Approvato il Piano Nazionale Malattie Rare

Va ricordato, infatti, che nel 1993 le malattie rare sono state dichiarate una priorità per la sanità pubblica dalla Commissione Europea e, come anticipato sopra, nel 2008 è stata istituita la Giornata delle Malattie Rare. In tutti questi anni molti importanti risultati sono stati raggiunti, tra questi la recente approvazione del testo finale del Piano Nazionale Malattie Rare (Pnmr) 2023-2025, che delinea gli obiettivi su diagnosi, cure, formazione e informazione, per affrontare le malattie rare e per migliorare il più possibile la qualità di vita di chi ne è affetto ed il cui iter proseguirà con il passaggio in Conferenza Stato-Regioni.

Un risultato importante, anche se per darne piena attuazione occorreranno risorse economiche e un percorso sanitario omogeneo e sempre più efficiente, con personale adeguatamente formato e centri attrezzati per diagnostica e terapie mirate, che oggi risultano ancora, purtroppo, insufficienti.

La ricerca sulle malattie rare, infatti, va avanti, così come le possibilità di cura, ma bisogna anche pensare ad ottimizzare le risorse e rendere unico il percorso diagnostico, a partire dallo screening neonatale, uno strumento importante per la diagnosi precoce di queste malattie. A questo proposito, l’Italia è il primo Paese in Europa per numero di patologie inserite nello screening neonatale esteso (49), con una legge che ha permesso la costruzione della rete (279/2001) e con l’arrivo dei decreti nazionali di allargamento del panel, si potrebbe dare questa opportunità anche a bimbi affetti da ulteriori malattie.

Un portale tutto dedicato alle malattie rare

Di recente, il Governo ha lanciato un portale tutto dedicato alle malattie rare, nel rispetto dei principi della nostra Costituzione che difende l’universalità e l’equità del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e il diritto alla salute, che va tutelato sempre, ancora di più quando si è più deboli. Valori che Assidai sostiene e ribadisce con forza nell’attività divulgativa nei confronti dei propri iscritti e dei propri stakeholder.

Il sito www.malattierare.gov.it è, in particolare, frutto di un accordo di collaborazione tra il Ministero della Salute e il Centro Nazionale Malattie Rare (CNMR) dell’Istituto Superiore di Sanità, con il sostegno del Ministero dell’Economia e delle Finanze e con il supporto tecnico del Poligrafico e Zecca dello Stato. Esso offre una raccolta di tutti i punti di riferimento sul territorio per i malati rari, dai centri di cura ai punti di informazione regionali, alle associazioni, con l’intenzione di diffondere l’informazione online su questo tema in modo integrato con le attività del Telefono verde gestito dal CNMR, e in accordo con gli obiettivi del Piano nazionale per le malattie rare e con il Dpcm sui Livelli essenziali di assistenza, i cosiddetti Lea.

Fulcro dell’intero progetto è la banca dati che ha digitalizzato il prezioso patrimonio informativo del Centro Nazionale Malattie Rare. Le informazioni sono infatti presentate in un sito di semplice consultazione dove trovare numeri e indirizzi utili, mentre una newsletter periodica consente un aggiornamento costante sui diversi aspetti che coinvolgono queste patologie. Per ciascuna di esse insieme con il codice di esenzione sono offerte le informazioni su centri di diagnosi e cura, associazioni di volontariato e di pazienti con malattie rare, domande e risposte più frequenti e notizie varie.

Inoltre, sempre la banca dati contiene anche informazioni su malattie rare non esenti. Insomma, un registro autorevole, indipendente e certificato diventato ormai un punto di riferimento a livello sanitario per l’Italia.

Cancro al colon-retto, svolta chirurgica con un nuovo protocollo

Una diversa e nuova filosofia di gestione del paziente nel periodo precedente a un’operazione per cancro al colon-retto e, al tempo stesso, un approccio multidisciplinare, in cui è necessario coordinare le diverse figure professionali che ruotano intorno al paziente stesso: chirurgo, anestesista, fisioterapista, nutrizionista e, non ultimo, infermiere.

In questi processi si sintetizza il protocollo Eras, Enhanced Recovery After Surgery, ovvero “miglior recupero post intervento chirurgico”. Il tutto con l’obiettivo di ridurre lo stress operatorio e migliorare la risposta dell’organismo all’operazione. In chirurgia colorettale – nel cui ambito è stata eseguita un’ampia ricerca sul tema – dopo alcune difficoltà iniziali, l’applicazione del protocollo Eras si è fortemente affermata ed è diventato di uso frequente, per cui anche la percentuale di aderenza è aumentata nel corso degli anni.

In altre parole, si tratta di un percorso integrato, che permette di ottenere decorsi migliori e un più rapido recupero nei pazienti sottoposti a interventi chirurgici per neoplasie del colon retto, che rappresentano il 10% di tutti i tumori diagnosticati nel mondo e colpiscono principalmente gli uomini tra i 50 e i 70 anni.

La svolta del protocollo Eras

Il protocollo Eras è stato adottato da diversi ospedali italiani, tra cui il Versilia di Lido di Camaiore. In una recente intervista al quotidiano “La Nazione”, il Direttore della struttura di Chirurgia generale, Dott. Marco Arganini ha ricostruito caratteristiche e benefici di questo percorso pre-operatorio, che ha acquisito maggior valore soprattutto negli ultimi anni, durante i quali – spiega – si è assistito a un forte incremento della patologia nella popolazione anziana ultrasettantenne, con localizzazione prevalente a carico del colon destro.

L’elevata incidenza delle neoplasie colon rettali in età avanzata espone peraltro i pazienti, spesso soggetti fragili, a decorsi post-operatori complicati sia per evenienze specifiche dell’intervento che generiche (polmoniti, infezioni urinarie). Ecco perché, per migliorare il risultato dell’intervento chirurgico in termini non solo di complicanze, ma anche di cura della malattia, negli ultimi anni è stato messo a punto un percorso finalizzato a condurre il paziente all’intervento nelle migliori condizioni generali possibili, consentendo anche una rapida ripresa e una precoce dimissione. “Il protocollo su cui è basato il percorso Eras – fa notare il Dott. Marco Arganini – è strutturato per ottenere la riduzione dello stress e il mantenimento delle fisiologiche funzioni nel post-operatorio, accelerando così il recupero”.

Inoltre, i professionisti coinvolti nella cura del paziente – l’anestesista, il chirurgo, il geriatra, il medico riabilitatore, il nutrizionista, l’infermiere di reparto e di sala operatoria – lavorano in sinergia e valutano collegialmente il paziente, con l’obiettivo di migliorarne la performance al momento dell’intervento.

I punti chiave del percorso

Ma che cosa prevede esattamente il protocollo Eras? La fase iniziale del percorso è volta a fornire al paziente, ovviamente preoccupato da quanto lo aspetta, tutte le informazioni sulle fasi dell’intervento. In un incontro con tutto il gruppo di professionisti coinvolti nella cura, il paziente e i parenti si confrontano con il chirurgo, con l’anestesista e soprattutto con il personale infermieristico, ovvero con tutte le figure professionali che hanno un ruolo di rilievo nel percorso chirurgico.

L’attenta valutazione preoperatoria multidisciplinare è particolarmente utile per ottenere un miglioramento delle condizioni generali del paziente che, come un atleta, deve affrontare la gara nelle migliori condizioni possibili. Per esempio, la sospensione del fumo e del consumo di alcol sono utili nel ridurre le complicanze respiratorie e le infezioni post-operatorie, così come l’attività fisica e gli esercizi indicati dal medico riabilitatore, focalizzati sulle fragilità del paziente stesso, giocano un ruolo decisivo nel riportarlo rapidamente, nel post-operatorio, alle sue normali condizioni.

Attenzione anche all’eventuale contemporanea presenza di anemia e malnutrizione e alla correzione di questi parametri con un’adeguata integrazione nutrizionale e infusione di ferro: la correzione di questi parametri è cardine fondamentale del percorso. L’assunzione di carboidrati e liquidi per bocca fino a poche ore prima dell’intervento, differentemente dal digiuno protratto in uso nella chirurgia tradizionale, gioca poi un ruolo specifico nel ridurre gli effetti del trauma chirurgico sul metabolismo.

Altro aspetto cruciale, sottolineato dal Dott. Marco Arganini: “Il percorso Eras oltre a determinare la riduzione delle giornate di degenza, consente attraverso l’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse professionali in associazione con la chirurgia mininvasiva, la realizzazione di una terapia di precisione che tiene conto delle differenze individuali del paziente in termini di stile di vita e ambiente, conciliandosi con la imprescindibile sostenibilità economica del sistema sanitario”.

Sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale e prevenzione primaria

Proprio la sostenibilità del Sistema sanitario italiano, praticamente unico al mondo per le sue caratteristiche di equità e universalità, è uno dei temi più cari ad Assidai, così come il concetto che la sanità privata può rappresentare soltanto un supporto, e mai un’alternativa a quella pubblica.

Tra i fattori che contribuiscono alla sostenibilità del SSN c’è anche la prevenzione primaria, altra pietra miliare della mission di Assidai, oltre che nostro principale strumento a disposizione per la riduzione dell’incidenza delle malattie croniche, tra le quali c’è anche il tumore al colon retto.

L’adozione di stili di vita corretti, un’alimentazione equilibrata e varia, lo stop all’utilizzo di vino e tabacco e un’attività fisica frequente rappresentano infatti i principali comportamenti che possiamo attuare per limitare patologie cardiocircolatorie, diabete e cancro, responsabili della maggior parte dei decessi a livello mondiale.

Il Ministro della Salute Schillaci: stili di vita cruciali

Il valore della prevenzione primaria è stato evidenziato di recente anche dal Ministro della Salute, On. Orazio Schillaci, che ha firmato la prefazione della nuova edizione de “I numeri del cancro 2022”, studio prezioso per porre l’attenzione su un ambito prioritario nelle politiche sanitarie del nostro Paese. Nato dalla collaborazione tra AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica), AIRTUM (Associazione Italiana Registri Tumori), Fondazione AIOM, ONS (Osservatorio Nazionale Screening), PASSI (Progressi delle Aziende Sanitarie per la Salute in Italia), PASSI d’Argento e SIAPEC-IAP (Società Italiana di Anatomia Patologica e di Citologia Diagnostica), il volume – ha sottolineato il ministro – costituisce un supporto di grande valore per il Servizio Sanitario Nazionale, per il Ministero della Salute e, indubbiamente, per i pazienti oncologici, ai quali, mai come adesso, è necessario offrire le pratiche migliori di prevenzione, cura e assistenza.

Come emerge dallo studio, “a seguito di decenni caratterizzati da notevoli progressi, la pandemia di Covid-19 ha determinato una battuta d’arresto nella lotta al cancro, causando in Italia, nel complesso, un forte rallentamento delle attività diagnostiche in campo oncologico, con conseguente incremento delle forme avanzate della malattia. Questi ritardi sicuramente influiranno sull’incidenza futura delle patologie neoplastiche”. In numeri, la stima del numero di nuovi casi di tumore nel 2022 parla di un numero complessivo di nuove diagnosi pari a 390.700 (205.000 negli uomini e 185.700 nelle donne). Erano 376.600 (194.700 negli uomini e 181.900 nelle donne) nel 2020. Una dinamica, dunque, purtroppo ascendente che potrebbe però essere legata anche all’invecchiamento della popolazione.

In ogni caso, conclude il Ministro nella propria prefazione, “per quanto riguarda i fattori di rischio comportamentali, i dati raccolti durante il biennio 2020-2021 segnano un momento di accelerazione per lo più in senso peggiorativo. Si tratta di un dato che non può non destare preoccupazione se si considera che il 40% dei casi e il 50% delle morti oncologiche possono essere evitati intervenendo su fattori di rischio prevenibili, soprattutto sugli stili di vita”.

Dunque, “alla luce di questo scenario, è quanto mai urgente puntare sul tempestivo ripristino dei programmi di screening e di tutte quelle iniziative essenziali per fronteggiare una delle sfide principali per la salute globale”.

Legge Sirchia, 20 anni dopo meno fumatori e malati

Vent’anni fa, per l’esattezza il 16 gennaio 2003, veniva approvata la “Tutela della salute dei non fumatori”, anche nota come “legge Sirchia”, una delle norme più coraggiose a tutela della salute pubblica.

Girolamo Sirchia era l’allora Ministro della Salute, che riuscì a condurre in porto quella che, per diversi anni, era sembrata un’impresa quasi impossibile: affermare il diritto delle persone di non essere esposte al fumo passivo. A ben venti anni di distanza quali sono stati gli effetti di questa svolta sulla salute degli italiani e sul numero di fumatori nel nostro Paese? La risposta è: sicuramente positiva, anche se – in particolare per il secondo aspetto – l’ultimo triennio, segnato dal Covid, ha registrato una preoccupante inversione di rotta.

La nascita della legge Sirchia

Che cosa prevedeva la Legge Sirchia? Innanzitutto va ricordato che tre anni prima, un altro ministro della Salute, il Professor Umberto Veronesi, uno dei più famosi oncologi del nostro Paese, aveva provato a promuovere senza successo un provvedimento simile. La norma del 2003 di Sirchia sarebbe entrata in vigore soltanto il 10 gennaio 2005 e si proponeva di proteggere la salute dei non fumatori in tutti i luoghi chiusi.

Niente più fumo passivo obbligato, quindi, alla macchinetta del caffè in ufficio, al bancone del bar, in pizzeria, sui treni. Oltre al divieto di fumo, dovevano essere affissi cartelli appositi, identificati i responsabili dell’applicazione della norma, previste multe per i fumatori che la violavano e per gli esercenti inadempienti, fissati stretti criteri per le aree fumatori, dove consentite (ventilazione, superfici, collocazione, barriere, segnalazioni).

Contrariamente alle più fosche aspettative, – ricorda un approfondimento sul sito della Fondazione Umberto Veronesi – quando i nuovi limiti entrarono in vigore, nel 2005, la gente non smise di uscire per mangiare, bere e incontrarsi. Ma si adattò e, anzi, accolse la misura con favore. Un’indagine dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) sui proprietari di pub e ristoranti rilevò che dopo l’entrata in vigore della legge antifumo solo il 2% aveva registrato proteste da parte dei clienti, favorevoli nel 76% dei casi, e solo l’11% aveva riportato perdite finanziarie significative.

Nel 2005, il 90% degli italiani intervistati si dichiarava a favore dei limiti al fumo nei luoghi chiusi e nel 2006 l’88% riteneva che la norma fosse rispettata senza problemi. Questa tendenza si è rafforzata nel tempo ed è cambiata anche la percezione del fumo nei luoghi privati: nel 2008 il 70% degli italiani dichiarava di non consentire il fumo in casa, in nessuna stanza, nel 2021 la percentuale era salita all’88,6%.

Il calo del numero di fumatori

Ma la domanda chiave che tutti ci poniamo è: avere vietato il fumo nei locali pubblici ha ridotto la percentuale di italiani tabagisti?

In linea generale sì, anche se non nelle fasce più adulte della popolazione. E si è registrato un calo anche nella media di sigarette fumate ogni giorno. Va precisato che i dati differiscono in base alla fonte utilizzata. In questo caso la scelta è di affidarsi ai numeri di Istat, elaborati da Info Data de Il Sole 24 Ore, che partono dal 2001 e arrivano fino al 2021. I dati evidenziamo che all’inizio del secolo il 23,7% degli italiani aveva il vizio del fumo. Una percentuale che, vent’anni più tardi, si è ridotta al 19%. Dato, quest’ultimo, in aumento rispetto al 18,4% riscontrato prima della pandemia, anche se non è chiaro se sia stato il lockdown a contribuire all’aumento.

Altro aspetto interessante è la riduzione della media di sigarette fumate ogni giorno. Nel 2001 il fumatore medio ne accendeva 14,6 ogni giorno, ovvero tre quarti di un pacchetto. Una cifra che due anni fa è scesa a 11, ovvero poco più di metà pacchetto. I trend cambiano se i dati vengono analizzati per fasce di età. Per esempio, tra chi ha un’età compresa fra i 60 e i 75 anni, la percentuale di fumatori è in aumento: dal 15% del 2001 al 20,5% del 2021. Allo stesso modo, nella fascia tra i 65 ed i 74 anni si è passati da un 13,1% di tabagisti al 15,1%.

In calo patologie asmatiche e coronariche

E gli effetti sulle patologie? Qui ci viene in soccorso uno studio della Società italiana di allergologia, asmologia e immunologia clinica che evidenzia un bilancio positivo.

Sono, infatti, diminuiti del 10-15% gli accessi al pronto soccorso e i ricoveri dei pazienti asmatici, anche tra i più piccoli. “I progressi ottenuti negli ultimi 20 anni rappresentano un importante risultato di salute pubblica”, sottolineano gli esperti della società.

Tra i benefici della legge 3/2003, l’Istituto Superiore di Sanità evidenzia anche la riduzione degli eventi coronarici acuti registrata in Italia tra il 2004 e gli anni successivi all’introduzione della legge, “con valori che vanno dal -4% al -13% dei ricoveri per infarto tra le persone in età lavorativa”. In generale – va ricordato – i dati elaborati e comunicati dal Ministero della Salute nel maggio 2022 dicono che in Italia siano attribuibili al fumo oltre 93.000 morti all’anno (il 20,6% del totale di tutte le morti tra gli uomini e il 7,9% del totale di tutte le morti tra le donne) con costi diretti e indiretti pari a oltre 26 miliardi di euro.

Assidai e la prevenzione primaria

Un Fondo di assistenza sanitaria integrativa come Assidai promuove costantemente, sia nel corso degli eventi che sui propri organi di comunicazione, l’importanza di stili di vita corretti e di un’alimentazione appropriata perché il benessere dei manager e delle loro famiglie è al primo posto.

Il tabacco e l’alcol rappresentano fattori di rischio elevati e contribuiscono in modo importante allo sviluppo di molti tumori, oltre che per le patologie cardiocircolatorie. Ridurre, quindi, al minimo il consumo di alcolici, evitare il fumo, seguire un’alimentazione equilibrata e una dieta varia, che comprenda almeno cinque porzioni di frutta e verdura al giorno, ed effettuare attività fisica (o semplice movimento) con regolarità sono i capisaldi della prevenzione primaria, il principale strumento a nostra disposizione per evitare l’insorgenza di malattie croniche.

Ricordiamo che Assidai è presente sul mercato da oltre 30 anni e nasce nel 1990 da un’intuizione di Federmanager come Fondo sanitario integrativo del Fasi. Nel corso degli anni ha esteso il proprio campo d’azione proteggendo anche coloro che sono iscritti ad altri fondi primari diversi dal Fasi e tutelando non solo i manager delle aziende industriali, ma anche quadri e alte professionalità. Tra i vantaggi sottolineiamo il fatto che gli iscritti possono fruire di un’eccellente rete di strutture sanitarie presente in modo capillare su tutto il territorio nazionale.

Sostanze chimiche, rischi per la salute e per l’apparato riproduttivo

Le sostanze perfluoroalchiliche, i cosiddetti Pfas, possono interferire con la fertilità influenzando la produzione di ormoni e, in sostanza, alterando il sistema riproduttivo attraverso svariati meccanismi, alcuni dei quali insospettabili. Ad affermarlo è un recente studio pubblicato su Cell, autorevole rivista inglese di biologia, e realizzato da un pool di ricercatori del consorzio GeneraLife, gruppo europeo di cliniche specializzate in medicina della riproduzione, in collaborazione con il laboratorio di Biologia dello sviluppo dell’Università di Pavia.

Ma di che materiali stiamo parlando esattamente? In questo caso, per una spiegazione, ci viene in soccorso il sito del Ministero della Salute: Pfos (acido perfluoroottansulfonico) e Pfoa (acido perfluoroottanoico) appartengono alla famiglia delle sostanze organiche perfluoroalchiliche (Pfas), si spiega.

Entrambi sono composti chimici, prodotti dall’uomo e pertanto non presenti naturalmente nell’ambiente, stabili, contenenti lunghe catene di carbonio, per questo impermeabili all’acqua e ai grassi. Grazie alle loro caratteristiche essi vengono utilizzati in prodotti industriali e di consumo per aumentare la resistenza alle alte temperature, ai grassi e all’acqua, di tessuti (in particolare i cosiddetti “prodotti tecnici” utilizzati per fare sport), tappeti ed abbigliamento, rivestimenti di carta ad uso alimentare, di pentole antiaderenti, nonché in schiume antincendio.

Il problema? “Pfoa e Pfos sono composti persistenti, ossia permangono per periodi prolungati nell’ambiente in seguito al rilascio e pertanto alcune ditte hanno previsto l’interruzione della produzione e la sostituzione di Pfoa e Pfos, cambiando i processi di produzione, riducendo il rilascio e il livello di questi composti nei loro prodotti”, sottolinea il Ministero della Salute.

Gli effetti sulla salute: diverse interpretazioni

Detto ciò, a livello medico Pfoa e Pfos sono ritenuti fattori di rischio per un’ampia gamma di patologie, anche se la questione è ancora oggi oggetto di approfonditi studi. Sicuramente, come detto, agiscono come interferenti endocrini, in grado cioè di alterare la sintesi di ormoni, compromettendo la crescita e riducendo la fertilità. Inoltre, i Pfas sono sospettati di interferire nella comunicazione intercellulare, aumentando così il rischio di sviluppare tumori.

Tra le malattie la cui causa potrebbe essere attribuita all’esposizione prolungata a queste sostanze, vi sono tumori ai reni e ai testicoli, ma anche disfunzionalità della tiroide, ipertensione in gravidanza e colite ulcerosa. Inoltre, alcuni studi suggeriscono un incremento delle patologie fetali e gestazionali nelle aree più esposte alla contaminazione.

Sull’argomento, il Ministero della Salute fa notare che gli studi sull’uomo hanno fornito risultati non coerenti sulle possibili relazioni tra i livelli di Pfoa e Pfos nel sangue e gli effetti avversi sulla salute e la loro interpretazione è resa ancora più difficile dalla presenza di fattori confondenti presenti nella popolazione generale (ad esempio, gli stili di vita). Tuttavia, “gli studi disponibili suggeriscono che un maggiore livello ematico di Pfoa e Pfos possa essere associato ad un aumento di livelli di colesterolo nel sangue, di acido urico e ad un aumentato rischio di pressione alta. Il principale organo bersaglio sembra essere il fegato anche in studi effettuati sugli animali”.

Pur essendo disponibili numerosi studi su diverse specie animali, l’estrapolazione di tali dati dall’uomo è particolarmente difficile per le significative differenze nel destino di tali sostanze all’interno dell’organismo e nel modo in cui queste provocano tossicità. Sebbene alcune ricerche abbiano suggerito una possibile correlazione con tumori testicolari e renali, a causa di incongruenze osservate, non è stato possibile concludere in modo definitivo circa il legame tra l’esposizione a Pfoa e Pfos e il cancro nell’uomo, continua il Ministero della Salute.

Gli effetti riscontrati sono stati interpretati con cautela in quanto non costantemente evidenziati, sia su lavoratori che sulla popolazione generale rispettivamente esposti a livelli elevati o più bassi di questi composti, non considerando altri potenziali fattori di rischio, quali il fumo. Diversamente, gli studi sugli animali hanno evidenziato un aumento di alcuni tipi di tumori a carico del fegato, testicolo, e tiroide.

Le conseguenze sull’apparato riproduttivo

Riguardo i Pfas, va ricordata un’altra analisi svolta due anni fa dall’Università di Padova, pubblicata sul Journal of Endocrinological Investigation, condotta su 120 ventenni nati e residenti nelle zone esposte all’inquinamento da Pfas, dimostrando una significativa alterazione del numero e della motilità degli spermatozoi. I risultati sono stati recentemente confermati da una ricerca danese, eseguita su giovani esposti a queste sostanze durante la gravidanza. Gli esperti, in questo caso, hanno raccolto campioni di sangue da oltre mille donne nel primo trimestre di gravidanza e hanno controllato le caratteristiche dello sperma di oltre 800 figli di quelle donne a 18 anni di distanza, dimostrando una relazione lineare tra le concentrazioni di Pfas delle madri e la scarsa motilità e la bassa conta degli spermatozoi.

Al proposito, il nuovo studio condotto dall’Università di Padova riporta che il Pfoa è presente anche nel liquido seminale dei giovani esposti, a concentrazioni di circa il 30% di quelle plasmatiche e dimostra la specifica interazione tra queste sostanze chimiche e i fosfolipidi di membrana, principali costituenti della membrana stessa. Cosa determina tutto ciò? Modifica la fluidità della membrana e interferisce con recettori e canali presenti sulla stessa, la cui attivazione è fondamentale per lo sviluppo del processo di fertilizzazione.

Assidai e la prevenzione primaria: il valore dell’informazione

Per quanto si tratti di concetti certamente complessi e per quanto le conclusioni degli studi empirici svolti sugli effetti dei Pfas non siano ancora completamente coerenti, quello di cui ci siamo occupati è un argomento di forte attualità e riguarda la nostra vita di tutti i giorni, visto che questi composti chimici possono essere presenti nelle pentole antiaderenti o nei tessuti tecnici.

Per questo, essere a conoscenza dei potenziali rischi di alcuni prodotti può essere considerato parte integrante del concetto di prevenzione primaria: Assidai – che si era già occupato di questi temi – la considera centrale per difendersi dalle cronicità, ovvero malattie cardiocircolatorie, tumori e diabete in primis. Laddove, ovviamente, per prevenzione primaria si intendono anche e soprattutto una serie di comportamenti da adottare nella vita di tutti i giorni per “trattare bene” il nostro corpo. Dunque, un’alimentazione equilibrata con le giuste dosi di frutta e verdura, lo stop a qualsiasi uso di tabacco, consumo moderato di alcol e praticare attività fisica, anche modesta, almeno due o tre volte a settimana.

I segreti dell’alimentazione dei centenari

Qual è il segreto per arrivare a 100 anni in buona salute? Diversi ricercatori, accademici ed esperti di alimentazione si sono esercitati su questo tema. Uno degli ultimi studi, in ordine temporale, è stato realizzato dall’Università di Teramo che ha esaminato un’area dell’Abruzzo che comprende 151 comuni delle zone interne e a ridosso dei Parchi: lì risiedono 503 centenari e 18.000 nonagenari (cioè oltre i 90 anni), attestati dall’Istat. Insomma, un’area non troppo grande su cui effettuare le proprie indagini con cura e che ha rivelato due fattori cruciali per la longevità, comuni peraltro ad altre ricerche effettuate in altre zone del mondo. Ovvero, “un’attività fisica costante e una dieta sana con grande consumo di prodotti vegetali quali verdura, frutta, legumi, cereali e, invece, l’assenza quasi totale di dolci”, ha sottolineato il professor Mauro Serafini, ordinario di Alimentazione e Nutrizione umana all’Università di Teramo.

Il caso dell’Abruzzo non è l’unico: negli ultimi anni sono saliti agli onori delle cronache, tra gli altri, i centenari della Sardegna (in particolare in provincia di Nuoro) e quelli dell’isola di Okinawa, in Giappone. E anche in questi casi emerge con forza il valore dell’alimentazione e delle buone abitudini nel determinare una vita lunga e in buona salute, evitando – attraverso la cosiddetta prevenzione primaria – l’insorgere di malattie croniche. Un concetto che Assidai, attraverso una costante attività di divulgazione e informazione verso i manager iscritti e tutti gli altri stakeholder, sostiene in modo convinto con due obiettivi: tutelare la salute ed evitare che i drammi legati alle patologie croniche, oltre alle gravi conseguenze dal punto di vista personale e familiare.

La dieta dei centenari abruzzesi e lo “stress infiammatorio”

Dunque, quali sono le abitudini alimentari dei centenari d’Abruzzo? Secondo gli studiosi gioca un ruolo centrale lo “sdijuno”, o “stappa digiuno”: sarebbe una prima colazione salata di circa 300 calorie, consumata alle 6:30 del mattino. Per pranzo, alle 12:30, pasto abbondante con polenta, carne, legumi, pasta fatta in casa. La cena, sempre seguendo la tradizione locale, è alle 18:30, a base di verdure, minestra, uova, formaggi. “Con questi ritmi si favorisce un basso stress infiammatorio notturno in concordanza con i ritmi circadiani (cioè di 24 ore) che, infatti, rallentano il metabolismo nelle ore serali. – ha sottolineato al proposito il Professor Serafini – Pur essendo, il nostro, uno studio osservazionale analizza l’importanza della crononutrizione legata all’orario dei pasti per una maggiore longevità: dalla cena al pranzo ci sono circa 17,5 ore della cosiddetta “restrizione calorica”, una finestra interrotta soltanto dalla prima colazione. Questo dà alle persone la capacità di non stressare né il sistema immunitario né il metabolismo, preparandoli per un pasto abbondante come il pranzo”. In sostanza, ha continuato, “si tratta di una possibile spiegazione della loro longevità, senza dimenticare che a determinarla intervengono numerosi altri fattori”, tra cui ovviamente anche la genetica.

Un concetto chiave è quello di “stress infiammatorio” – sottolinea al proposito la Fondazione Veronesi – che viene sempre più nominato in medicina, ma non è molto noto ai non addetti ai lavori: si tratta di una risposta immunitaria al cibo, una sorta di meccanismo di difesa dal cibo stesso, che si innalza dopo un pasto e scende dopo 7-8 ore. “Se il mangiare è continuo e non sano – osserva al proposito il professor Serafini – il livello dello stress non torna più giù. Ed è un danno”.

I casi della Sardegna e della giapponese Okinawa

Anche in Sardegna, nel Sud dell’isola e vicino Nuoro, ci sono zone con una vita media molto elevata. I segreti? Poco stress, niente fumo, attività fisica dettata dalle abitudini giornaliere (o dal lavoro nei campi) e alimentazione come fattore fondamentale. I centenari consumano prevalentemente prodotti naturali senza conservanti e additivi e bevono acqua pura durante tutto il giorno. La dieta è ricca di fibre e con modeste quantità di carboidrati e poca carne: legumi, cereali integrali, verdura e frutta fresca sono tra gli elementi più importanti, poi ci sono i formaggi mentre viene consumato poco pesce. Nell’isola giapponese di Okinawa, invece, la dieta si basa su un basso apporto calorico: la regola è alzarsi da tavola quando si è sazi all’80%. E poi ci sono gli alimenti cardine della dieta che si fonda soprattutto su cibo di origine vegetale: patate dolci come fonte primaria di carboidrati, tanti vegetali e legumi (soprattutto soia), consumo moderato di pesce e solo occasionale di carne magra e formaggi. Pochissimi grassi e alcol bandito. È utile ricordare che all’ingresso del villaggio di Ogimi, situato nel nord rurale della principale isola di Okinawa, c’è una piccola lastra in pietra che riporta alcune frasi in giapponese. La traduzione: “A 80 anni, sei un giovane. A 90, se i tuoi antenati ti invitano in cielo, chiedi loro di aspettare fino a che non arrivi a 100, poi puoi prendere in considerazione la cosa”. Secondo gli ultimi censimenti, 15 dei 3.000 abitanti del villaggio di Ogimi sono centenari e 171 sono ultranovantenni. Certo, conta anche la componente genetica, ma è indubbio che un’alimentazione equilibrata e senza eccessi giochi un ruolo fondamentale.

Assidai, il Fondo sanitario per i manager che guarda all’innovazione e alla sostenibilità

Videointervista di Radiocor – Il Sole 24 Ore al Presidente di Assidai Armando Indennimeo

“Un Fondo di assistenza sanitaria di natura non profit i cui valori cardini principali sono la solidarietà e la mutualità”. Armando Indennimeo, presidente di Assidai, il Fondo di assistenza sanitaria integrativa dei dirigenti di aziende industriali nato più di 30 anni fa su iniziativa di Federmanager, parla dell’impegno di guidare il Fondo in un’ottica di continuità, ascoltando i territori e gli stakeholder e con un’attenzione molto forte verso l’innovazione e la sostenibilità. Con l’obiettivo di allargare la platea e rafforzare il posizionamento del fondo integrativo del Fasi attraverso una sempre maggiore diffusione del Prodotto Unico Fasi-Assidai. Forte di soluzioni tailor made innovative e competitive, il presidente Indennimeo annuncia due importanti novità per il 2023: una sul Piano Sanitario Familiari e l’altra relativa alle prestazioni per la non autosufficienza.

Terapia protonica, nuovo strumento contro i tumori

In gergo tecnico si chiama terapia protonica. In termini più divulgativi si può definire una radioterapia con dose precisa e maggiore di radiazioni dirette a un sito tumorale, che risparmia organi e tessuti circostanti. È la grande novità che verrà lanciata nel settembre 2023 dall’Istituto Europeo di Oncologia – IEO. Proprio nelle scorse settimane, l’istituto milanese all’avanguardia nella lotta e nel trattamento del cancro ha ricevuto i componenti di Proteus One, definito il macchinario “più avanzato a livello internazionale per la terapia con protoni”. “Per la prima volta in Italia – hanno annunciato di recente dall’Irccs fondato da Umberto Veronesi – viene installato un sistema compatto di protonterapia all’interno di una struttura costruita appositamente per ospitarlo. IEO Proton Center è infatti il primo caso di edifico progettato e realizzato su misura per l’apparecchiatura di protonterapia, la forma più innovativa di radioterapia di altissima precisione”. Quali sono i principali vantaggi della protonterapia? Principalmente due. Innanzitutto consente la riduzione del rischio di tumori secondari indotti dai raggi ed è utilizzata in combinazione con altre discipline come chirurgia, chemioterapia, farmaci molecolari o altre metodiche radioterapiche. In secondo luogo può ottenere una risposta dal sistema immunitario decisamente superiore alla radioterapia tradizionale: per questo i centri di protonterapia si stanno moltiplicando in tutti i Paesi occidentali.

I numeri e le potenzialità del progetto

Per capire l’entità e l’importanza del progetto, bastano le parole dell’Amministratore Delegato dello IEO, Mauro Melis: “Il Proton Center è uno dei maggiori investimenti nella storia dell’Istituto Europeo di Oncologia. Ci abbiamo creduto già sei anni fa e lo porteremo a termine nei tempi previsti all’inizio dei lavori, malgrado l’epidemia Covid-19, la crisi energetica e la situazione economica generale. Saremo il primo Irccs a dotarsi di un proprio centro protoni, che sarà all’avanguardia tecnologica e con un alto profilo di sostenibilità. Disponiamo del sistema di protonterapia più avanzato a livello internazionale, installato per la prima volta in Italia e collocato all’interno di un edificio – su misura – e con tecnologie costruttive tipiche delle infrastrutture ma applicate all’edilizia sanitaria”. Ciò nasce anche, ha aggiunto, dall’esigenza di rispondere “all’urgente bisogno del Paese di questa cura innovativa, riconosciuta dal Ministero della Salute come salvavita. Allo stesso tempo assolveremo alla nostra missione che è quella di offrire ai pazienti oncologici, che a noi si rivolgono con fiducia e speranza, la miglior cura disponibile al mondo.” Qualche numero? Attualmente in Italia si stima che i malati candidabili a protonterapia siano circa 7.000, una domanda che i soli tre centri italiani, con una capacità di trattamento stimata di 1.000 pazienti all’anno, già oggi non possono soddisfare. Se poi gli studi scientifici in corso confermeranno le aspettative, nel nostro Paese la domanda di terapia protonica potrebbe riguardare fino al 15% di tutti i pazienti candidati a un trattamento di radioterapia.

Il ruolo della protonterapia nella sanità italiana

Dal punto di vista prettamente medico, “i risultati ottenuti su oltre 200.000 pazienti trattati con protoni nel mondo dimostrano ampiamente il valore terapeutico della protonterapia – ha sottolineato dal canto suo il direttore scientifico dello IEO, Roberto Orecchia – Inoltre le sue potenzialità sono ancora in gran parte inespresse. Si aprono quindi scenari di ricerca inediti, a cui il Proton Center Ieo contribuirà, anche grazie al suo collegamento con l’ospedale”. La protonterapia – ha proseguito l’esperto – è infatti in continua evoluzione, anche in combinazione con altre discipline, come chirurgia, chemioterapia, farmaci molecolari, immunoterapia o altre metodiche radioterapiche. Sono oltre 150 gli studi di validazione e approfondimento in corso nel mondo e i centri di protonterapia si stanno moltiplicando in tutti i Paesi ad alto tasso di sviluppo. L’Italia, insieme alla Francia, è oggi il paese europeo con il più basso rapporto tra sale di trattamento/numero di abitanti”. Va anche ricordato che il Ministero della Salute ha fatto rientrare la protonterapia fra le cure salvavita nel 2015 e nel 2017 ha individuato 10 patologie oncologiche per le quali è considerata appropriata. Inoltre, nel 2021 l’Istituto Superiore di Sanità ha emesso nuove raccomandazioni per l’uso dei protoni, indicando  che i maggiori vantaggi si ottengono nel trattamento di tumori solidi in pazienti pediatrici, tumori localizzati in sedi critiche perché circondati da strutture sensibili, tumori poco responsivi alla radioterapia convenzionale e per i quali è utile un approccio di dose-escalation, oltre che nei casi in cui occorre ridurre la tossicità complessiva dovuta al trattamento di ampi volumi in associazione a chemioterapia concomitante. Per riassumere, ha concluso Orecchia, quali sono i vantaggi per il paziente della cura con protoni: “Primo fra tutti la riduzione del rischio di tumori secondari indotti dai raggi. E poi il basso rischio di effetti collaterali durante e dopo il trattamento, che si traduce in una più rapida ripresa psicofisica. Va aggiunto infine un vantaggio per la società oggi non più trascurabile: la sostenibilità economica, garantita dall’ottimo rapporto costo/efficacia”.

Il ruolo della prevenzione primaria e la posizione di Assidai

Se la terapia protonica potrebbe rappresentare una importante svolta nel trattamento di alcuni tumori, va comunque ricordata l’importanza della prevenzione primaria. Essa resta infatti il principale strumento a nostra disposizione per diminuire l’incidenza delle malattie croniche (tra cui proprio il cancro), che nei Paesi industrializzati sono la principale causa dei decessi e delle situazioni di non autosufficienza. Una posizione che è sempre stata sostenuta con assoluta convinzione da Assidai nelle proprie informative agli iscritti, in cui ribadisce sempre il ruolo cruciale di un’alimentazione equilibrata (che preveda adeguate porzioni giornaliere di frutta e verdura) e di stili di vita che evitino la sedentarietà, il consumo di alcolici e, nella maniera più assoluta, quello di tabacco. Altrettanto importante è poi la prevenzione secondaria che, attraverso screening e visite specialistiche, consente in alcuni casi di scoprire le malattie croniche in anticipo e dunque di poterle affrontare con maggiore probabilità di successo. Del resto, come sappiamo, patologie simili sono innanzitutto un dramma umano, per il malato e per le famiglie, ma anche un enorme spesa per lo Stato e prevenirle aiuta in misura significativa la sostenibilità dei conti del Servizio Sanitario Nazionale (SSN).

Effetti benefici contro le malattie croniche dalle mandorle

Una manciata di mandorle al giorno (circa 56 grammi) avrebbe effetti benefici sulla salute dell’intestino e del colon, andando a rafforzare il microbioma, ovvero la micro-popolazione batterica intestinale che fa funzionare il colon. Oltre a ciò, le mandorle aiuterebbero anche a sostenere il sistema immunitario. A sostenerlo è il nuovo studio realizzato dal King’s College di Londra, pubblicato sull’American Journal of Clinical Nutrition. In realtà, nel corso degli ultimi anni, numerose e autorevoli indagini effettuate su diversi database alimentari nazionali hanno suggerito con forza che i consumatori di mandorle, in generale, hanno una migliore qualità della dieta. Questo si riflette in una maggiore assunzione di nutrienti come fibre, grassi insaturi, vitamina E, folati e altro, con un consumo inferiore di grassi saturi, zuccheri aggiunti e sodio. Non solo: alcune ricerche suggeriscono anche associazioni inverse fra il consumo di mandorle, fumo e sovrappeso. Una corretta alimentazione, come ricorda sempre Assidai nelle campagne di informazione dedicate ai propri iscritti, è uno dei pilastri della prevenzione primaria, fondamentale per diminuire i rischi di incidenza delle malattie croniche (patologie cardiocircolatorie, tumori e diabete).

I risultati dello studio: la chiave è il “butirrato”

Come è stato svolto esattamente lo studio dagli esperti del King’s College di Londra? Sono state reclutate 87 persone in salute con un’età compresa tra 18 e i 45 anni, tutte sostanzialmente “virtuose” dal punto di vista alimentare, visto che hanno dichiarato di avere l’abitudine di fare due spuntini giornalieri e di non seguire una dieta ricca di grassi. I volontari sono stati divisi in tre gruppi. Nell’arco di 4 settimane il primo gruppo doveva sostituire entrambi gli spuntini giornalieri, ogni volta con 28 grammi di mandorle intere (per un totale di 56 grammi al giorno, la famosa “manciata”). Il secondo gruppo aveva le stesse indicazioni con una sola differenza: le mandorle dovevano essere macinate e non intere. Infine, l’ultimo gruppo al posto delle mandorle consumava come spuntino un muffin equivalente come energia (cioè calorie). I risultati? I ricercatori hanno scoperto che chi consumava mandorle presentava livelli significativamente più elevati di butirrato, un acido grasso a catena corta dovuto alla fermentazione delle fibre delle mandorle nel colon, rispetto al gruppo di controllo del muffin. Un elemento cruciale: proprio il butirrato è importante per la salute dell’intestino, poiché funge da fonte primaria di carburante per le cellule del colon, consentendo loro di funzionare in modo ottimale. Non solo: può entrare nel flusso sanguigno dove è coinvolto nella regolazione della salute in altre aree del corpo, come fegato, cervello e polmoni. Infine, sempre il butirrato è importante perché forma una sorta di barriera nelle pareti intestinali, impedendo il pericoloso passaggio nel sangue da parte di microrganismi come i microbi: per questo viene anche considerato antinfiammatorio e protettivo nei confronti della colite (sindrome dell’intestino irritabile) e in grado di ridurre disturbi gastrointestinali come il gonfiore.

Un’ulteriore risultanza dello studio riguarda le differenze emerse se le mandorle fossero state mangiate intere o macinate: i volontari del primo gruppo hanno mostrato più movimenti intestinali dell’altro. L’ipotesi? Quando si consumano le mandorle intere, gran parte del loro grasso, a causa di una masticazione non prolungata, sfugge alla digestione e raggiunge di più il colon, facilitando il transito intestinale. 

Gli effetti benefici contro le malattie croniche

Come detto, le mandorle, secondo alcuni autorevoli studi, hanno effetti positivi anche su altre parti e altri meccanismi del nostro organismo. La dieta, per esempio, è fondamentale nella gestione del rischio cardiovascolare e oltre vent’anni di ricerca supportano il ruolo delle mandorle nell’aiutare a mantenere un cuore sano. Infatti, secondo la Food and Drug Administration le prove scientifiche suggeriscono, ma non dimostrano, che mangiare circa 42 grammi di mandorle come parte di una dieta povera di grassi saturi e colesterolo può ridurre il rischio di malattie cardiache.

I cambiamenti nell’alimentazione sono spesso i primi e più efficaci passi da fare per ridurre il rischio di malattia cardiovascolare, e le ricerche suggeriscono che mangiare mandorle può aiutare a mantenere un cuore e dei livelli di colesterolo sani. Gli studi su gruppi diversi geneticamente e su persone con diversi Body Mass Index (un indicatore che tiene conto di peso e altezza) mostrano una riduzione del colesterolo totale e Ldl (il colesterolo “cattivo”) e un mantenimento del colesterolo Hdl (quello “buono”). In studi più recenti, altri fattori di rischio di malattia coronarica, infiammazione e grasso addominale sono migliorati con il consumo di mandorle come parte di una dieta sana per il cuore.

Infine, nonostante la densità energetica relativamente alta, le mandorle quando assunte come parte di una dieta sana, non provocano aumento del peso e possono avere persino effetti benefici sulla composizione corporea, specialmente in adulti sovrappeso o obesi. Molti meccanismi spiegano le associazioni positive fra le mandorle e la frutta secca e il bilancio energetico e il peso corporeo, inclusi il loro potere saziante, la disponibilità di calorie incomplete e un possibile miglioramento della spesa energetica a riposo.