Malattie cardiovascolari, ecco come prevenirle

Le malattie cardiovascolari rappresentano, insieme a tumori, patologie respiratorie croniche e diabete, il principale problema mondiale di sanità pubblica. Queste malattie croniche non trasmissibili sono, infatti, la prima causa di morbosità, invalidità e mortalità e il loro impatto provoca danni umani, sociali ed economici elevati. L’Europa, in particolare, presenta il più alto carico di queste patologie e il nostro Paese non fa eccezione. Rientrano in questo gruppo di malattie, tra le altre, le più frequenti patologie di origine arteriosclerotica, in particolare le malattie ischemiche del cuore (infarto acuto del miocardio, sindrome coronarica acuta e angina pectoris), le malattie cerebrovascolari e le arteriopatie periferiche. E’ per questo motivo che l’Alleanza Italiana per le malattie cardio-cerebrovascolari, un patto strategico nato nel 2017 sotto la regia del Ministero della Salute e formato da 32 federazioni e società di cardiologia e neurologia, medicina interna, medici di medicina generale, pediatri, farmacisti e associazioni di pazienti con il comune obiettivo di implementare interventi di prevenzione e di assistenza alle malattie cardio-cerebrovascolari, quest’anno ha pubblicato un lungo e approfondito studio intitolato “Prevenzione delle malattie cardiovascolari lungo il corso della vita”.

In Italia il trend migliora ma il futuro è sfidante

Innanzitutto, presentiamo i numeri. Secondo il dossier, a livello globale si stima che nel 2019 tali patologie abbiano causato 18,6 milioni di decessi (239,8 decessi per 100.000 persone) e che circa un terzo di questi si verifichi prematuramente nelle persone di età inferiore ai 70 anni. Secondo i dati Istat nel 2018 in Italia sono stati rilevati complessivamente 220.456 decessi per malattie del sistema circolatorio. Le malattie ischemiche del cuore, le altre malattie del cuore e le malattie cerebrovascolari rappresentano le prime tre cause di morte nel nostro Paese (27,1% di tutti i decessi nel 2018), anche se i loro tassi di mortalità si sono ridotti in 15 anni: dal 2003 al 2018, infatti, si è passati per le malattie ischemiche del cuore da 15,62 a 8,03 per 10.000 abitanti; per le “Altre malattie del cuore” da 10,08 a 6,85 per 10.000 abitanti, per le malattie cerebrovascolari da 13,43 a 7,01 per 10.000 abitanti, mentre per le malattie del sistema circolatorio nel loro complesso si è passati da 46,87 a 28,08 per 10.000 abitanti. Un miglioramento rilevante, – prosegue lo studio pubblicato dal Ministero della Salute – favorito dal miglioramento dell’efficacia delle misure preventive, terapeutiche, assistenziali e riabilitative di queste patologie e dei correlati fattori di rischio. Tuttavia, l’invecchiamento della popolazione favorisce un incremento della prevalenza di cronicità cardiovascolari nella popolazione, in particolare con l’avanzare dell’età, realizzando un’esigenza di salute che richiede notevoli risorse assistenziali, con un carico per il Sistema Sanitario Nazionale sempre più gravoso. Ecco, dunque, la necessità di spingere ulteriormente l’acceleratore sulla prevenzione primaria: un fronte su cui Assidai si è sempre impegnata con un’informativa costante a favore dei propri iscritti e mettendo a disposizione, periodicamente, campagne di screening gratuite, anche nel settore delle patologie cardiocircolatorie.

I fattori di rischio

Per parlare di prevenzione è opportuno ricordare i principali fattori di rischio delle malattie cardiocircolatorie. Tra questi ci sono i rischi non modificabili (familiarità, fattori genetici, età, genere, etnia) e quelli modificabili, che intervengono invece nelle diverse età della vita in rapporto alle abitudini alimentari, all’attività fisica, a fattori favorenti esterni e sono considerati, appunto, modificabili con interventi comportamentali precoci e con terapie mirate. I principali rischi di questa categoria comprendono tabagismo, sedentarietà e inattività fisica, scorretta alimentazione, sovrappeso e obesità, ipertensione arteriosa, diabete mellito e ipercolesterolemia. Una statistica parla chiaro: nel quadriennio 2016-2019 il sistema di sorveglianza PASSI (Progressi delle Aziende Sanitarie per la Salute in Italia) ha rilevato che su 100 intervistati 20 presentavano una diagnosi di ipertensione, 23 di ipercolesterolemia, 34 erano sedentari, 25 fumatori, 42 lamentavano peso in eccesso e appena 10 persone riferivano di consumare 5 porzioni di frutta e verdura al giorno come raccomandato. Inoltre, quasi il 5% degli intervistati riferiva una diagnosi di diabete. Complessivamente il 40% degli intervistati presentava almeno 3 dei fattori di rischio cardiovascolari sopra menzionati e solo una piccolissima quota (meno del 3%) risultava del tutto libera dall’esposizione al rischio cardiovascolare noto.

Le sette regole d’oro per la prevenzione

Eccoci infine al pezzo forte dello studio: la prevenzione primaria, che per le malattie cardiovascolari si basa essenzialmente sull’adozione e sul mantenimento di stili di vita salutari, possibilmente lungo tutto il corso dell’esistenza; e sull’identificazione precoce e sull’adeguata gestione delle eventuali condizioni cliniche che aumentano il rischio di malattie cardiovascolari (diabete mellito, ipertensione arteriosa), anche attraverso le opportune terapie laddove non sia sufficiente modificare gli stili di vita.

Il paper realizzato dall’Alleanza Italiana per le malattie cardio-cerebrovascolari elenca in particolare sette regole d’oro per l’adozione e il mantenimento di stili di vita salutari:

  1. Non fumare, smettere di consumare qualsiasi prodotto del tabacco ed evitare l’esposizione al fumo passivo.
  2. Praticare regolarmente un’attività fisica adeguata. Nelle recenti linee guida delle Società Europea di cardiologia e dell’ipertensione arteriosa, in ragione dell’evidente legame tra movimento fisico e riduzione degli eventi cardio-cerebrovascolari, vengono raccomandati almeno 30 minuti di attività fisica moderata aerobica (camminata, corsa, bicicletta, nuoto) per 5-7 volte alla settimana o, alternativamente un’attività fisica intensa 2-3 volte alla settimana.
  3. Evitare il consumo rischioso e dannoso di alcol. Pur non esistendo una quantità di alcol da bere sicura per la salute e tenendo presente che l’unica tutela realmente efficace è non berne, il consumo non dovrebbe mai superare le due unità alcoliche al giorno per i maschi di età compresa tra i 18 e i 65 anni e una unità alcolica per le donne di età superiore ai 18 anni e gli ultra 65enni di ambo i sessi (una unità alcolica equivale a una birra da 33 cl o a un bicchiere di vino).
  4. Seguire una corretta alimentazione, varia ed equilibrata, come raccomandato anche dalle linee guida nazionali e internazionali. Cioè, per esempio, prediligere il consumo di verdura e frutta, cereali (preferenzialmente integrali), pesce, acidi grassi insaturi (come l’olio extravergine di oliva) e limitare l’assunzione di acidi grassi, riducendo il consumo di sale, evitando le bevande zuccherate e non superando mai le tre tazzine di caffè al giorno.
  5. Mantenere e perseguire un peso corporeo ottimale.
  6. Imparare a gestire lo stress.
  7. Evitare il consumo di droghe.

Assidai e la campagna gratuita anti-ictus

Anche Assidai ha sempre posto grande attenzione al tema della prevenzione, per esempio attraverso specifiche campagne offerte gratuitamente ai propri iscritti. Tra queste “Healthy Manager”, nel 2018 prevedeva proprio uno screening chiave per evitare l’ictus, una delle principali patologie da ricondurre al sistema cardiocircolatorio. In particolare, offriva la possibilità di sottoporsi all’esame ecocolordoppler dei tronchi sovraortici per rilevare eventuali stenosi carotidee. Esame giudicato in modo assolutamente positivo da tutti gli esperti dato che la medicina moderna è “anticipatoria” e pertanto la diagnosi precoce di stenosi carotidee asintomatiche, può portare a una riduzione non solo dell’ictus, ma anche dei costi sociali legati alle sue conseguenze cliniche invalidanti.

Imparare a nutrirsi giocando: l’ebook del Ministero della Salute

“La nutrizione giocando: principi base di una corretta alimentazione”. È questo il titolo di un’interessante iniziativa lanciata sotto forma di e-book dal Ministero della Salute (Direzione generale per l’igiene e la sicurezza degli alimenti e la nutrizione) e realizzata nell’ambito del Comitato MIUR (Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca) – Salute. L’obiettivo? “Favorire fin dalla giovane età l’apprendimento di tematiche nutrizionali, privilegiando la circolarità fra la dimensione del fare, quella del sapere e quella del piacere”. Non è un caso che i destinatari di tutto ciò siano gli insegnanti della scuola primaria e secondaria di primo grado.

Lo spirito è chiaro: insegnare, giocando, ai bambini come nutrirsi in maniera sana dato che – come sappiamo – proprio una dieta varia ed equilibrata rappresenta uno dei pilastri per evitare l’insorgere di problematiche di sovrappeso e obesità in giovane età (un problema purtroppo sempre più diffuso in Italia) e di gravi cronicità, a partire da quelle cardiovascolari e dal cancro, in età adulta. Un concetto più volte rimarcato da Assidai, in sostanza il valore della cosiddetta “prevenzione primaria”, anche attraverso interviste a diversi esperti.

Il concetto di dieta e i vantaggi per la salute

Il presupposto da cui parte l’iniziativa è molto semplice. La salute è definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come uno “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente come l’assenza di malattia o infermità”. Per essere in buona salute, dunque, “dobbiamo curare il corpo, la mente e le relazioni sociali, prestando attenzione allo stile di vita e all’ambiente in cui viviamo”, anche perché “molte scelte personali influenzano la salute stessa come, ad esempio, il modo di mangiare, di affrontare gli impegni quotidiani e di rapportarsi con gli altri”. Inoltre, le abitudini alimentari si instaurano molto presto nella vita dell’individuo, “pertanto l’educazione alimentare nelle scuole rappresenta una azione di protezione della salute ed una strategia vincente”, si legge nei documenti del progetto.

Non si manca inoltre di sottolineare che, secondo l’OMS, circa un terzo delle malattie cardiovascolari e dei tumori potrebbe essere evitato grazie ad un corretto stile di vita, che comprende una dieta varia ed equilibrata e una costante attività fisica. Ma cosa si intende col termine dieta? Siamo spesso abituati ad associare questa parola all’accezione “dieta dimagrante” rivolta, quindi, alle persone in sovrappeso o obese, oppure si pensa alla dieta solo in caso di patologia. In realtà, il termine dieta deriva dal greco e significa “abitudine, modo di vivere”, da cui il latino dieta, per cui viene associato all’abitudine alimentare. La dieta, quindi, non ha un significato di privazione, ma rappresenta l’insieme degli alimenti che assumiamo per soddisfare il nostro fabbisogno.

La dieta varia durante le diverse fasi della vita (gravidanza, allattamento, infanzia, adolescenza e terza età). Dagli alimenti l’organismo umano ricava tutte le sostanze che gli servono per svolgere le attività quotidiane. I nutrienti più importanti sono i carboidrati, le proteine e i grassi che sono utilizzati dalle cellule del nostro organismo per essere bruciati e ricavare l’energia necessaria a svolgere tutte le attività vitali come respirare, mantenere costante la temperatura corporea, studiare, praticare l’attività fisica. Nessun alimento in natura contiene da solo tutte le sostanze nutritive indispensabili, per questo risulta fondamentale variare la dieta il più possibile. In generale, gli alimenti sono stati divisi in 7 gruppi, ognuno dei quali contiene determinati principi nutritivi. Eccoli: carni, pesce e uova; latte e derivati; cereali e derivati; legumi; grassi da condimento; ortaggi e frutta fonti di vitamina A; ortaggi e frutta fonti di vitamina C.

La colazione, il pranzo e la cena rappresentano i pasti principali in termini di importanza e, quindi, di percentuale di ripartizione delle calorie; vanno poi considerati 2 spuntini, uno a metà mattina e uno a metà pomeriggio. Un concetto, quello dello spuntino, che in un’intervista a Welfare 24 era stato sottolineato anche da un’importante esperta di alimentazione, la Dottoressa Sara Farnetti (per approfondire: Dobbiamo avere sempre cura di noi stessi). Ruolo cruciale nella dieta è infine svolto dall’acqua, che deve essere assunta regolarmente (almeno due litri al giorno), essendo peraltro il maggior componente di tutti gli organismi viventi.

I vari tipi di cottura: ecco come sceglierli

Altro aspetto chiave affrontato dall’e-book del Ministero della Salute riguarda la cottura che di base ha lo scopo di aumentare la digeribilità dei cibi, alterarne la consistenza, arricchendoli di nuovi sapori, odori e colori, eliminare batteri, virus ed eventuali parassiti. Se non eseguita correttamente, però, può non solo peggiorare il sapore di un cibo ma ridurne anche il valore nutrizionale, ad esempio portando alla perdita di alcune vitamine. Nessun metodo di cottura – si spiega – può essere definito migliore di un altro, ognuno può essere utilizzato in maniera corretta secondo le precise metodiche e con gli utensili idonei, a seconda della ricetta, del tempo e delle circostanze. Vediamoli in ogni caso attraverso una breve panoramica:

  • La bollitura dal punto di vista nutrizionale consente di limitare molto l’utilizzo di grassi da condimento e di aromatizzare gli alimenti con l’aggiunta di odori e spezie. A seconda dell’alimento è necessario impiegare una diversa quantità di acqua e un tempo di cottura diverso: per verdure e legumi è meglio utilizzare il minor quantitativo possibile di acqua, in modo da ridurre al minimo le perdite di vitamine.  Più la cottura è lunga, maggiore è la perdita di vitamine. Per questo è preferibile immergere gli alimenti in acqua già bollente.
  • La cottura al vapore consiste nel mettere gli alimenti a contatto diretto con il vapore senza immergerli in acqua, con l’utilizzo di apposite pentole, evitando l’uso di grassi da cottura. Verdure, pesci e crostacei sono gli alimenti più indicati per la cottura al vapore. Questo genere di cottura non comporta perdite significative di nutrienti e spesso anche le caratteristiche organolettiche dell’alimento, come il sapore e la consistenza, risultano più salvaguardate. È inoltre il metodo che mantiene maggiormente integre le vitamine; quanto alle sue virtù dietetiche, valgono solo se non si esagera con i condimenti.
  • La cottura al microonde permette di dimezzare i tempi, riducendo al minimo le perdite di sostanze nutritive e l’aggiunta di condimenti; tuttavia, non è possibile cucinare alimenti di grossa pezzatura, perché le onde elettromagnetiche riescono a penetrare la superficie al massimo di 4/5 centimetri. Il calore intenso e rapido di questa cottura conduce a perdite di vitamine e minerali, che interessano soprattutto la vitamina C.
  • Le cotture alla griglia e alla piastra possono bruciare in superficie gli alimenti, formando sostanze potenzialmente dannose o cancerogene. Entrambi i metodi di cottura portano alla totale distruzione di vitamine e minerali, quando la cottura stessa è prolungata.
  • La frittura consiste nell’immergere e cuocere gli alimenti in grassi animali o oli vegetali che non dovrebbero raggiungere il “punto di fumo”, cioè la temperatura in cui il grasso inizia a bruciare e a decomporsi, formando sostanze tossiche; questo momento è visibile anche a occhio nudo perché il grasso riscaldato inizia a rilasciare del fumo vero e proprio. Come la brace, anche la frittura distrugge le vitamine. È un metodo di cottura di cui non fare uso quotidianamente.

Assidai e la prevenzione

Il progetto del Ministero della Salute è perfettamente allineato alla filosofia di Assidai, che cerca sempre di mettere a disposizione dei propri iscritti gli strumenti adeguati e le informazioni migliori per adottare stili di vita corretti, a sua volta fondamentali come prevenzione primaria contro le malattie croniche, principali cause di morte nel mondo occidentale. Il nostro fondo aveva dedicato per esempio un articolo ad hoc (per approfondire: Il nuovo portale per la prevenzione infantile) a un’altra iniziativa del Ministero della Salute che, in occasione della Giornata mondiale dell’alimentazione 2019, aveva promosso il sito internet piccolipiuinforma.it: un portale dedicato ai genitori dei bambini di 4-5 anni – ma ovviamente anche ai nonni, zii, baby-sitter, educatori e insegnanti – che mette a disposizione del lettore non solo percorsi semplici, costruiti e validati scientificamente per centrare obiettivi di salute, ma anche risposte a tanti dubbi e domande sulla nutrizione e sul movimento dei figli in età prescolare.

Osteoporosi, ecco come prevenirla

Lo scorso 20 ottobre è stata celebrata la Giornata mondiale dell’osteoporosi, una malattia caratterizzata da alterazioni della micro-architettura del tessuto osseo e compromissione della resistenza dell’osso che predispongono a un aumentato rischio di fratture spontanee o indotte da minimi traumi, definite anche come “fratture da fragilità”. Fratture che interessano principalmente le vertebre, il femore prossimale, l’omero prossimale, il polso e la caviglia. L’osteoporosi è molto diffusa a livello globale e si stima che nel nostro Paese colpisca circa 5 milioni di persone, di cui l’80% è rappresentato da donne in post menopausa.

A livello globale, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha più volte richiamato l’attenzione sull’osteoporosi e, soprattutto, sulle fratture da fragilità, che hanno rilevanti conseguenze sia in termini di mortalità sia di disabilità motoria, con elevati costi sanitari e sociali. Nel corso della propria vita, circa il 40% della popolazione incorre in una frattura del femore, di vertebra o di polso, nella maggioranza dei casi dopo i 65 anni, in crescita parallela rispetto all’aumento dell’aspettativa media di vita della popolazione mentre numerose indagini condotte dalla International Osteoporosis Foundation (IOF) in tutto il mondo hanno, inoltre, mostrato una carenza diffusa e persistente nella cura dell’osteoporosi e nella prevenzione delle fratture da fragilità.

Proprio la prevenzione – così come per molte altre patologie – è un fattore chiave nella lotta contro l’osteoporosi: nelle Strategie di intervento lanciate dal Governo negli anni scorsi si afferma infatti che “per quanto riguarda i fattori di rischio ambientali e modificabili, è noto che un’alimentazione non equilibrata e povera di calcio, spesso associata ad uno stile di vita sedentario, alterano il normale processo di rimodellamento osseo, favorendo il progressivo impoverimento dello scheletro”.

L’osteoporosi in Italia: numeri e trend

In Italia l’osteoporosi è diffusa in tutte le Regioni, anche per effetto del progressivo invecchiamento della popolazione, incidendo profondamente sullo stato di salute e di benessere delle persone affette, poiché si accompagna a gravi complicanze, quali le fratture, che peggiorano la qualità di vita e spesso ne riducono la durata.

Secondo l’indagine Multiscopo dell’Istat “Aspetti della vita quotidiana” relativa all’anno 2019, l’8,1% (il 2,3% dei maschi e il 13,7% delle femmine) della popolazione italiana ha dichiarato di essere affetto da osteoporosi, con prevalenza che aumenta progressivamente con l’avanzare dell’età, in particolare nelle donne dopo i 55 anni, fino a raggiungere il 32,9% (l’11,2% dei maschi e il 47,5% delle femmine) oltre i 74 anni.

La dimensione del fenomeno osteoporosi nel nostro Paese è stata indagata anche dallo studio ESOPO (Epidemiological Study On the Prevalence of Osteoporosis), condotto con valutazione ultrasonometrica calcaneare (QUS) su 16.000 pazienti (donne di età compresa tra i 40 e i 79 anni e uomini tra i 60 e i 79 anni) in 83 centri specialistici distribuiti su tutto il territorio nazionale, con la collaborazione di 1.850 medici di medicina generale. I risultati hanno fatto emergere un dato di prevalenza di osteoporosi del 22,8% nelle donne di 40-79 anni, e di quasi il 50% per le donne di età superiore ai 70 anni. Le fratture osteoporotiche oltre i 50 anni di età colpiscono un uomo su cinque e una donna su tre. Inoltre, si stima che il rischio di frattura osteoporotica nel corso della vita negli uomini di età superiore ai 50 anni arrivi fino al 27% e sia superiore al rischio di sviluppare il cancro alla prostata, che è dell’11,3%. Tutti dati coerenti con quanto rilevato in Italia da un’altra indagine Istat, in cui alla domanda “È affetto o è stato affetto in passato da una o più delle seguenti malattie o condizioni patologiche di lunga durata?”, il 25,1% degli italiani ultrasessantacinquenni ha dichiarato di aver ricevuto una diagnosi di osteoporosi. Le percentuali sono più alte in Sardegna (32,8%), Campania (31,3%) e Sicilia (30,1%), più basse in Trentino-Alto Adige (16,6%), Valle d’Aosta (18%) e Friuli-Venezia Giulia (18,9%). Se consideriamo le donne di età 45-79 anni la percentuale è del 19,5%, mentre considerando solo le donne di età superiore ai 70 anni si arriva al 43%. L’analisi delle serie storiche conferma inoltre che le donne sono più colpite degli uomini dall’osteoporosi con un rapporto che nella popolazione generale è di circa 7 a 1 e che la prevalenza dell’osteoporosi presenta un trend in crescita, in particolare per il sesso femminile.

La prevenzione dell’osteoporosi come fattore chiave

Alla luce di questi numeri e dei rilevanti costi che il Servizio Sanitario Nazionale si trova costretto ad affrontare per le conseguenze della osteoporosi (nel 2010 si stimavano oltre 7 miliardi l’anno, di cui 2,4 miliardi per le conseguenti disabilità a lungo termine), risulta cruciale lavorare in termini di prevenzione, una strategia considerata cruciale da Assidai non soltanto per questa specifica patologia.

Partiamo dal presupposto che la densità ossea diminuisce normalmente con l’età e l’incidenza di osteoporosi, pertanto, aumenta con l’invecchiamento. Il ricambio del calcio nell’osso è di circa il 100% all’anno nel bambino, ma diventa il 18% nell’adulto. Nello sviluppo dell’osteoporosi una crescita ossea sub-ottimale nelle prime fasi della vita deve essere considerata importante tanto quanto la perdita di massa ossea che si verifica in età adulta. L’osteoporosi è una condizione multifattoriale, alla cui patogenesi concorrono fattori costituzionali, genetici e ambientali. Tra i fattori di rischio non modificabili i più importanti sono l’età, il genere, la razza bianca o asiatica, la familiarità per osteoporosi o fratture da fragilità.

Per quanto riguarda i fattori di rischio ambientali e modificabili – e qui veniamo agli ambiti in cui deve incidere la prevenzione primaria – è noto che un’alimentazione non equilibrata e povera di calcio, spesso associata ad uno stile di vita sedentario, altera il normale processo di rimodellamento osseo, favorendo il progressivo impoverimento dello scheletro. Altri comportamenti, come il tabagismo, il consumo rischioso e dannoso di alcol e l’abuso di caffeina contribuiscono ad aumentare il rischio di malattia. La nicotina tende ad anticipare la menopausa di 1-2 anni, e, inoltre, interferisce con l’attività degli osteoblasti.

Per l’alimentazione, va sottolineato che sia il sovrappeso e l’obesità che l’eccessiva magrezza o la presenza di disturbi del comportamento alimentare, quali l’anoressia/bulimia, sono strettamente correlati con un elevato rischio di osteoporosi. Negli ambienti di vita e di lavoro, inoltre, prevalgono oggi condizioni che incoraggiano abitudini alimentari scorrette e riducono le opportunità di svolgere attività fisica. Gran parte della popolazione di tutte le fasce di età svolge un’attività fisica inadeguata e consuma in abbondanza alimenti e bevande ad alta densità energetica e scarso valore nutrizionale. In particolare, in Italia si è assistito nel secolo scorso al passaggio da un elevato consumo di frutta, verdura, cereali, olio d’oliva, legumi e pesce, proprio della dieta mediterranea tradizionale, ad un sempre maggiore consumo, specie tra i giovani, di alimenti ad alto contenuto di grassi e zuccheri semplici e povero di micronutrienti, fondamentali anche per la salute dello scheletro.

Il vademecum del Ministero della Salute

Infine, ecco un rapido vademecum, messo a punto dal Ministero della Salute, per prevenire l’insorgenza della osteoporosi.

A tavola la parola d’ordine è non sottrarre calcio all’organismo e contribuire alla sua assimilazione nelle ossa. Dunque:

  1. Bevi ogni giorno almeno una tazza di latte (200 ml), meglio se parzialmente scremato.
  2. Fai ogni giorno uno spuntino ricco di calcio: uno yogurt naturale o alla frutta (125 gr) o un frullato di frutta e latte.
  3. Bevi ogni giorno almeno 1,5 litri di acqua, meglio se ricca di calcio.
  4. Consuma 1 porzione di formaggio alla settimana (100 gr. di formaggio fresco come mozzarella, crescenza, quartirolo o 60 gr. di formaggio stagionato come grana, parmigiano, fontina, provolone, ecc.).
  5. Mangia pesci ricchi di calcio 3 volte alla settimana (alici, calamari, polpi, crostacei o molluschi).
  6. Evita l’assunzione di alimenti ricchi di calcio insieme ad alimenti ricchi di ossalati come spinaci, rape, legumi, prezzemolo, pomodori, uva, caffè, tè perché queste sostanze ne impedirebbero l’assorbimento (per esempio non abbinare formaggio e spinaci)
  7. Riduci l’uso del sale da cucina e di cibi ricchi di sodio (insaccati, dadi da brodo, alimenti in scatola o in salamoia).
  8. Evita di consumare un’elevata quantità di proteine perché aumentano l’eliminazione di calcio con le urine.
  9. Non eccedere con gli alimenti integrali o ricchi di fibre perché un giusto apporto è salutare, ma possono ridurre l’assorbimento di calcio.
  10. Limita gli alcolici perché diminuiscono l’assorbimento di calcio e riducono l’attività delle cellule che “costruiscono l’osso”.

Ciò senza dimenticare che la lotta alla osteoporosi ha due altri grandi alleati: il fitness e il sole. Praticare una regolare attività fisica è fondamentale per un buon mantenimento della funzione e della struttura ossea a tutte le età. Nell’infanzia e nell’adolescenza aiuta a raggiungere una maggiore densità dell’osso rispetto a chi rimane inattivo; nelle persone anziane un po’ di movimento tiene in allenamento la forza muscolare, diminuendo i rischi di cadute e fratture. Un ruolo importante è svolto anche dalla vitamina D che aiuta il corpo ad assorbire il calcio proveniente dai cibi ingeriti e agisce nei processi di rimodellamento osseo. Per soddisfare il nostro fabbisogno di vitamina D è cruciale l’esposizione alla luce solare in quanto siamo capaci di sintetizzarla a livello della pelle grazie ai raggi ultravioletti (UVB). Stare all’aperto un’ora al giorno, con mani, braccia o viso scoperti, è sufficiente per una normale produzione di vitamina D. Negli anziani, che escono poco e sempre molto coperti, possono essere indicati supplementi di questa vitamina.

È importante sottolineare come molti di questi accorgimenti siano coerenti con la prevenzione primaria da sempre sostenuta da Assidai e portata avanti negli anni anche con specifiche campagne di prevenzione – l’adozione di stili di vita sani, un’alimentazione equilibrata, un’attività fisica quotidiana – come strategia contro le malattie croniche (tumori, patologie cardiocircolatorie, diabete) principali responsabili dei decessi a livello globale.

Perché bere acqua fa bene al cuore

Bere circa due litri di acqua al giorno riduce i rischi di futuri scompensi cardiaci. Una corretta idratazione, regolare e continua, infatti, permette al cuore di continuare a pompare il sangue in maniera efficace anche in tarda età.

È la conclusione alla quale è arrivato uno studio presentato al congresso della European Society of Cardiology e condotto dal National Heart, Lung, and Blood Institute di Bethesda (USA), che fa parte dei National Institutes of Health. Questo non è che l’ultimo di diversi studi che sottolinea l’importanza del cosiddetto “oro blu” come la più preziosa risorsa per la vita. Del resto, l’acqua rappresenta circa il 70% del peso del nostro corpo e, fin dal concepimento, è la nostra “culla” naturale. Secondo molti esperti, è dunque l’elemento fondamentale per il mantenimento e la promozione del benessere e della salute umana e mediamente, anche attraverso i cibi, ne andrebbero assunti 2,5 litri al giorno.

L’indagine svolta dal National Heart, Lung, and Blood Institute ha ancora più valore perché riconosce, attraverso analisi empiriche e statistiche, un ruolo all’acqua come elemento per mantenere intatta la funzionalità cardiaca e dunque come strumento di prevenzione primaria contro le patologie dell’apparato cardiocircolatoria, principali cause di decesso nel mondo insieme ad altre cronicità come i tumori. Bere acqua nella giusta quantità ogni giorno appartiene a quei corretti stili di vita che Assidai da sempre promuove tra i propri iscritti, proprio con l’obiettivo di adottare abitudini, alimentari e non solo, corrette e finalizzate a prevenire le cronicità stesse.

I numeri dello studio sul rischio cardiovascolare

Vediamo ora nel dettaglio lo studio in questione. Innanzitutto, il campione, che faceva parte di un precedente studio americano sul rischio cardiovascolare: 15.800 adulti tra i 44 e i 66 anni di età seguiti fino all’età di 70-90 anni. Poi il metodo: come parametro indicativo dell’idratazione è stata usata la concentrazione di sodio nel sangue, due parametri inversamente proporzionali, mentre per quanto riguarda gli scompensi cardiaci non sono stati selezionati solo i casi conclamati ma anche quelli con ispessimento delle pareti del ventricolo sinistro, una condizione che quasi sempre precede la diagnosi vera e propria della patologia. L’obiettivo? Cercare di scoprire se la quantità di acqua assunta in mezza età fosse in qualche modo associata alla salute cardiaca 25 anni più tardi.

Ebbene, una maggiore concentrazione di sodio nella mezza età è stata associata sia a insufficienza cardiaca sia a ipertrofia ventricolare sinistra 25 anni dopo. Succede probabilmente perché l’organismo risponde alla minore idratazione cercando di conservare l’acqua e mettendo in moto processi che possono contribuire allo sviluppo dello scompenso cardiaco. Infine, i risultati: l’associazione tra scarsa idratazione e malattia cardiaca è rimasta evidente anche dopo aver preso in considerazione altri fattori di rischio, come l’età avanzata, l’ipertensione, la scarsa funzionalità renale, l’abitudine al fumo, alti livelli di colesterolo o un indice di massa corporea superiore alla norma. Conclusione: una buona idratazione per tutta la vita può ridurre il rischio di sviluppare ipertrofia ventricolare sinistra e insufficienza cardiaca.

L’acqua come strumento di prevenzione: gli altri studi

Il National Heart, Lung, and Blood Institute non è però l’unica istituzione autorevole a rimarcare l’importanza di una corretta idratazione. Altri autorevoli esperti hanno evidenziato come essere ben idratati ha molti vantaggi: prima di tutto, aiuta a controllare la quantità di calorie che ingeriamo e di conseguenza il peso. Questo perché talvolta la disidratazione può essere scambiata per fame e portarci a mangiare più del necessario, con eccessivo apporto calorico.

“L’acqua deve essere considerata lo strumento principale per idratare il corpo umano. Soprattutto se si considera quanto, nei Paesi occidentali, sia diffusa l’obesità, legata a un elevato apporto di bevande ad alto valore calorico”, fa notare Water & Health, consensus paper dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Quest’ultimo documento sottolinea anche come “una buona idratazione aiuta ad essere più attenti, migliora la memoria a breve termine e l’umore mentre la disidratazione rende incapaci di concentrarsi, causa problemi mnemonici e fa sentire il soggetto irritato e ansioso”.

Benefici ci sono anche per l’apparato cardiocircolatorio, in quanto si riduce la viscosità del sangue e il rischio di trombosi: il magnesio favorisce il rilasciamento delle fibrocellule muscolari cardiache mentre il calcio stimola la contrazione delle cellule e interviene nella coagulazione del sangue, riducendo i rischi di infarto. Infine, una buona idratazione mantiene il tratto urinario in salute e riduce il rischio di infezioni e di calcoli renali.

Assidai e la prevenzione primaria

L’acqua, dunque, come perno della prevenzione primaria, un concetto sempre sostenuto da Assidai. La prevenzione primaria va sottolineato, riguarda un soggetto sano e ha l’obiettivo di mantenere le condizioni di benessere e di evitare la comparsa di malattie. Nel dettaglio, si realizza introducendo una serie di attività o interventi che potenziano i fattori utili alla salute e correggono eventuali comportamenti che possono invece causare malattie. L’obiettivo è il benessere psicofisico e la riduzione del rischio legato all’insorgere di malattie.

In concreto, la prevenzione primaria è rappresentata per esempio da stili di vita sani e corretti: dormendo il giusto numero di ore oppure evitando l’eccessivo aumento di peso o della circonferenza vita. Essere sovrappeso, infatti, non è soltanto un tema estetico ma soprattutto può essere dannoso nel medio e lungo termine, accelerando l’invecchiamento, creando uno squilibrio ormonale consistente e affaticando i nostri organi, a partire proprio dal cuore.

Rinnovo dell’iscrizione all’Anagrafe dei Fondi Sanitari per l’anno 2021

Si conferma anche per il 2021 l’importante rinnovo dell’iscrizione di Assidai all’Anagrafe dei Fondi Sanitari per l’anno 2021. Infatti, proprio nella giornata di ieri, 20 ottobre 2021, la Direzione Generale della Programmazione Sanitaria del Ministero della Salute ha inviato al Fondo la certificazione con numero di protocollo 0021216-20/10/2021-DGPROGS-DGPROGS-UFF02-P.

Sono ben 11 anni che Assidai è iscritto all’Anagrafe dei Fondi Sanitari, istituita dal Ministero della Salute con Decreto del 31 marzo 2008 e del 27 ottobre 2009, e divenuta operativa nel 2010 – primo anno di attività dell’Anagrafe stessa.

Il riconoscimento appena arrivato si conferma essere, come ogni anno, un ulteriore tassello del ricco mosaico rappresentato dai valori del Fondo: riservatezza, professionalità, integrità, trasparenza, mutualità, solidarietà, assistenza, salute, innovazione. Essi rappresentano i pilastri della mission di Assidai, che opera con un obiettivo sopra tutti: prendersi cura degli iscritti e delle loro famiglie senza limiti di età, di accesso e di permanenza, senza selezione del rischio e per tutta la durata della loro vita.

L’iscrizione all’Anagrafe dei Fondi Sanitari va considerata un elemento fondamentale proprio perché evidenzia la trasparenza del Fondo insieme alla certificazione annuale su base volontaria del proprio bilancio, al Sistema di Gestione certificato ISO 9001:2015 e al Codice Etico e di Comportamento.

All’anagrafe – come esplicitato dal Ministero della Salute – si possono iscrivere volontariamente I fondi sanitari integrativi del Servizio Sanitario Nazionale (istituiti o adeguati ai sensi dell’art. 9 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modificazioni) e gli enti, casse e società di mutuo soccorso aventi esclusivamente fine assistenziale, di cui all’art. 51 comma 2, lettera a) del D.P.R. 917/1986 e successive modificazioni. L’iscrizione e il rinnovo dell’iscrizione può essere chiesta dal 1° gennaio al 31 luglio di ciascun anno e l’attestato viene rilasciato per via telematica, ai fondi sanitari aventi diritto, fra tutti quelli che ne hanno fatto richiesta. Inoltre, l’attestato ha la validità di un anno – pertanto l’iscrizione all’Anagrafe deve essere richiesta annualmente – e permette anche di beneficiare delle agevolazioni fiscali previste dalla normativa vigente.

Oltre alla documentazione relativa alla loro istituzione e regolamentazione, i fondi che richiedono l’iscrizione all’Anagrafe devono Si conferma anche per il 2021 l’importante rinnovo dell’iscrizione di Assidai all’Anagrafe dei Fondi Sanitari per l’anno 2021 (i cosiddetti LEA). Queste informazioni, soprattutto negli ultimi anni, hanno permesso di ampliare le conoscenze sulla sanità integrativa e di approfondire le sue dinamiche. A tal proposito, va ricordato che gli ultimi dati dell’Anagrafe sui Fondi Sanitari sono stati diffusi dal Ministero della Salute lo scorso anno e certificano una crescita costante della sanità integrativa italiana e con una netta prevalenza degli Enti, Casse e Società di mutuo soccorso (come Assidai) rispetto ai fondi sanitari puramente integrativi. Un trend che sarà sicuramente utile verificare con numeri più aggiornati (quando verranno pubblicati) insieme a un’altra tendenza: il divario tra il numero dei fondi sanitari integrativi e gli enti, casse e società di mutuo soccorso si è allargato nel tempo con la seconda categoria che ormai rappresenta il 97% del totale. Un gap rivelato anche dall’ammontare delle risorse erogate e nel numero di iscritti. Gli Enti, le Casse e le Società di Mutuo Soccorso, nel 2017, avevano erogato prestazioni per 2,32 miliardi di euro, a fronte di un totale di 10,6 milioni di iscritti; l’altra categoria di fondi si fermava rispettivamente a 1,3 milioni e poco più di 11.000 iscritti. Questi e molti altri dati avevamo presentato nell’articolo “Fondi sanitari in crescita continua. Ecco il report del Ministero della Salute pubblicato su Welfare 24, la newsletter che Assidai realizza da oltre otto anni con Il Sole 24 ore.

Al seguente link, invece, è possibile visualizzare la certificazione appena pervenuta dal Ministero della Salute https://www.assidai.it/chi-siamo/certificazioni/

Il Progetto ReFlex per un welfare aziendale di sistema

L’obiettivo è il superamento del divario di genere attraverso lo studio, la promozione, la realizzazione e la condivisione di iniziative che favoriscano l’equilibrio tra vita lavorativa e vita personale di donne e uomini, con una partecipazione più equilibrata agli impegni di cura familiare e un supporto più efficace alla genitorialità. Così il Progetto ReFlex, promosso dal Dipartimento per le politiche della famiglia della Presidenza del Consiglio dei Ministri, grazie al coinvolgimento diretto di 39 aziende italiane aderenti al “Tavolo istituzionale di confronto e dialogo col mondo delle imprese per la promozione della conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di cura della famiglia ed il sostegno della natalità e della maternità in ambito aziendale”, ha l’ambizione di “attuare e mettere a sistema un modello di welfare aziendale che diventi un punto di riferimento per tutte le imprese del Paese”, si legge nel sito dedicato all’iniziativa.

L’obiettivo è un “sistema virtuoso” di welfare aziendale

In altre parole, si vuole favorire la nascita di “un sistema virtuoso fatto di interventi mirati, attività formative e informative, ideazione e scambio di buone pratiche che, sfruttando anche le opportunità offerte dall’intelligenza artificiale attraverso un’applicazione dedicata, sia modulabile a livello territoriale e aziendale, misurabile in termini di efficienza e suscettibile di costanti e futuri miglioramenti”.

Insomma, obiettivi chiari e peraltro in linea con quella che è sempre stata la filosofia di Assidai, secondo cui il welfare aziendale non è soltanto un nuovo “ponte” che avvicina, in un rapporto evoluto, l’impresa e i collaboratori (manager, quadri, consulenti e collaboratori) ma anche un modo per avvicinarsi all’optimum del work-life balance. Del resto, studi sempre più autorevoli – non ultimo un position paper realizzato da Social Value Italia, Percorsi di secondo welfare, Avanzi e ALTIS – Università Cattolica – sostengono come l’equilibrio tra vita lavorativa e privata aumenti sia la produttività e l’efficacia sul luogo di lavoro sia la soddisfazione personale dei dipendenti.

Le quattro tappe del Progetto ReFlex

Il Progetto ReFlex, di durata biennale (2020-2021), è promosso e finanziato nell’ambito di un avviso pubblico del Programma REC della Commissione europea, ReFlex (Reconciliation and Flexibility: reconciling new work and care needs) ed è ideato e coordinato dal Dipartimento per le politiche della famiglia, in partenariato con il Dipartimento di Ingegneria dell’Università degli Studi ROMATRE e l’Istituto per la ricerca sociale – Irs.

Per raggiungere gli obiettivi prefissati si agirà in quattro tappe, in un’ottica comunque sinergica e consequenziale. Innanzitutto – sottolineano i promotori dell’iniziativa – si effettuerà una meticolosa attività di studio, analisi e comparazione delle iniziative e dei metodi utilizzati al livello nazionale ed europeo nel campo della conciliazione tra vita professionale e vita familiare. Un focus specifico sarà su quelli intrapresi dalle aziende a favore dei lavoratori e delle lavoratrici (smart working, part-time, azioni di time-saving, asili nido aziendali, supporto alla genitorialità e ai soggetti disabili e anziani). Si tratta, è evidente, di un’analisi fondamentale per ottenere una mappatura della situazione odierna, del reale impatto sociale raggiunto, che evidenzi punti di forza ed eventuali punti di debolezza su cui intervenire.

In secondo luogo, si punterà a creare una community tra le imprese per lo scambio di pratiche, il monitoraggio e la valutazione delle esperienze in atto. Attraverso la realizzazione di workshop e laboratori tematici, si punta così ad avviare un confronto organico tra i partecipanti, che favorisca una cooperazione positiva tra le aziende più mature e quelle meno avanzate in tema di conciliazione, in modo da facilitare le possibilità di trasferimento delle azioni più efficaci in ambiti territoriali e imprenditoriali diversi.

In terzo luogo, grazie ai risultati della fase di analisi e confronto, ReFlex metterà concretamente a sistema le iniziative e i casi di studio più virtuosi in termini di impatto sociale, ampliando i confini tematici del sistema di azioni esistenti per favorire l’equilibrio tra vita lavorativa e vita familiare. Una modellizzazione che troverà in una applicazione ad hoc uno strumento estremamente prezioso. Messa gratuitamente a disposizione di tutte le imprese del Paese, l’applicazione non solo facilita la raccolta e lo scambio di informazioni utili, ma fornisce dei modelli previsionali e valutativi sulle misure e sui servizi suggeriti che qualunque azienda può decidere di utilizzare.

L’ultima tappa sarà il momento della comunicazione dei risultati ottenuti dal progetto ReFlex attraverso vari canali media per allargare ancora di più il bacino di utenza e il livello di consapevolezza non soltanto sull’importanza del progetto stesso ma, più in generale, sul fatto che un welfare aziendale efficiente e ben articolato, produce tangibili effetti positivi sia sulla produttività economica che sul benessere familiare.

Assidai e il welfare aziendale

Assidai ritiene che le politiche di total reward abbiano una grande importanza per una concreta attuazione del welfare all’interno delle aziende. Ciò perché da una parte i manager si aspettano che l’azienda comprenda e favorisca sempre più l’equilibro tra vita lavorativa e vita privata e dall’altra le aziende considerano i benefit una leva di gestione e di crescita dell’individuo all’interno dei modelli di sviluppo aziendale. Proprio per questo Assidai rappresenta un benefit esclusivo e di valore: un importante strumento a disposizione di datori di lavoro e dei responsabili delle risorse umane e degli altri decision maker aziendali per ricompensare, attrarre e trattenere talenti e collaboratori. Il nostro Fondo si pone a completa disposizione delle aziende per fidelizzare e motivare i dirigenti, i quadri, i dipendenti e i consulenti, favorendo la prevenzione e il mantenimento di un buono stato di salute per gli iscritti.

Alzheimer in Italia: è allarme per il 2040

Oggi in Italia circa 1,2 milioni di persone sono colpite da demenza, di cui il 60% circa rappresentato da casi di Alzheimer, e si stima che nel 2040 proprio quest’ultima patologia vedrà arrivare i malati oltre quota 2,5 milioni.

Bastano queste poche cifre a far intuire la situazione difficile che in prospettiva il nostro Paese, e con esso il Servizio Sanitario Nazionale, potrebbero trovarsi ad affrontare. A lanciare un invito a riflettere su questo tema è stato il tavolo “Tienilo a mente. Come non disperdere le risorse destinate alle persone con demenza e ai loro caregiver”, promosso da Inrete: un appuntamento che, in occasione della Giornata Mondiale dell’Alzheimer (lo scorso 21 settembre), ha reso possibile il confronto tra istituzioni, clinici, associazioni di pazienti ed esperti della società civile. Il nodo della demenza senile, va anche osservato, chiama direttamente in causa un altro elemento chiave: la copertura per la non autosufficienza, su cui Assidai è da sempre stata molto attiva con proposte di Piani Sanitari ad hoc per i propri iscritti.

I numeri dell’Alzheimer in Italia

Lo Stato, negli ultimi anni, ha iniziato a muoversi.

“Sono state numerose le iniziative del ministero della Salute a sostegno e tutela dei pazienti affetti da demenza. – ha sottolineato al proposito il sottosegretario di Stato alla Salute, Andrea Costa – Nella Legge di Bilancio 2021 è stato istituito nello stato di previsione del Ministero della Salute il Fondo per l’Alzheimer e le demenze, con una dotazione di 5 milioni di euro per ciascuno degli anni 2021, 2022 e 2023. L’obiettivo dello stanziamento consiste nel migliorare la protezione sociale delle persone affette da demenza, e garantire la diagnosi precoce e la presa in carico tempestiva delle persone con Alzheimer”.

Ma vediamo nel dettaglio i numeri di queste patologie. La sola malattia di Alzheimer colpisce nel nostro Paese circa 600mila italiani. Inoltre, è stato stimato – ricordano gli esperti – che il costo medio annuo per paziente, comprensivo dei costi diretti e indiretti, sia familiari sia a carico del Sistema Sanitario Nazionale e della collettività, è pari a 70.587 euro, cifra che, moltiplicata per la quota attuale di malati, si traduce in oltre 42 miliardi. Considerato che nel 2040, secondo le ultime stime, i malati di Alzheimer saranno oltre 2,5 milioni – trend ovviamente frutto del graduale invecchiamento della nostra popolazione – è facile intuire la possibile esplosione della spesa per il sistema italiano con gravi conseguenze a livello di sostenibilità. Senza contare peraltro il tema dei caregiver, cioè dei familiari coinvolti direttamente o indirettamente nell’assistenza dei propri cari, ormai non più autosufficienti: un carico non solo psicologico e sociale ma anche economico che grava sulle famiglie per far fronte alle esigenze del malato.

Nei prossimi dieci anni, secondo le previsioni di un altro istituto come Italia Longeva, 8 milioni di anziani avranno almeno una malattia cronica grave, cioè ipertensione, diabete, demenza, malattie cardiovascolari e respiratorie. E già nel 2030, la cosiddetta “bomba dell’invecchiamento” potrebbe esplodere con 5 milioni di anziani potenzialmente disabili, innescando un circolo vizioso se non adeguatamente gestito: l’aumento della vita media causerà l’incremento di condizioni patologiche che richiederanno cure a lungo termine e determineranno un’impennata del numero di persone non autosufficienti, esposte al rischio di solitudine e di emarginazione sociale. Crescerà così inesorabilmente anche la spesa per la cura e l’assistenza a lungo termine degli anziani e quella previdenziale, mentre diminuirà la forza produttiva del Paese e non ci saranno abbastanza giovani per prendersi cura degli anziani.

Soluzioni: diagnosi precoce e copertura Long Term Care

Quali i rimedi a una dinamica potenzialmente esplosiva? Innanzitutto, si potrebbe immaginare un maggior impegno da parte dello Stato su questo fronte. In secondo luogo, c’è il tema della prevenzione, che in questo caso significa diagnosi precoce della malattia, il che significa scoprirla molto prima che si sviluppino i primi segnali tipici della stessa. Una diagnosi precoce, secondo gli esperti, assicura la possibilità di una presa in carico tempestiva e quindi un potenziale ritardo della progressione della patologia, con conseguente ottimizzazione delle risorse sanitarie e con un minor impatto sociale. Ecco perché, si ragiona, è importante che la ricerca scientifica non si fermi e che si creino, oggi, le basi per la sostenibilità dei nuovi trattamenti che arriveranno in futuro.

Infine, come dicevamo in precedenza, c’è la soluzione delle coperture LTC, che consentono di affrontare con maggiore serenità economica e famigliare possibili patologie che portino alla non autosufficienza.

Assidai e le coperture per la non autosufficienza

In un’ottica complementare e non sostitutiva alla sanità pubblica, Assidai offre a manager, professionisti e aziende Piani Sanitari taylor made, che prevedono anche una copertura LTC all’avanguardia in Italia.

All’inizio del 2019, per la terza volta in cinque anni Assidai ha migliorato le tutele per gli iscritti under e over 65 anni con ulteriori vantaggi, come aumenti di rendite e massimali mensili. Ciò dopo la svolta impressa nel 2015 (quando la copertura era stata estesa anche al coniuge o al convivente more uxorio dell’iscritto) e quella del 2017 (tra l’altro furono introdotti un aumento della rendita per gli under 65 e prestazioni più ricche per gli over 65). Che cosa è cambiato nel dettaglio? Bisogna distinguere tra l’iscritto sotto i 65 anni di età o sopra questa soglia.

Nel primo caso, per le prestazioni in caso di non autosufficienza garantite a favore del caponucleo (iscritto) e del coniuge/convivente more uxorio o dei figli risultanti dallo stato di famiglia fino al 26° anno di età (siano essi legittimi, naturali, legittimati, adottivi e in affido preadottivo) la rendita vitalizia aumenta. Con tre distinguo: nel caso standard da 1.100 euro (13.200 euro annui) a 1.200 euro (14.400 euro annui); se il figlio è minorenne da 1.430 euro (17.160 euro annui) a 1.560 euro (18.720 euro annui); se il figlio è disabile da 2.200 euro (26.400 euro annui) a 2.400 euro (28.800 euro annui).

Diverso il discorso se l’iscritto ha più di 65 anni: in questo caso per il caponucleo iscritto e/o il relativo coniuge/convivente more uxorio, è stata prevista l’estensione dell’assistenza infermieristica domiciliare, che prevede un massimale di 1.000 euro mensili, per un ulteriore mese e quindi per un massimo di 300 giorni per anno assicurativo per assistito (in precedenza era di 270 giorni).

Farmaci, l’Atlante delle disuguaglianze pubblicato da AIFA

Nel Sud Italia si registra un uso di farmaci più alto e associato a condizioni più disagiate, quasi a indicare una maggior richiesta sanitaria nelle regioni meridionali. Una possibile causa? La mancanza di una prevenzione primaria adeguata, in particolare con l’adozione di stili di vita corretti.

L’allarme, nei giorni scorsi, è stato lanciato dall’AIFA, l’Agenzia italiana del farmaco, presentando il primo “Atlante delle disuguaglianze sociali nell’uso dei farmaci per la cura delle principali malattie croniche“. L’idea di un atlante – ha sottolineato il Direttore Generale dell’AIFA, Nicola Magrini, è nata all’interno dell’Osservatorio Nazionale sull’Impiego dei Medicinali con un obiettivo: “trovare una chiave di lettura socioeconomica delle forti differenze territoriali relativamente all’uso dei farmaci in Italia”.

L’uso dei farmaci in Italia: tipologie e geografia

Andiamo a vedere allora, nel dettaglio, di che farmaci stiamo parlando e come da ciò si possano dedurre situazioni di disagio. Le categorie terapeutiche per le quali si osservano maggiori tassi di consumo – sottolinea lo studio dell’AIFA – sono quelle degli antipertensivi e degli ipolipemizzanti (ovvero quelli necessari per contrastare eccessivi livelli di colesterolo), seguite da quelle dei farmaci per l’ipertrofia prostatica benigna negli uomini e degli antidepressivi nelle donne. In media, in tutte le province italiane, per gli uomini si registrano livelli di consumo di farmaco più alti per la maggior parte delle categorie terapeutiche analizzate, ad eccezione dei farmaci antidepressivi, degli antiosteoporotici e dei farmaci per il trattamento delle patologie tiroidee, per le quali il consumo è nettamente maggiore tra le donne rispetto agli uomini.

Dal punto di vista geografico, invece, si osservano livelli di consumo complessivamente più alti al Sud e nelle Isole per la maggior parte delle categorie terapeutiche spiegate in precedenza. Un trend opposto, con consumi maggiori nelle aree del Nord e minori al Sud, viene invece osservato per i farmaci antidepressivi; infine, per i farmaci antidemenza, il tasso di consumo è più alto nelle province del Centro Italia.

“Sulla base dei risultati osservati – fa notare la ricerca – si può affermare che il tasso di consumo di farmaci è un buon proxy di malattia, coerentemente con quanto già noto in letteratura, dal momento che, per quasi tutte le condizioni cliniche in studio, la distribuzione geografica e per genere osservata riflette l’epidemiologia già nota delle malattie”. In altre parole, i dati suggeriscono che laddove vengono utilizzati più farmaci c’è una maggiore presenza di patologie, a loro volta legate – in taluni casi – alla mancanza di prevenzione primaria. Sintetizza l’AIFA: “la posizione socioeconomica è fortemente correlata con l’uso dei farmaci e il consumo di questi è più elevato tra i soggetti residenti nelle aree più svantaggiate, probabilmente a causa del loro peggior stato di salute, che potrebbe essere associato a uno stile di vita non corretto”

Il nodo della spesa out of pocket

Un altro nodo cruciale è quello della spesa out of pocket, cioè dei denari che i cittadini spendono di tasca propria per curarsi extra Servizio Sanitario Nazionale. Nel caso dei farmaci, avverte l’AIFA, è “consistente e andrebbe meglio esaminata e potrebbe rappresentare un fattore di ulteriore differenziazione tra regioni ricche e povere”, specie per le categorie di farmaci non rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale.

Le disuguaglianze nello stato di salute, conclude il rapporto, “dipendono da numerosi fattori correlati e sovrapposti: fornire un quadro su uno degli aspetti più rilevanti per la salute dei cittadini, come l’utilizzo dei farmaci, propone un’ulteriore chiave di lettura delle disuguaglianze sociali”. Va in ogni caso rilevato che nel 2020 – stando ai dati del Rapporto Nazionale pubblicato lo stesso anno – “L’uso dei Farmaci in Italia”, realizzato dall’Osservatorio Nazionale sull’impiego dei Medicinali (OsMed) dell’AIFA – la spesa farmaceutica totale è stata di 30,5 miliardi di euro (-0,9%), di cui ben il 76,5% è stata rimborsata dal Servizio Sanitario Nazionale. In media, per ogni cittadino, la spesa ammonta a 512 euro (391,7 euro la componente pubblica a carico del SSN) e poco più di 6 cittadini su 10 hanno ricevuto almeno una prescrizione di farmaci”. Ciò a dimostrazione, ancora una volta, delle caratteristiche di equità e universalità, uniche al mondo, del Servizio Sanitario Nazionale che va considerato e andrà considerato come la spina dorsale della sanità del futuro. Per evitarle pericolosi scricchiolii, legati anche al trend di invecchiamento della popolazione, i fondi sanitari integrativi come Assidai potranno giocare un ruolo cruciale, con un ruolo complementare e più in generale di supporto del Sistema Sanitario Nazionale.

 

 

Prevenzione cancro al colon retto: attenzione alle bevande zuccherate

Consumare molte bevande zuccherate durante l’adolescenza e la gioventù aumenta il rischio di sviluppare un tumore del colon-retto prima di compiere 50 anni. Ad affermarlo è uno studio pubblicato su Gut, prestigiosa e autorevole rivista di gastroenterologia (che è anche l’organo ufficiale della British Society of Gastroenterology). La ricerca, in realtà, è stata realizzata dalla Washington University School of Medicine di St. Louis, prendendo in esame un ampio campione di partecipanti al Nurses’ Health Study II, uno dei maggiori studi epidemiologici sui fattori di rischio in oncologia. Il risultato, che più avanti vedremo nel dettaglio, conferma dunque l’importanza della prevenzione primaria contro le malattie croniche (tra cui ci sono cancro, malattie cardiovascolari e polmonari, e diabete), responsabili come noto della maggioranza dei decessi a livello globale. Una dieta equilibrata e uno stile di vita sano (che contempli dunque attività fisica e sportiva con la giusta frequenza) rappresentano in questo senso i pilastri per la lotta contro le malattie croniche e in generale della prevenzione, un fronte su cui Assidai è impegnato da sempre con iniziative e campagne informative a favore dei propri iscritti.

La ricerca, i numeri e le conclusioni

Ma come è stata svolta esattamente la ricerca della Washington University School of Medicine di St. Louis? Per valutare se effettivamente esisteva un legame causale tra consumo di bevande zuccherate e tumore del colon-retto, è stato esaminato un ampio campione composto da donne, tutte infermiere, monitorate regolarmente per 24 anni. Ogni quattro anni, infatti, le partecipanti hanno risposto a un questionario molto dettagliato su cosa mangiavano e con quale frequenza. A circa metà di esse, inoltre, è stato anche chiesto di compilare un ulteriore questionario relativo alle abitudini alimentari di quando avevano 13-18 anni.

Ebbene, dall’analisi dei dati delle quasi 100mila donne che hanno risposto è emerso un trend abbastanza chiaro: quelle che consumavano due o più bicchieri di bevande zuccherate al giorno avevano un rischio più che doppio di sviluppare il tumore del colon-retto prima dei 50 anni rispetto alle donne che ne consumavano uno solo. Non solo: i ricercatori hanno calcolato che questo rischio aumentava del 16% per ogni bicchiere di bevanda zuccherata in più consumato ogni giorno. E dai 13 ai 18 anni, un momento importante per la crescita e lo sviluppo, era legato a un aumento del 32% del rischio di sviluppare il cancro del colon-retto prima dei 50 anni.

AIRC: così calano i rischi di cancro

Non abusare di bevande zuccherate – sostiene l’AIRC (la Fondazione Italiana per la ricerca sul Cancro), commentando questo studio, – è quindi un modo in teoria semplice per ridurre il rischio di sviluppare tumori intestinali, oltre che una delle regole auree per prevenire l’obesità adolescenziale, dato che l’apporto calorico di queste bevande è molto elevato a fronte di un apporto nutrizionale mediamente basso o nullo. Un messaggio che andrebbe trasmesso soprattutto ai giovani, i più attratti dalla grande varietà di drink proposti dall’industria alimentare.

Inoltre, secondo l’analisi della Washington University School of Medicine di St. Louis a una persona adulta basta rinunciare ogni giorno a un bicchiere di bevanda zuccherata sostituendolo con un caffè o un bicchiere di latte per ridurre, rispettivamente, del 18% e del 36% il rischio relativo di tumore del colon-retto a insorgenza precoce. La sostituzione di bevande zuccherate con succhi di frutta naturali non sembra invece abbassare il rischio stesso in maniera significativa, verosimilmente poiché anche questi ultimi contengono molto zucchero.

La conferma dall’Università di Parigi

A risultati simili era arrivato un altro studio pubblicato circa due anni fa sul British Medical Journal e realizzato dall’Università di Parigi sui dati di 101mila persone raccolti tra il 2009 e il 2017. Dall’analisi è emerso che ogni aumento di 100 ml al giorno del consumo di bevande zuccherate si associa a un incremento del 18% circa del rischio relativo di sviluppare un tumore. In particolare, la possibilità di ammalarsi di cancro del seno aumenterebbe del 22%. Questi dati suggeriscono, anche in questo caso, che la riduzione drastica delle bevande zuccherate potrebbe essere una strategia efficace per la prevenzione dei tumori, avevano sottolineato dall’Università parigina.

Assidai e la prevenzione

Assidai, va ricordato, è da sempre attiva sul tema della prevenzione. Intesa sia come “primaria”, che consiste come abbiamo visto in stili di vita sani che evitano l’insorgere di malattie croniche, sia come “secondaria”, cioè identificabile con una serie di screening medici tesi a scoprire con il congruo anticipo eventuali patologie, anche in questo caso croniche. Proprio su questo fronte, il nostro Fondo – negli ultimi anni (eccetto il 2020 e il 2021 causa Covid) – ha messo a disposizione dei propri iscritti campagne di prevenzione totalmente gratuite:

Sole, come proteggersi durante l’estate

L’esposizione al sole porta innumerevoli benefici all’organismo e fa bene all’umore ma, senza protezione, ci espone a rischi rilevanti. È importante dunque prendersi cura della propria pelle in maniera adeguata prima dell’esposizione, ma anche – e soprattutto – durante e dopo. Si tratta di un discorso che è valido, a maggior ragione, durante l’estate, quando la voglia di esporsi al sole e di abbronzarsi non manca, sia al mare sia in montagna.

Attenzione però: è ormai più che noto che i raggi ultravioletti possono causare problemi al nostro benessere, dalle insolazioni agli eritemi (scottature), ma anche lesioni oculari, invecchiamento precoce e, nei casi più gravi, l’insorgenza di tumori cutanei (melanoma). Allo stesso tempo, come detto, il sole può offrire numerosi benefici, legati a un miglioramento della condizione psicofisica dell’individuo: consente la sintesi di vitamina D, svolge un’azione antibatterica, può migliorare alcune patologie cutanee, riduce la pressione arteriosa e fa bene all’umore. Come regolarsi dunque? Bisogna rispettare delle semplici regole. Agendo per gradi.

Come scegliere la protezione: le regole di Aideco

Innanzitutto – come sottolinea l’Aideco, Associazione Italiana Dermatologia e Cosmetologia – bisogna scegliere l’indice di protezione più adatto alle varie tipologie di pelle. Per farlo, per prima cosa è importante conoscere il proprio fototipo, che indica come reagisce la pelle all’esposizione al sole. Non tutti, infatti, pur avendo un tipo di pelle simile, hanno lo stesso comportamento: alcune persone si scottano facilmente, altre invece non si scottano mai, mentre gli individui che hanno una carnagione più scura si abbronzano subito, chi invece ha una pelle più chiara tende soprattutto ad arrossarsi e a sviluppare eritema, senza riuscire ad abbronzarsi più di tanto. Questi diversi comportamenti dipendono dal fototipo (ndr Il fototipo di una persona è un termine utilizzato in ambito dermatologico. Sviluppato nel 1975 – il sistema dei fototipi di Fitzpatrick – classifica il tipo di pelle in base alla quantità di melanina e alla reazione all’esposizione solare. Successivamente il concetto di fototipo è stato arricchito da alcune caratteristiche fenotipiche, come il colore dei capelli, la presenza/assenza di efelidi, il colore degli occhi, il tipo, la durata e la zona dell’eritema.)

Conoscere il proprio fototipo è il punto di partenza fondamentale per preservare la salute della pelle e per comportarsi correttamente durante l’esposizione alla radiazione ultravioletta della luce solare. In base al fototipo di appartenenza si può scegliere al meglio l’indice di protezione adeguata.

“Esistono diversi tipi di cute, cioè di fenotipi, che rappresentano a loro volta il modo in cui si manifesta il cosiddetto genotipo; ogni fenotipo ha una sensibilità diversa alle radiazioni solari. Per esempio, un soggetto nero è protetto quasi completamente dalla sua melanina; all’estremo opposto c’è il tipo scandinavo, con cute chiara e capelli biondi, sensibile più di chiunque altro ai raggi solari. Dunque, gli effetti dell’esposizione al sole, che è un fattore così temuto, dipendono dalla “tipologia di individuo”

aveva dichiarato a tal proposito, in un’intervista ad Assidai, il Professor Nicola Mozzillo, luminare dei tumori della cute, Primario Emerito dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Napoli nonché Docente di Chirurgia del Melanoma all’Università Federico II di Napoli e Professore presso la Clinica Ruesch.

In base al fototipo di appartenenza si può scegliere al meglio l’indice di protezione adeguata, continua l’Aideco. I soggetti con fototipo più chiaro e più reattive al sole (I-II e III) dovranno utilizzare prodotti con un indice di protezione elevato (30/50/50+) mentre i soggetti con carnagione più scura e meno sensibili alla radiazione solare (fototipo IV e V) possono optare per protezioni più basse. L’importante è proteggersi sempre, anche quando si è già abbronzati, magari diminuendo gradualmente il fattore di protezione all’aumentare della pigmentazione post-esposizione solare, ma evitando di esporsi senza.

Si specifica che l’efficacia protettiva dei prodotti solari è riportata in etichetta secondo una classificazione (europea) ovverosia bassa, media, alta e molto alta e in relazione a un numero che ne indica il fattore di protezione solare (SPF – Sun Protection Factor):

  • Protezione solare bassa = SPF 6-10
  • Protezione solare media = SPF 15-20
  • Protezione solare alta = SPF 30-50
  • Protezione solare molto alta = SPF 50+

Altra avvertenza molto importante: sarebbe auspicabile proteggersi non solo durante le vacanze estive (al mare) o invernali (in montagna), ma durante tutto l’anno, anche quando ci si limita a uscire per andare al lavoro o a fare una passeggiata. Le radiazioni solari, infatti, esplicano i loro effetti anche quando il cielo è nuvoloso.

Le cinque regole d’oro della Fondazione Veronesi

Per riassumere, è utile riportare i cinque consigli d’oro della Fondazione Veronesi:

  1. Non esporsi mai al sole senza una protezione adeguata al proprio tipo di pelle (fototipo). Non lesinare sull’utilizzo della crema solare: per proteggere adeguatamente tutto il corpo e il viso ne occorrono circa 35 grammi (valore riferito a una persona adulta di media corporatura).
  2. Applicare la fotoprotezione prima dell’effettiva esposizione al sole. Riapplicarla ogni 2 ore e dopo ogni bagno, o dopo una sudorazione abbondante.
  3. Non esporsi al sole nelle ore centrali della giornata. I raggi solari raggiungono la pelle anche all’ombra, seppur con minore intensità. Non dimentichiamo la crema anche se siamo sotto l’ombrellone
  4. Evitare o ridurre al minimo l’abbronzatura artificiale. Per tutelare la salute della pelle dei più giovani, in Italia i lettini e le lampade abbronzanti sono vietati per legge ai minori di 18 anni.
  5. Effettuare con regolarità una visita dermatologica: è importante tenere sotto controllo le macchie della pelle e i nei.

Il pericolo melanoma

Quest’ultima regola ci introduce allo spinoso tema del melanoma cutaneo che negli ultimi decenni, nella popolazione caucasica, è in crescita, con circa il 5% di casi in più ogni anno. In Italia, per esempio, vengono diagnosticati annualmente oltre 7.000 nuovi casi. Non solo: il melanoma è uno dei tumori più frequenti negli adulti di età compresa tra i 30 e 40 anni, ma può insorgere a ogni età. Fortunatamente una diagnosi precoce porta le probabilità di guarigione completa fino al 90% dei casi. “La migliore diagnosi precoce la fanno i pazienti. Bisogna abituarsi a mettersi davanti allo specchio e guardarsi regolarmente, davanti e dietro. Solo così si scopre il “brutto anatroccolo”, cioè un neo in cui è cambiato qualcosa, cioè la dimensione, la forma o il colore: è questo che deve fare scattare il campanello d’allarme. Anche perché dal dermatologo ha senso andare una volta all’anno o quando si ha qualche sospetto, non ogni mese”, ha sottolineato a tal proposito il Professor Mozzillo, sempre nell’intervista ad Assidai.

Il melanoma e la campagna di prevenzione Assidai

Alla luce di tutte queste considerazioni, il nostro Fondo di assistenza sanitaria – da sempre in prima linea sul fronte della prevenzione – due anni fa ha lanciato una importante iniziativa sul tema, identificando giugno 2019 come il mese della prevenzione del melanoma. Gli iscritti Assidai hanno così potuto usufruire – gratuitamente – del pacchetto Healthy Manager, che prevedeva una visita dermatologica e la mappatura dei nei, esami fondamentali in termini di prevenzione per evidenziare eventuali patologie o lesioni tumorali della pelle, cioè i cosiddetti melanomi. “Esami non invasivi e che non provocano alcun dolore ma che possono fare la differenza per scoprire in anticipo qualsiasi cambiamento sulla nostra pelle, un organo spesso sottovalutato ma di importanza cruciale per il nostro benessere, da proteggere e preservare con molta attenzione”, aveva dichiarato a tal proposito Tiziano Neviani, Presidente di Assidai.