Sanità, per il Ministro della Salute Speranza è l’ora della svolta

“Per troppi anni la sanità è stata considerata un costo e non un investimento. Oggi, con le risorse ordinarie, in due anni e mezzo il Fondo sanitario nazionale è passato da 114 miliardi a 124 miliardi”. È con questa frase che il Ministro della Salute, Roberto Speranza, ha recentemente annunciato quella che dovrà rappresentare una svolta duratura e strutturale per la sanità italiana. Insomma, abbiamo davanti a noi, “una grande occasione per capire che si deve e si può costruire un Servizio sanitario nazionale più forte e più capace di rispondere alle esigenze delle persone”.

Un cambio di passo per la sanità e il Paese

Prendendo spunto dagli investimenti straordinari legati al Covid, le prossime politiche di bilancio nei confronti della sanità – secondo il Ministro – non dovranno più prevedere tagli lineari e austerità. “In passato si investiva mediamente 1 miliardo in più all’anno. In due anni e qualche mese abbiamo investito 10 miliardi in più e poi ci sono i 20 miliardi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr)”, ha spiegato. Insomma, un cambio di passo, nei numeri e nei fatti, che dovrà proseguire nel tempo, per preservare le caratteristiche pressoché uniche al mondo di equità e universalità del Servizio Sanitario Nazionale. Un obiettivo condiviso a pieno da Assidai, che considera la sanità pubblica come pilastro irrinunciabile per il Paese. Allo stesso tempo, il nostro Fondo, che ha natura di fondo sanitario non profit, si propone come possibile supporto al Servizio Sanitario Nazionale, sempre più alle prese con l’invecchiamento della popolazione e con il conseguente aumento delle cronicità e della spesa.

La svolta del Piano operativo nazionale

Un aspetto rilevante, evidenziato dal Ministro Speranza, è quello del Pon salute (Piano operativo nazionale), che quest’anno ci sarà per la prima volta in assoluto. “Nella lunga storia della programmazione delle risorse europee, i Pon sono sempre stati uno strumento fondamentale per ridurre le diseguaglianze tra Sud e Nord e si è fatto il Pon quasi su tutto, ma mai sulla salute. Questa volta, grazie al nostro impegno, portiamo a casa un risultato senza precedenti: 625 milioni per il Pon salute”, ha fatto notare il Ministro, sottolineando che questi capitali verranno usati “per recuperare i ritardi sugli screening oncologici, che al Sud sono maggiori rispetto al resto d’Italia, sulla salute mentale, che è un grandissimo tema del futuro, sui consultori e sulla medicina di genere”.

Le tre parole chiave per il futuro

Prossimità, innovazione ed uguaglianza. Sono queste le tre parole chiave attorno alle quali Speranza immagina la sanità del futuro in base alla riforma messa in campo con il Pnrr e che investe circa 20 miliardi. La prossimità è l’idea di un Servizio sanitario nazionale più vicino ai cittadini, il cui primo elemento è l’assistenza domiciliare, tema ancora debole e fragile. Fino a pochi mesi fa il 4% delle persone sopra i 65 anni poteva avere un medico o infermiere che si recava alla sua abitazione. La media dei paesi Ocse è il 6%, Germania e Svezia, i migliori esempi in Europa, sono al 9%. “Con le risorse del Pnrr l’Italia diventerà il primo Paese d’Europa per assistenza domiciliare con il 10%: passeremo dunque da paese al di sotto di due punti della media Ocse ad essere quattro punti sopra”, ha promesso Speranza.

La seconda parola chiave è innovazione, perché – ha aggiunto – “una sfida del futuro è quella della sanità digitale. Ormai la telemedicina, la tele-assistenza, il fascicolo sanitario elettronico sono punti fondamentali di un’agenda che dobbiamo definire e costruire con coraggio”. Quindi, “dobbiamo investire sulle reti informatiche e usare meglio i dati, patrimonio senza precedenti a nostra disposizione. E i dati, in sanità, sono particolarmente significativi, perché ci possono dire dove stanno andando il nostro Paese e la nostra regione. Con i dati si possono costruire modelli predittivi che ci possono far capire sul piano epidemiologico quali sono i punti su cui dobbiamo mettere più risorse”.

Infine, la terza parola, forse la più importante, è uguaglianza. “Provare a costruire una sanità di tutti, perché il diritto alla salute è un diritto universale che va difeso con il coltello tra i denti. Nascere in una piccola provincia non deve dare meno diritti di chi nasce nei grandissimi centri delle città più importanti del nostro Paese. Questo dice la Costituzione e a questo dobbiamo lavorare incessantemente”, ha concluso il Ministro della Salute.

Dove si investirà grazie al Pnrr

Il Pnrr rappresenterà, quindi, un elemento cruciale per potenziare gli investimenti sulla sanità pubblica e migliorare le sue capacità di risposta ai bisogni di cura dei cittadini, anche alla luce delle criticità che la pandemia ha messo in evidenza negli ultimi mesi. Con i 20 miliardi circa che arriveranno dal piano europeo si agirà principalmente in due direzioni. Da una parte si lavorerà sulle Reti di prossimità, strutture intermedie e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale, alle quali sarà dedicata una dotazione complessiva di circa 9 miliardi. L’altra grande direzione in cui opererà il Pnrr è quella legata a innovazione, ricerca e digitalizzazione, che avrà un budget vicino agli 11 miliardi. Una buona fetta (4 miliardi) sarà destinata all’ammodernamento del parco tecnologico e digitale ospedaliero, ad esempio con l’acquisto di strumentazioni e tecnologie all’avanguardia e con il rinnovamento della dotazione esistente di posti letto di terapia intensiva e semi-intensiva. Oltre 1,6 miliardi, di cui 1 miliardo relativo a progetti già in essere, saranno finalizzati all’adeguamento antisismico degli ospedali.

Allarme microplastiche nel sangue

Minuscoli frammenti di plastica dispersi nell’ambiente che possono finire nel sangue ed entrare in circolazione nel corpo umano. Quella che prima era soltanto un’ipotesi di laboratorio è stata dimostrata recentemente da una ricerca condotta nei Paesi Bassi e coordinata dalla Vrije Universiteit di Amsterdam. I risultati, pubblicati sulla rivista “Environment International”, sono stati ottenuti dal gruppo di lavoro guidato dal Professor ed ecotossicologo Dick Vethaak e in cui figurano anche, tra gli altri, Heather Leslie e la chimica Marja Lamoree, nell’ambito del progetto Immunoplast.

Una scoperta che, per quanto gli effetti sulla salute umana siano ancora sconosciuti, merita certamente approfondimenti, in particolare sul possibile passaggio dei frammenti di plastica dal sangue agli organi. Insomma, un tema di grande interesse, al quale Assidai ha deciso di dedicare un approfondimento ad hoc, sempre nell’ottica di fornire ai lettori e agli iscritti al Fondo di assistenza sanitaria integrativa una panoramica completa sul mondo della salute e sulle possibili forme di prevenzione delle principali patologie croniche e non.

I risultati della ricerca

La ricerca dell’Università di Amsterdam è stata svolta grazie all’analisi del sangue donato da 22 persone anonime, nel quale sono state cercate le tracce di cinque polimeri, ossia le molecole che sono i mattoncini di cui è costituita la plastica, e per ciascuno di essi sono stati misurati i livelli presenti nel sangue. È risultato che in tre quarti dei 22 campioni esaminati erano presenti tracce di plastiche e che il materiale più abbondante era il Pet (polietilene tereftalato) di cui sono fatte le bottiglie: è stata misurata una quantità di 1,6 microgrammi per millilitro di sangue, pari a un cucchiaino da tè di plastica in mille litri di acqua (una quantità pari a dieci grandi vasche da bagno). È risultato molto frequente anche il polistirene utilizzato negli imballaggi, seguito dal polimetilmetacrilato, noto anche come plexiglas. In media, sono stati misurati 1,6 microgrammi di plastica per ogni millilitro di sangue, con la concentrazione più alta di poco superiore a 7 microgrammi.

Le possibili conseguenze sulla salute

Qual è il passo successivo? Adesso, secondo i ricercatori, resta da capire se e con quale facilità le particelle di plastica possono passare dal flusso sanguigno agli organi. “Si tratta dei primi dati di questo tipo e ora – ha sottolineato Marja Lamoree – l’obiettivo è raccoglierne altri per capire quanto le microplastiche siano presenti nel corpo umano e quanto possano essere pericolose. Grazie ai nuovi dati sarà possibile stabilire se l’esposizione alle microplastiche costituisca una minaccia per la salute pubblica”.

In questo campo, va ricordato, gli studi sono purtroppo ancora agli albori. I ricercatori che si occupano di animali hanno messo in relazione l’esposizione a micro e nanoplastiche a infertilità, infiammazione e cancro, ma gli effetti sugli uomini sono ancora sconosciuti. In uno studio parallelo, di cui è coautore sempre il Professor Vethaak, è stato valutato il rischio di cancro relativo all’ingestione di microplastiche: “Ricerche più dettagliate su come le micro e nanoplastiche influenzano le strutture e i processi del corpo umano e se e come possono trasformare le cellule e indurre la cancerogenesi, sono sempre più urgenti, soprattutto alla luce dell’aumento esponenziale della produzione di plastica. Il problema diventa ogni giorno più grave”, ha aggiunto al proposito Vethaak. È ragionevole essere preoccupati – ha concluso il professore olandese – le particelle ci sono e vengono trasportate in tutto il nostro corpo”.

Microplastiche anche nei polmoni

È stato dimostrato, peraltro, che le microplastiche si depositano in profondità, anche nei polmoni delle persone. A farlo è stato una ricerca pubblicata online da “Science of the Total Environment” e realizzata da un team di ricercatori e medici del Regno Unito. Lo studio, basato sull’esame del tessuto polmonare prelevato da 13 pazienti sottoposti a intervento chirurgico, ha rilevato particelle di plastica fino a dimensioni di 0,003 mm, confermando la loro presenza in 11 casi. Utilizzando la spettroscopia, è inoltre stato possibile identificare anche il tipo di plastica e le microplastiche più comuni che sono risultate essere quelle derivate dal polipropilene, utilizzato prevalentemente negli imballaggi e nei tubi, e dal Pet, impiegato soprattutto per le bottiglie.

Un problema globale

Per concludere va ricordato che la diffusione della plastica in acqua, aria e suolo è un problema globale. Anche quando non sono più visibili a occhio umano, i minuscoli frammenti di plastica pervadono l’ambiente e possono essere ingeriti da animali e uomini. Per definizione, per microplastica si intendono frammenti più piccoli di cinque millimetri di diametro. Le nanoplastiche sono invece ancora più piccole (con un diametro inferiore a 0.001 millimetri). Il loro accumulo nell’ambiente – la produzione attuale è stimata in oltre 300 milioni di tonnellate l’anno – è considerato una catastrofe per tutti gli ecosistemi, a partire dagli oceani.

Certo, la presenza dimostrata di microplastiche all’interno del corpo umano, nel sangue e nei polmoni, apre scenari non immaginabili fino a poco tempo fa, anche e soprattutto per le conseguenze a livello di cronicità che potrebbero avere sulla salute.

Italia, 30 anni di lotta contro l’amianto

Esattamente 30 anni fa, tra i primi Paesi in Europa e nel mondo, l’Italia metteva al bando l’amianto attraverso l’importante Legge 257/92. Nelle scorse settimane il Ministero della Salute e l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) hanno voluto celebrare questo risultato con l’evento “Amianto e Salute: priorità e prospettive nel trentennale del bando in Italia“, al quale è intervenuto tra gli altri il Ministro Roberto Speranza. “Sono passati 30 anni dalla legge che mise al bando l’amianto in Italia. – ha sottolineato – Siamo stati tra i primi a farlo e tanto lavoro resta ancora da fare. Nel mondo il 75% dei Paesi è ancora privo di regole. Prendersi cura dell’ambiente in cui si lavora e si vive vuol dire prendersi cura della salute di ciascuno. Continuiamo su questa strada”. Del resto, tutte le tipologie di amianto sono cancerogene per l’uomo e causano il mesotelioma, il tumore del polmone, della laringe e dell’ovaio; oltre a queste patologie neoplastiche, l’esposizione ad amianto causa asbestosi, cioè una malattia cronica polmonare. Sul punto anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) è sempre stata molto chiara: tutti i tipi di amianto creano gravi danni per la salute. Anche impegnarsi su questo fronte è – in un certo senso – fare prevenzione contro le malattie croniche, una necessità di cui Assidai è fermamente convinta e che il nostro Fondo cerca di mettere in pratica attraverso costanti e approfondite informative agli iscritti.

Che cos’è l’amianto e il rischio tumori

Ma di che cosa stiamo parlando e che cos’è l’amianto? Come Assidai, Fondo di assistenza sanitaria integrativa di emanazione Federmanager, riteniamo fondamentale anche su questo tema offrire un ventaglio di informazioni utili per tutti e, in particolare, per i manager del settore industriale di cui ci prendiamo cura, che, anche nel loro percorso aziendale, si possono trovare ad affrontare situazioni delicate connesse proprio alla presenza di questi minerali. Infatti, quando si parla di amianto, dobbiamo considerare sei diversi minerali appartenenti alla classe dei silicati la cui caratteristica fondamentale è essere costituiti da fibre molto sottili e flessibili. Il basso costo e il fatto che l’amianto sia molto resistente alla degradazione e al calore ne hanno favorito il successo commerciale ed è stato usato in passato per moltissime applicazioni industriali e civili. Le fibre che si ottengono per macinazione del minerale possono essere filate per produrre tessuti resistenti al fuoco: un settore che ha fatto molto uso dell’amianto è l’edilizia, per esempio.

Purtroppo, come sottolinea il sito dell’Airc (Associazione italiana per la ricerca sul cancro) le fibre di amianto possono causare tumori del polmone e mesoteliomi, poiché quando vengono inalate entrano in profondità nell’apparato respiratorio ed essendo resistenti alla degradazione non vengono eliminate. La presenza delle fibre crea uno stato di infiammazione persistente in cui vengono prodotte molecole che danneggiano il DNA delle cellule, favorendo la trasformazione tumorale. Il processo di sviluppo della malattia è molto lungo: possono passare oltre 25 anni, ma anche 40-50 anni, dall’inizio dell’esposizione all’amianto prima che ci si possa ammalare di tumore.

Quali sono le patologie connesse al rischio amianto?

Secondo quanto riportato dal IV Rapporto del Registro Nazionale Mesoteliomi, le tre principali patologie connesse all’esposizione all’amianto sono malattie dell’apparato respiratorio proprio perché il problema dell’esposizione all’amianto deriva dall’inalazione. Le forme tumorali per cui è stata accertata la connessione con la sostanza sono: asbestosi, carcinoma polmonare e mesotelioma.

L’asbestosi

Scendendo nei dettagli, l’asbestosi è una fibrosi polmonare che causa l’ispessimento e l’indurimento del tessuto polmonare complicando in maniera concreta l’ossigenazione del sangue. Si tratta di una malattia determinata da un’esposizione piuttosto lunga all’amianto, circa 10/15 anni e colpisce principalmente gli operai che si sono occupati della produzione di materiali con amianto in contesti industriali. La patologia è molto grave perché purtroppo è irreversibile, tuttavia dovrebbe scomparire come conseguenza della Legge 257/92 che ha vietato, almeno in Italia, la lavorazione dell’amianto.

Carcinoma polmonare

In secondo luogo, l’esposizione all’amianto è un concreto fattore di rischio per l’insorgenza del carcinoma polmonare, un tumore “classico” ai polmoni. La criticità, in questo caso, è rappresentata dal fatto che non è necessario un lungo contatto con la sostanza e la malattia può emergere anche dopo molti anni, addirittura 20 in alcuni casi.

Mesotelioma

Infine, il mesotelioma è una tipologia specifica di tumore: è un carcinoma che colpisce la pleura, ovvero la membrana di rivestimento del polmone. Le peculiarità di questa patologia è che i rari casi sono sempre riconducibili ad un’esposizione all’amianto, anche antecedente di più di 25 anni. Esistono casi in cui la malattia è comparsa dopo 40 anni dall’esposizione e, anche in questo caso, non è necessaria una dose alta di fibre microscopiche d’amianto per sviluppare la malattia.

I numeri dell’ISS sull’Italia

Uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha evidenziato che il carico sanitario in Italia legato alle conseguenze dell’amianto è stimato a circa 4.400 decessi l’anno dovuti all’esposizione nel periodo 2010-2016: 3.860 uomini e 550 donne. Di questi, 1.515 sono persone decedute per mesotelioma maligno (più dell’80% dei mesoteliomi è causata dall’amianto), 58 per asbestosi (malattia polmonare causata da inalazione di fibre di amianto), 2.830 per tumore polmonare e 16 per tumore ovarico. L’ISS ha anche analizzato i dati sulla mortalità precoce (prima dei 50 anni) per mesotelioma: nel periodo 2003-2016 in Italia sono stati registrati circa 500 decessi. Si tratta verosimilmente di persone che da bambini hanno vissuto in aree italiane contaminate da amianto e/o che sono stati esposti indirettamente a fibre di amianto in ambito domestico a causa delle attività professionali dei genitori o connessa ad attività ricreative. Questi casi rappresentano il 2,5% del totale dei decessi per mesotelioma nello stesso periodo. “Molto è stato fatto – ha evidenziato il Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro – tuttavia, dai dati epidemiologici emerge il perdurare di un carico di malattie attribuibili ad esposizioni ad amianto nel nostro Paese, evidenziando che le esposizioni passate e l’amianto residuo rimangono un problema di sanità pubblica sul quale è urgente intervenire. L’esperienza e la cultura dell’amianto maturate in Italia possono, inoltre, essere certamente d’esempio per i numerosi paesi dove l’amianto è ancora in uso”.

I passi normativi sull’amianto in Italia ed Europa

L’Italia, come detto, ha fatto già molto sul fronte dell’amianto. Oltre a essere stata tra i primi Paesi in Europa a vietarne l’utilizzo e la produzione già nel 1992, ha poi realizzato una mappa nazionale dei siti contaminati, sono state portate avanti opere di bonifica sul territorio nazionale e successivamente è stato attivato un piano di sorveglianza epidemiologica nazionale della mortalità per mesotelioma negli 8.000 comuni italiani.

Nel 2002 ha dato il via al Registro Nazionale Mesoteliomi (ReNaM) che rappresenta uno dei più avanzati sistemi di sorveglianza epidemiologica attiva in questo settore, con oltre 30mila casi censiti mentre è operativo dal 2008 il Programma nazionale di qualificazione per i laboratori che eseguono le analisi per la determinazione dell’amianto su tutto il territorio nazionale.

A livello comunitario, invece, dal 1° luglio 2025 tutti gli Stati membri dell’Unione Europea dovranno aver provveduto all’eliminazione dei “prodotti” di amianto (Regolamento UE 2016/1005) e l’eradicazione delle malattie amianto-correlate rientra tra le priorità “ambiente e salute” dell’OMS per il raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile.

L’amianto nel mondo: impatto economico e sanitario

Infine, qual è la situazione nel mondo? Ogni anno – secondo un recente studio dell’Oms – a livello globale le conseguenze sulla salute dell’utilizzo dell’amianto costano solo di spese sanitarie tra i 2,4 e i 3,9 miliardi di dollari, senza contare i costi indiretti, e l’amianto provoca 100mila morti ogni anno. Sempre secondo il report la produzione globale di amianto è andata progressivamente diminuendo dal picco raggiunto nel 1980 di 4,8 milioni di tonnellate, e ora la metà di questa cifra è distribuita tra quattro paesi, Brasile, Russia, Cina e Kazakhstan. Il primo paese a bandirlo è stata la Danimarca nel 1972, mentre nel 2013 era vietato in 67 paesi. “Dai dati dei singoli paesi – conclude lo studio – non emergono effetti negativi osservabili sul Pil in seguito al bando dell’amianto o a un declino nel consumo o nella produzione. Dove è stato osservato un calo dell’occupazione l’effetto è stato assorbito nei due anni successivi”.

Allarme demenza nel mondo: casi triplicati nel 2050

Nei prossimi 30 anni i casi di demenza (o di malattie associate ad essa) sono destinati a triplicare nel mondo. È l’allarme lanciato da un nuovo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica inglese “The Lancet”, secondo cui il numero di persone affette da demenza aumenterà drasticamente, passando dai 57 milioni di casi del 2019 a oltre 153 milioni di casi nel 2050.

Lo studio nel dettaglio

La ricerca è stata condotta dagli scienziati dell’Institute for Health Metrics and Evaluation (IHME), che hanno valutato i possibili casi di demenza in 195 paesi e territori in varie parti del globo, sottolineando che attualmente essa rappresenta la settima causa di morte in tutto il mondo e una delle principali ragioni di disabilità e dipendenza tra le persone anziane, con costi globali che, secondo le stime, per il 2019 ammontavano a oltre 1000 miliardi di euro. Da che cosa è causata? L’aumento previsto è in gran parte dovuto all’invecchiamento e alla crescita della popolazione, ma anche a stili di vita non salutari e a un basso grado di istruzione.

Secondo i ricercatori, i fattori di rischio che devono essere affrontati con urgenza e che rappresentano oltre sei milioni di casi dell’aumento previsto includono alti tassi di fumo, obesità e diabete. Insomma, ancora una volta parliamo di stili di vita salutari che, come sappiamo, rappresentano il principale strumento a nostra disposizione per diminuire l’incidenza delle malattie croniche, prima causa di decessi a livello mondiale. Un concetto, questo, che Assidai non manca di sottolineare ai propri iscritti, anche con iniziative di divulgazione ad hoc, perché si tratta di uno dei punti di partenza fondamentali per condurre un’esistenza in buona salute.

L’aumento maggiore sarà in Africa, Europa +74%

Analizziamo la situazione a livello geografico. Il modello previsionale utilizzato dai ricercatori stima che l’aumento più significativo si verificherà nell’Africa subsahariana orientale, dove si prevede un aumento del 357% dei casi di demenza, che passeranno da circa 660 mila nel 2019 a oltre 3 milioni nel 2050. L’incremento più contenuto, invece, si stima nell’Asia del Pacifico ad alto reddito, dove si pronostica che il numero di casi crescerà del 53%, da 4,8 milioni registrati nel 2019 a 7,4 milioni tra meno di 30 anni. Infine, nell’Europa occidentale gli studiosi hanno calcolato una crescita del 74% per i valori associati all’insorgenza della demenza con incrementi relativamente contenuti in Grecia (45%), Italia (56%), Finlandia (58%). Come detto, i ricercatori ipotizzano che l’invecchiamento della popolazione possa giocare un ruolo fondamentale in questi valori. Tuttavia, c’è anche una potenziale buona notizia: un maggiore accesso all’istruzione, se effettivamente realizzato, potrebbe tuttavia ridurre di 6 milioni il numero di casi di demenza entro il 2050.

Le donne più “esposte” rispetto agli uomini

Un altro elemento notato dai ricercatori è che il sesso femminile è più colpito dalla demenza, con circa 40% di casi in più rispetto agli uomini, e questo andamento rimarrà probabilmente stabile anche nei prossimi decenni. La differenza non è soltanto dovuta al fatto che le donne sono in media più longeve, ma ci sarebbero evidenze che i meccanismi biologici alla base della malattia cambino a seconda del sesso. In particolare, un’ipotesi è che l’Alzheimer si diffonda diversamente nel cervello di uomini e donne e numerosi fattori di rischio genetici sono collegati al sesso.

I rimedi per invertire il trend crescente

Alla luce di questa situazione come agire per frenare il trend di crescita esponenziale previsto per la demenza a livello globale? “Il nostro lavoro – ha dichiarato la leader del team di ricerca, Emma Nichols – offre previsioni accurate sulla demenza a livello mondiale. Speriamo che i dati che abbiamo ottenuto siano utili per lo sviluppo di trattamenti efficaci, ma anche per i responsabili politici e gli esperti di salute pubblica. Le informazioni che abbiamo ottenuto potrebbero guidare scelte e decisioni più consapevoli in materia di prevenzione e contrasto della demenza”.

Il presupposto è che attualmente non abbiamo cure risolutive contro l’Alzheimer e le altre forme di demenza, patologie complesse e multifattoriali, studiate approfonditamente soltanto negli ultimi 35-40 anni. Certo, la ricerca sta compiendo passi in avanti su vari fronti e agendo su diversi possibili meccanismi sottostanti. Tuttavia, a fronte di una diffusione sempre maggiore del problema e di un carico molto gravoso, per il singolo e i suoi familiari, ma anche per i sistemi sanitari, la prevenzione resta uno strumento essenziale.

A tal proposito, gli autori dello studio richiamano l’attenzione sulla necessità urgente di politiche che mettano in primo piano buone abitudini relativi allo stile di vita, alla sana alimentazione e all’attività fisica fino all’aumento dei tassi di scolarizzazione; senza sottovalutare una cattiva gestione del diabete di tipo 2, della pressione e del colesterolo che potrebbero avere un ruolo, come anche l’insonnia. Infine, alcuni elementi che potrebbero rinforzare le abilità riguardano non solo l’esercizio fisico, ma anche quello mentale, con test e giochi cognitivi, e probabilmente anche un maggiore coinvolgimento sociale.

L’alimentazione contro la demenza: una ricerca giapponese

A proposito di stili di vita e di alimentazione e del loro influsso sulla demenza, va ricordato un altro recente studio condotto dall’Università giapponese di Tsukuba, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica “Nutritional Neuroscience”. Secondo i ricercatori una dieta ricca di fibre può rappresentare un alleato importante anche contro questa patologia. Per dimostrare la propria tesi, gli studiosi giapponesi hanno coinvolto 3.739 soggetti adulti a cui è stato chiesto di completare una serie di questionari che ne hanno analizzato i regimi alimentari tra il 1985 ed il 1999. Nel complesso, i partecipanti erano persone generalmente sane e di età compresa tra 40 e 64 anni che, in seguito, sono state monitorate tra il 1999 ed il 2020, per verificare se avessero sviluppato una qualche forma di demenza. I risultati hanno fatto emergere che coloro che si collocavano nel gruppo di partecipanti con il più alto consumo di fibre nella propria dieta personale, avevano manifestato un rischio inferiore di sviluppare forme di demenza.

Valvole cardiache biologiche ingegnerizzate, una scoperta tutta italiana

Nuove valvole biologiche cardiache: una scoperta eccezionale che potrebbe cambiare la vita di circa 400.000 pazienti nel mondo, persone che purtroppo ogni anno hanno bisogno della sostituzione di una valvola cardiaca. L’importante notizia arriva da una ricerca internazionale guidata dall’Italia, con l’Università di Padova, pubblicata sulla prestigiosa rivista “Nature Medicine”, e coordinata dall’immunologo clinico Dott. Emanuele Cozzi, docente del dipartimento di Scienze cardio-toraco-vascolari e Sanità pubblica dell’ateneo veneto.

Le valvole cardiache e le possibili patologie

Ma andiamo con ordine. Che cosa sono le valvole cardiache? La loro funzione è regolare nel modo corretto il flusso di sangue nel cuore. “Il cuore è dotato di quattro valvole, strutture che funzionano come una porta a due o a tre battenti, – spiega un articolo del Ministero della Salute – due si trovano tra gli atri (le camere superiori del cuore) e i ventricoli (le camere inferiori del cuore) e sono la valvola mitrale (tra atrio sinistro e ventricolo sinistro) e la valvola tricuspide (tra atrio destro e ventricolo destro). Le restanti due valvole regolano l’efflusso del sangue tra ventricolo sinistro ed aorta (valvola aortica) e tra ventricolo destro e arteria polmonare (valvola polmonare)”. Quando le valvole, a seguito di qualche patologia, si restringono (stenosi), il sangue passa con più difficoltà dall’atrio al ventricolo (stenosi mitralica, stenosi tricuspidale) oppure dal ventricolo alla circolazione sistemica o polmonare (stenosi aortica, stenosi polmonare). Viceversa, quando le valvole si sfiancano o non chiudono più bene, il sangue refluisce all’indietro, ad esempio dal ventricolo all’atrio (insufficienza mitralica, insufficienza tricuspidale) oppure dall’aorta al ventricolo sinistro (insufficienza aortica) o dall’arteria polmonare al ventricolo destro (insufficienza polmonare). È evidente come, a fronte di queste patologie, si rende necessaria la sostituzione di alcune valvole cardiache e qui entra in gioco la scoperta dell’Università di Padova.

I vantaggi delle nuove valvole biologiche

Le nuove valvole biologiche cardiache, scoperte dai ricercatori dell’Università di Padova, sono ottenute da animali ingegnerizzati – attraverso l’ausilio dell’ingegneria genetica – e sono in grado di evitare il fenomeno della degenerazione. Ma perché le valvole biologiche cardiache ottenute da animali ingegnerizzati hanno diversi vantaggi, potenzialmente rivoluzionari? Le valvole biologiche “normali”, infatti, usate per circa il 60% delle sostituzioni, presentano alcuni inconvenienti, derivanti soprattutto dal fatto che contengono degli antigeni zuccherini che invece non sono presenti nelle valvole umane. Antigeni che – spiegano i ricercatori – inducono una risposta immunitaria che aggredisce il tessuto delle valvole stesse e ne causa un precoce deterioramento, soprattutto in soggetti giovani con un sistema immunitario efficiente. Il rimedio? I pazienti giovani ricevono valvole meccaniche, che però hanno anch’esse un rovescio della medaglia: necessitano di una terapia anticoagulante – tema peraltro a cui recentemente Assidai ha dedicato uno specifico approfondimento, che impone al paziente stili di vita e di lavoro con notevoli limitazioni, evitando quello che può causare traumi e conseguenti emorragie difficilmente contenibili. Tutto ciò – ha dimostrato la ricerca pubblicata su “Nature Medicine” – non avviene per le valvole cardiache biologiche ottenute da animali ingegnerizzati.

I numeri e i risultati della ricerca

Analizziamo i numeri e i risultati della ricerca. Essa è stata condotta per cinque anni su 1.668 pazienti che hanno ricevuto valvole biologiche presso i centri di cardiochirurgia dell’Ospedale Bellvitge di Barcellona, dell’Ospedale Universitario Vall d’Hebron di Barcellona, dell’Ospedale Universitario di Manitoba, dell’Ospedale Universitario di Nantes e dell’Azienda Ospedale-Università di Padova. L’obiettivo era chiarire se la risposta anticorpale diretta contro le molecole di zuccheri presenti sulle valvole di derivazione animale potesse portare a un deterioramento valvolare precoce attraverso un processo di calcificazione. Il risultato? In generale, dal primo mese successivo all’impianto di valvole biologiche, il livello degli anticorpi diretti contro le molecole zuccherine aumenta significativamente. In un modello animale la presenza di questi anticorpi è in grado in un mese di causare depositi di calcio nelle valvole biologiche e quindi di determinarne il deterioramento. Al contrario, se si impiantano valvole provenienti da animali ingegnerizzati in modo da non produrre le molecole zuccherine, gli anticorpi non “aggrediscono” la valvola e non inducono la calcificazione dei tessuti.

La possibile prevenzione

Premesso che le malattie valvolari possono essere presenti dalla nascita (valvulopatie congenite) oppure svilupparsi nel corso della vita a seguito di diverse malattie, l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) sottolinea che per esse purtroppo “non esiste una vera e propria prevenzione” .

In generale, tuttavia, come per le altre malattie cardiovascolari, è consigliabile mantenere il peso forma, non fumare, svolgere attività fisica in modo regolare, mantenere la pressione del sangue sotto i livelli normali e seguire una dieta sana ed equilibrata”. Insomma, si tratta di praticare quotidianamente la cosiddetta prevenzione primaria, che Assidai sostiene da tempo per evitare il più possibile l’insorgere di malattie croniche (tumori, diabete, patologie cardiocircolatorie), responsabili a loro volta della maggior parte dei decessi a livello mondiale.

In conclusione, sia per le valvulopatie presenti alla nascita (congenite) sia per la maggior parte di quelle acquisite non è possibile attuare misure di prevenzione specifiche neanche per rallentarne il deterioramento nel tempo; per questo è fondamentale, una volta scoperta la malattia, seguire i controlli pianificati dagli specialisti e intervenire tempestivamente con misure chirurgiche adeguate, appena le condizioni lo richiedono, al fine di evitare ulteriori complicazioni.

Curare il cancro a tavola, un’alimentazione corretta potenzia le cure

Una restrizione calorica molto severa durante le cure oncologiche crea uno choc metabolico che può aiutare a contrastare il cancro? È questa la domanda a cui hanno risposto i ricercatori dell’Istituto nazionale dei tumori (Int) e dell’Istituto Fondazione FIRC di Oncologia Molecolare (Ifom) di Milano, che hanno condotto uno studio, finanziato dalla Fondazione Airc, su 101 pazienti in cura contro la malattia più temuta. Del resto, come affermato da diversi studi in materia, i regimi alimentari molto restrittivi sono da considerarsi buone armi contro i tumori.

Il vero tema piuttosto è un altro: quanto sono tollerabili da chi è in cura, nei giorni non certo facili in cui viene somministrata la chemioterapia o l’immunoterapia? Si tratta di un quesito cruciale: il cancro, insieme con le patologie cardiocircolatorie e il diabete, rappresenta una delle principali cronicità a livello globale. Il primo passo – come ricorda sempre Assidai nelle informative ai propri iscritti – è prevenire queste patologie con stili di vita e di alimentazione adeguati. È altrettanto evidente che, nella sfortunata ipotesi in cui ci si trovi ad affrontare l’insorgenza di un tumore, diventa cruciale individuare delle tecniche di cura il più possibili efficaci. Tra queste ci potrebbe appunto essere una “dieta-terapia” con uno choc metabolico da accoppiare alle cure più classiche. In sostanza si tratta di “affamare il cancro”: in futuro, sostengono alcuni ricercatori, per combatterlo bisognerà combinare terapie standard, come l’immunoterapia o la terapia ormonale, a terapie nutrizionali in cui viene rivoluzionata la disponibilità di nutrienti sia durante sia dopo la terapia.

Tollerabilità, effetti collaterali ed efficacia

Vediamo ora nel dettaglio i risultati dello studio che è stato condotto. La dieta testata, ipoglicemizzante, prevedeva una restrizione calorica molto severa, di cinque giorni, da adottare ciclicamente ogni tre-quattro settimane durante la chemioterapia o l’immunoterapia, ovviamente sotto supervisione medica. Numeri alla mano, con circa 400-600 calorie il primo giorno e meno di 400 calorie i successivi, la dieta era composta principalmente da verdure, olio, , frutta, frutta secca e, soltanto una volta, pane integrale.

Tre gli elementi che sono stati valutati a fondo. Innanzitutto, la cosiddetta tollerabilità, su cui non si sono verificati particolari problemi. Lo studio pubblicato sulla rivista specialistica “Cancer Discovery” ha rivelato che su 101 pazienti sottoposti alla dieta-terapia solo quattro sono passati dalla condizione di normopeso a quella di sottopeso, e non in modo grave. Inoltre, il 99% dei pazienti è riuscito a fare almeno un ciclo di cure e di questi il 76% ne ha svolti almeno tre. Secondo punto chiave: gli effetti collaterali. Circa quattro persone hanno accusato astenia, cioè fatica, mentre altre cinque hanno subìto un episodio di ipoglicemia; sono state inoltre registrate altre piccole reazioni avverse come nausea o sensazione di confusione. Infine, ma non meno importante, ecco il termo elemento di valutazione: qual è stata l’efficacia della dieta-terapia nel contrastare la malattia? Il presupposto dello studio è che le cellule tumorali approfittano dell’alto livello di zuccheri nel sangue per svilupparsi. Dunque, riducendo il più possibile il glucosio nei giorni di terapia è come se si colpisse il nemico su due fronti: con la dieta e con i farmaci. Allo stesso tempo, – ha rivelato lo studio – lo choc metabolico ha avuto effetto anche sul sistema immunitario, dove riduce il numero e l’attività di cellule “cattive”, che inibiscono la risposta immunitaria, e aumenta la quantità di quelle “buone”, potenzialmente in grado di riconoscere e uccidere le cellule tumorali. In sostanza la dieta-terapia aiuta a rendere più efficace il sistema immunitario dei pazienti.

Su quali tipi di tumore questo approccio è più efficace? In questo caso la risposta è ancora incerta. Lo studio in questione comprendeva soprattutto pazienti con cancro al seno, colon e polmone, ma poiché si trattava di soggetti che si sono offerti volontariamente non si è potuta elaborare una campionatura precisa. Nuove ricerche, nel futuro prossimo, potranno approfondire anche questo aspetto.

Alimentazione durante le cure: i consigli della Fondazione Veronesi

In ogni caso, quando si effettuano delle cure oncologiche, l’alimentazione rappresenta un elemento chiave. A ricordarlo è la Fondazione Veronesi che sottolinea come l’obiettivo è aiutare a prevenire la nausea e a combattere gli effetti collaterali della terapia, rappresentati soprattutto da infiammazioni della mucosa e vomito. Per questo valgono due suggerimenti in linea generale: si deve masticare molto bene e lentamente e non bisogna preoccuparsi se dopo la terapia si avverte nausea e non si ha fame poiché l’appetito tornerà nel giro di pochi giorni.

Quali sono gli alimenti da privilegiare?

Cereali in chicco integrali ben cotti o pasta di semola di grano duro, meglio se integrale; creme di legumi o legumi ben cotti (scegliendo quelli decorticati o utilizzando il passaverdure); pesce, meglio se azzurro, per l’elevato contenuto di grassi omega-3 ad azione anti-infiammatoria; verdure di stagione; pane di semola di grano duro.

Quali cibi vanno invece evitati?

Carni rosse e carni lavorate (salumi, insaccati); formaggi a elevato contenuto di grassi; latte vaccino; zuccheri e cibi a base di farine raffinate o altri amidi ad alto indice glicemico, quali patate e mais; fibre di cereali, specie se indurite dalla cottura al forno (pane integrale e pizza, alimenti grezzi.

Anticoagulanti orali e prevenzione, come contrastare le malattie cardiocircolatorie

I farmaci TAO (Terapia Anticoagulante Orale) sono in grado di modificare la capacità di coagulare del sangue, riducendo il rischio della formazione di trombi in pazienti che, per la loro patologia, vanno incontro a questo rischio. In particolare, hanno il compito di rendere il sangue più fluido impedendo alle piastrine di aggregarsi e quindi di provocare coaguli. Questi farmaci – i più utilizzati sono l’acido acetilsalicilico (lo stesso dell’aspirina) e la ticlopidina – sono in particolare molto efficaci nel curare e prevenire le trombosi delle arterie a seguito di infarto del miocardio, ictus cerebrale, arteriopatie periferiche e quindi comunemente prescritti dopo un infarto del miocardio, in presenza di angina pectoris, dopo un intervento di bypass aorto-coronarico, dopo un ictus cerebrale ischemico e, frequentemente, nei pazienti anziani con fattori di rischio aterotrombotico (fumo, sedentarietà, diabete, ipertensione).

Il “percorso educazionale” dell’Istituto Maugeri

Un tema, insomma, di stretta attualità considerato che le patologie dell’apparato cardiocircolatorio sono la principale causa di decesso a livello globale e che rappresentano una delle cronicità purtroppo più diffuse. Anche per questo la Fondazione Onda – l’Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere, costituito a Milano nel 2005 per volere di alcuni professionisti già impegnati a vario titolo sul fronte della salute femminile e della medicina di genere – ha approfondito il tema dei farmaci TAO pubblicando un decalogo tanto schematico quanto chiaro ed esauriente, curato dall’Istituto Maugeri IRCSS Milano Camaldoli: un “percorso educazionale” intitolato “Terapia anticoagulante: se la conosci, vivi meglio”. Lo stesso parte da un presupposto: “Gli antiaggreganti e gli anticoagulanti sono dei veri e propri salvavita in quanto proteggono dalla formazione di trombi e di emboli che potrebbero dar luogo a sindromi potenzialmente mortali e/o fortemente invalidanti quali l’ictus e l’infarto miocardico”.

Lo studio si concentra in particolare su “una delle situazioni cliniche che più frequentemente necessitano di terapia anticoagulante cronica, costituita da un disturbo del ritmo cardiaco chiamato fibrillazione atriale. Un’altra situazione abbastanza frequente è quella conseguente alle trombosi venose e alla tromboembolia polmonare”. Dunque, in entrambi i casi, è utile conoscere meglio di cosa si tratta, le terapie utili e a chi rivolgersi per la migliore gestione possibile.

La fibrillazione atriale: come e perché usare i farmaci anticoagulanti

Partiamo dalla fibrillazione atriale, che può dipendere da diversi fattori ed essere legata a patologie diverse sia cardiache sia di altri apparati. É un disturbo molto frequente soprattutto quando l’età avanza e va seguita con molta attenzione. Ma di che cosa si tratta esattamente? È una frequente anomalia dell’attività elettrica del cuore, un’aritmia spesso sintomatica (percepita come palpitazioni, mancanza di respiro, vertigini, dolore al petto), ma a volte anche asintomatica. Essa può comportare complicazioni pericolose come altri disturbi cardiaci, ictus cerebrale o embolia di altri organi. Il rimedio? È necessario provare a ripristinare il ritmo normale oppure controllare la frequenza cardiaca scegliendo la fibrillazione come nuovo “ritmo”; in un caso o nell’altra bisogna sempre prevenire la formazione di coaguli nel sangue per evitare che vadano a occludere arterie creando danni anche molto gravi. E qui entrano in gioco i farmaci anticoagulanti. Questa tipologia determina una condizione di rischio cardioembolico – ricorda il percorso educazionale – ed è responsabile della formazione di trombi all’interno dell’atrio sinistro, i quali possono migrare verso le arterie, se occludono un’arteria cerebrale causano l’evento più temibile, l’ictus cerebrale. Qualsiasi altro organo può essere danneggiato con conseguenze più o meno gravi. La prevenzione più efficace si ottiene appunto con gli anticoagulanti orali. Fino a qualche anno fa questo tipo di terapia disponeva solo di farmaci antagonisti della vitamina K, ma dal 2009 si sono resi disponibili anticoagulanti orali di nuova generazione, denominati anticoagulanti orali ad azione diretta, il cui uso pratico è più semplice e sicuro. Infatti, a differenza degli antagonisti della vitamina K, non hanno tutte le limitazioni relative all’alimentazione e alle interazioni farmacologiche e non richiedono il controllo periodico della coagulazione.

Per concludere il capitolo sulla fibrillazione atriale ecco le indicazioni “salvavita” presenti nel decalogo:

  • prendersi cura delle problematiche cardiologiche con le terapie specifiche individuate dal medico in base al profilo di rischio e alle caratteristiche del singolo paziente;
  • curare con altrettanta cura le malattie concomitanti;
  • adottare uno stile di vita sano, controllando i fattori di rischio della cardiopatia (ipertensione arteriosa, diabete, dislipidemia, obesità, fumo di sigaretta, sedentarietà).

La trombosi venosa: come curarla

L’altra patologia che viene analizzata all’interno dello studio è la trombosi venosa, una patologia che colpisce le vene occludendole. Anche questa condizione è piuttosto comune, – si spiega – la forma più temibile è quella che colpisce le vene profonde, da qui il trombo (coagulo) può migrare fino al polmone e determinare l’embolia polmonare, la complicanza più grave della trombosi venosa profonda, che è solitamente preceduta da affanno inspiegabile, respirazione veloce, dolore acuto al torace, aumento della frequenza cardiaca e leggero stordimento o sincope. La trombosi venosa profonda è spesso asintomatica, non riconosciuta e di conseguenza diagnosticata e trattata in un numero inferiore rispetto ai casi reali. Il 50% circa dei soggetti colpiti da una trombosi venosa non manifesta alcun sintomo. Se presenti, invece, le manifestazioni più frequenti sono: dolore al polpaccio, gonfiore (prevalentemente alla caviglia o ai piedi), rossore o perdita di colorito della pelle (discromia), calore della zona interessata.

Come si cura? Anche in questo caso il rispetto di un adeguato stile di vita è fondamentale. Si possono poi usare i farmaci antitrombotici, che riducono la capacità delle piastrine di aggregarsi (antiaggreganti che agiscono sulle piastrine) oppure ostacolano la coagulazione (anticoagulanti che bloccano i fattori della coagulazione). Anche in questo caso la terapia è fatta su misura, da una sarta o un sarto molti bravi, “i tuoi medici del cuore”. Con un caveat: gli anticoagulanti hanno per definizione un rischio emorragico, ovvero possono essere causa di sanguinamenti sia di lieve entità (lividi cutanei, sanguinamento gengivale), sia, se pur raramente, di entità tale da dover necessitare dell’intervento medico. Dunque, a maggior ragione, il medico, quando prescrive una terapia antiaggregante o anticoagulante, valuta attentamente sia il rischio trombotico, sia quello emorragico del singolo paziente e quindi prescrive i farmaci in modo da ottenere il massimo beneficio con il minimo rischio emorragico.

Prevenzione primaria e aderenza al farmaco

Inoltre, nel decalogo si sottolinea l’importanza di adottare stili di vita corretti: la cosiddetta prevenzione primaria, elemento cruciale per contrastare l’insorgenza delle malattie croniche, la cui importanza è stata sempre ribadita da Assidai nelle proprie informative agli iscritti. In sintesi: non fumare, fare esercizio fisico regolare adatto all’età e alle condizioni cliniche, seguire una dieta corretta, dormire bene (e in caso contrario chiedere aiuto al medico e al cardiologo), prendersi cura di tutte le proprie malattie.

Infine, altro aspetto chiave è l’aderenza terapeutica che si realizza “quando il comportamento di una persona – nell’assumere i farmaci, nel seguire una dieta e/o nell’apportare cambiamenti al proprio stile di vita – corrisponde alle raccomandazioni concordate con l’operatore sanitario”. L’aderenza non comporta un atteggiamento “passivo”, al contrario dipende da un coinvolgimento “attivo e collaborativo”: chi riceve la prescrizione deve partecipare alla pianificazione e all’attuazione del progetto terapeutico, esprimendo un consenso basato sull’accordo.

In sostanza “essere aderenti alla terapia” significa: non ritardare il suo inizio, non effettuare omissioni o aggiunte non prescritte e non interrompere anzitempo il trattamento per decisione propria. Non essere aderenti alla terapia anticoagulante orale – conclude lo studio – comporta rischi per la salute anche molto gravi. Omettere l’assunzione del farmaco, anche solo di una dose, espone al rischio di trombosi che può culminare in un ictus; viceversa assumere più farmaco di quello che è stato prescritto espone al rischio di avere emorragie, alcune delle quali possono essere gravi e richiedere l’intervento medico in emergenza. Inoltre, non rispettare l’orario o gli orari giornalieri di assunzione non garantisce tutti i benefici che il farmaco può dare.

Latte e derivati, il decalogo del Ministero della Salute

In Italia si stima che, negli ultimi anni, il consumo giornaliero di latte e yogurt si sia notevolmente ridotto, in diverse fasce di età e sia basso e lontano dalle raccomandazioni per la maggior parte della popolazione. A lanciare l’allarme è il Ministero della Salute che sottolinea come “un adeguato consumo invece è importante per il corretto apporto quotidiano di calcio, indispensabile per la crescita ossea dei bambini, ma soprattutto per la prevenzione dell’osteoporosi negli adulti e anziani”.

Il trend in questione, inoltre, ha spinto il Tavolo Tecnico sulla Sicurezza Nutrizionale, che fa sempre capo al Ministero della Salute, a elaborare un decalogo per il corretto consumo di latte e yogurt nell’alimentazione quotidiana, al fine di favorirne il giusto apporto. Decalogo che parte dal presupposto che questi alimenti – come dimostrato da diversi e autorevoli studi svolti a livello internazionale – contribuiscono a diminuire il rischio, oltre che dell’osteoporosi, di diverse cronicità come malattie cardiovascolari, ictus, cancro del colon-retto, obesità e morbo di Alzheimer. Stili di vita corretti – principalmente un’alimentazione varia ed equilibrata, lo stop al consumo di tabacco e di alcol e un’attività fisica quotidiana – rappresentano come sappiamo i pilastri della cosiddetta prevenzione primaria, la principale arma a nostra disposizione per diminuire l’insorgenza delle malattie croniche, responsabili della maggior parte dei decessi a livello europeo e mondiale. Un concetto, questo, di cui Assidai è sempre stato convinto sostenitore, mettendo a disposizione dei propri iscritti costanti campagne informative.

Il calo del consumo di latte in Italia

Partiamo dai numeri del report del Ministero della Salute. Tra il 1998 e il 2020 si stima che il consumo giornaliero di latte si sia notevolmente ridotto passando dal 62,2% (ovvero la fetta della popolazione, con età dai tre anni in su, che lo beve almeno una volta al giorno) al 48,1%. Tale calo si è tradotto da una parte in un aumento del consumo non giornaliero e più occasionale, che è passato dal 18% al 28,7%, e dall’altra in un aumento della prevalenza dei non consumatori dal 17,2% al 22,2%. Altra tendenza preoccupante: la diminuzione del consumo giornaliero di latte e il conseguente slittamento verso consumi più ridotti o nulli, si è osservata maggiormente nella fascia di età dei bambini, ragazzi e giovani di 6-24 anni, con punte di riduzione che si attestano in queste fasce di età intorno a circa il 20%. L’area geografica con numeri più eclatanti è il Nord, sceso addirittura dal 61,3% del 1998 al 45,6% del 2020.

Il latte è l’alimento tipico della colazione. Non stupisce così che in parallelo si siano modificate anche le abitudini legate al primo pasto della giornata. Sebbene la quota di persone di 3 anni e più che dichiarano di non fare la colazione si sia mantenuta pressoché stabile tra il 1998 e il 2020 (rispettivamente 7,9% nel 1998 e 7,5% nel 2020), si è osservato nel tempo, specialmente fino al 2019, un aumento di tale abitudine nella popolazione dei bambini, ragazzi e fino a 24 anni. Al contempo, si è verificato, sempre nello stesso arco temporale, un calo rilevante del consumo di latte a colazione che passa dal 56,6% al 45,6%, con punte di riduzione di circa 20 punti percentuale tra i bambini di 3-10 anni. In cosa si è tradotto tutto ciò? Nell’aumento della quota di coloro che pur non bevendo il latte mangiano comunque qualcosa come biscotti, fette biscottate o brioche, con o senza bevande come il the o il caffè (+10%), oppure che fanno altri tipi di colazione a base ad esempio di yogurt, cereali e succhi di frutta (+5,4%).

I benefici di latte e yogurt: gli studi internazionali

Che cosa dicono i principali studi sui benefici del consumo di latte e yogurt? Il Ministero della Salute sottolinea come due recenti revisioni di metanalisi (una tecnica clinico-statistica quantitativa che permette di combinare i dati di più studi condotti su uno stesso argomento) svolti a livello internazionale concludono “che il consumo di latte è più frequentemente associato ad effetti positivi che eventuali effetti sfavorevoli sulla salute”. In particolare, “l’analisi dose-risposta indica che un incremento di 200 ml (circa 1 tazza) di latte al giorno era associato a un minor rischio di malattie cardiovascolari, ictus, ipertensione, cancro del colon-retto, sindrome metabolica, obesità e osteoporosi”. Associazioni benefiche sono state trovate anche per il diabete mellito di tipo 2 e il morbo di Alzheimer. Altri studi evidenziano l’effetto favorevole del consumo di latte e yogurt sulle malattie cardio-cerebrovascolari e a un minor rischio di iperglicemia e pressione arteriosa elevata. Inoltre, un aumento di una porzione al giorno di latte sarebbe correlato a un rischio inferiore del 12% di obesità addominale e un incremento di una porzione al giorno di yogurt a un rischio di iperglicemia inferiore del 16%.

Le porzioni raccomandate

A livello più pratico quanto latte e quanto yogurt andrebbero consumati al giorno per godere dei loro effetti benefici? Il Tavolo Tecnico sulla Sicurezza Nutrizionale del Ministero della Salute sottolinea come “a livello mondiale, tutte le linee guida per una sana alimentazione indicano che il consumo di latte/yogurt si associa al mantenimento di un buono stato di salute e ne raccomandano un consumo quotidiano. Le linee guida italiane per una sana alimentazione raccomandano il consumo di 3 porzioni di latte al giorno, pari a un quantitativo di 375 ml, mentre a livello nazionale un recente documento di consenso messo a punto dalla Società Italiana di Nutrizione Umana (SINU) e dalla Società Italiana di Scienze dell’Alimentazione (SISA) caldeggia il consumo di latte e yogurt tra gli esempi di una prima colazione adeguata dal punto di vista nutrizionale”.

Il Decalogo del Ministero della Salute

Infine, il Decalogo per il corretto consumo di latte e yogurt nell’alimentazione quotidiana del Ministero della Salute che evidenzia pregi e caratteristiche di questi alimenti.

  • Consuma ogni giorno 3 porzioni tra latte e yogurt. Una porzione corrisponde a 125 grammi cioè un bicchiere piccolo oppure 1/2 tazza o un vasetto di yogurt.
  • Il latte e lo yogurt sono alimenti per iniziare bene la giornata. Con una tazza intera di latte (2 porzioni) a colazione e uno yogurt come spuntino si raggiungono le 3 porzioni raccomandate.
  • Il latte e lo yogurt sono fonti di calcio, inoltre contengono vitamina A, vitamine del gruppo B e altri sali minerali come fosforo, magnesio, zinco e selenio.
  • Il latte e lo yogurt bianco senza zuccheri aggiunti sono molto simili dal punto di vista nutrizionale. Lo yogurt, grazie ai fermenti lattici, favorisce l’equilibrio della flora intestinale.
  • Puoi scegliere tra latte fresco pastorizzato, fresco pastorizzato di alta qualità, pastorizzato, microfiltrato e a lunga conservazione (UHT).
  • Lo yogurt si ottiene per fermentazione del latte ad opera di specifici microrganismi. Quando la fermentazione del latte non è dovuta all’azione dei microrganismi dello yogurt, si ottengono latti fermentati.
  • Latte e yogurt possono essere interi, scremati o parzialmente scremati in base alla percentuale di grassi. Il latte e lo yogurt scremati o parzialmente scremati hanno un ridotto contenuto di grassi e di calorie senza alcuna riduzione di calcio e proteine.
  • Il latte può essere bevuto ad ogni età. Nell’intestino umano è presente la lattasi, enzima necessario per la digestione del lattosio (zucchero del latte). Ciò rende il latte un alimento adeguato per bambini, adulti e anziani, ad eccezione degli intolleranti al lattosio.
  • Lo yogurt è ben tollerato dalla maggior parte di coloro che soffrono di intolleranza al lattosio.
  • Il calcio e il fosforo presenti nel latte e nello yogurt sono facilmente assorbiti dall’organismo. Il loro consumo contribuisce a diminuire il rischio di insorgenza di osteoporosi.

Donazioni e trapianti nel 2021, l’Italia torna ai livelli pre-Covid

Donazioni e trapianti di organi, tessuti e cellule sono tornati ai livelli pre-Covid 19. Ad annunciarlo è il recente report, relativo all’anno 2021, del Centro nazionale trapianti (Cnt), che – sottolinea il Ministero della Salute – traccia un bilancio estremamente positivo dell’anno appena trascorso. Dopo la brusca frenata del 2020, quando l’impatto della prima ondata del Covid aveva portato a un calo complessivo del 10%, nel 2021 la Rete trapianti è infatti riuscita a riorganizzare la propria attività nel nuovo contesto emergenziale e a recuperare completamente, segnando un +12,1% sul fronte delle donazioni di organi e del 9,9% su quello dei trapianti.

Emblematiche, a tal proposito, le parole del Ministro della Salute, Roberto Speranza: “Gli ultimi dati dell’attività di donazione e trapianto sono un’ulteriore conferma della straordinaria capacità di reazione che il Servizio Sanitario Nazionale ha dimostrato in questi due anni di pandemia”. “Dobbiamo continuare a investire su un’eccellenza come la rete trapiantologica, – ha aggiunto – sia sul fronte organizzativo sia in termini di promozione dell’informazione, per convincere sempre più cittadini a dire sì alla donazione”.

Insomma, anche in questo campo emerge l’alto profilo della sanità pubblica italiana, che spicca nel mondo per le caratteristiche uniche di equità e universalità, e continua a mostrare segnali di importante tenuta nonostante le difficoltà recenti e le sfide del futuro, in primis l’invecchiamento della popolazione (con il conseguente aumento delle cronicità) e le ristrettezze del bilancio pubblico. Una situazione più volte evidenziata da Assidai, che ha sempre ribadito da una parte l’assoluta centralità del Servizio Sanitario Nazionale e dall’altra parte la necessità di sostenerlo, in un’ottica complementare e mai sostitutiva.

Più prelievi di organi, meno “opposizioni”

Vediamo i numeri. Nonostante le terapie intensive siano finite spesso sotto pressione durante l’anno (e infatti le segnalazioni di potenziali donazioni in rianimazione sono cresciute, ma solo del 4,8% sul 2020, attestandosi a 2.528 contro le 2.766 del 2019), il numero dei prelievi di organi è tornato sopra quota 1.700, come prima del Covid-19. Complessivamente le donazioni nel 2021 sono state infatti 1.725 contro le 1.539 del 2020 (+12,1%), di cui 1.363 da donatori deceduti (+10,4%) e 362 da viventi (+19,1%). In parallelo il tasso di donazione è risalito a 22,9 donatori per milione di abitanti: meglio del 2020 (20,5) ma anche del 2019 (22,8).

Quali sono le regioni più “virtuose”? Valle d’Aosta, Toscana ed Emilia-Romagna si confermano sul podio con un tasso rispettivamente di 64, 47,7 e 37,4 donatori per milione. Le regioni del Centro-Sud restano ancora invece molto indietro rispetto a quelle settentrionali, ma sono tutte in recupero: in particolare è molto positivo il bilancio della Basilicata (che sale da 5,3 a 18,1 donatori per milione di abitanti), dell’Abruzzo (+8,6) e di Puglia e Sicilia (+5,4).

A fare aumentare l’attività di trapianto è anche il calo delle opposizioni al prelievo degli organi rilevate nelle rianimazioni: nel 2021 i “no” si sono fermati al 28,6%, contro il 30,2% dell’anno precedente e il 31,1% del 2019. Il miglior risultato? In Veneto (tasso di opposizione del 18,8%, -4,4 punti percentuale rispetto al 2020), e anche nelle regioni meridionali la situazione è in netto miglioramento: per la prima volta la Campania ottiene un risultato più positivo della media nazionale (27,8% di “no”, un anno prima l’opposizione era al 37,7%).

Balzano i trapianti: +9,9% sul 2020

Capitolo trapianti. Nel 2021 quelli eseguiti sono stati 3.778 che significa non solo 341 in più rispetto al 2020 (+9,9%), ma anche il terzo miglior risultato di sempre nel nostro Paese dopo i 3.183 del 2019 e i 3.950 del 2017.  Va osservato che il 90,4% dei trapianti dell’anno scorso sono stati realizzati grazie agli organi di donatori deceduti.

In generale, l’aumento più significativo è stato riscontrato nei trapianti di fegato (1.376, +14,5% sul 2020), ma sono cresciuti anche quelli di pancreas (passati dai 41 del 2020 ai 55 del 2021). Più 7,6% per i trapianti di rene, che sono sempre quelli più numerosi (2.051, oltre la metà del totale), in salita anche quelli di cuore (251, +5,5%), mentre rimane più contenuta l’attività relativa al polmone: 115 interventi eseguiti, lo stesso numero di 12 mesi prima. La regione nella quale sono stati effettuati più trapianti si conferma la Lombardia (686), seguita da Veneto (523) ed Emilia-Romagna (486), che ha fatto registrare anche la crescita maggiore dei volumi di intervento: +24,3% rispetto al 2020.

Discorso a parte merita il midollo. Ancora una volta l’attività di donazione e trapianto di cellule staminali emopoietiche ha registrato una crescita, circostanza che era avvenuta anche nel 2020, nonostante la pandemia. I trapianti da donatori non consanguinei sono stati ben 931 (+6,4%), mentre le donazioni effettive sono arrivate a quota 300 (+4,2%) di cui ormai quasi il 90% prelevate da sangue periferico (più semplice e rapido), mentre diminuisce ancora la donazione “tradizionale” da midollo osseo vero e proprio.

Infine, le dichiarazioni di volontà, che sono poi in caso di assenso la pre-condizione per la donazione di organi e quindi per i trapianti. Il 2021 – sottolinea il Centro nazionale trapianti – è stato un anno di ripresa non solo sul fronte dell’attività clinica, ma anche su quello della cultura della donazione. Negli ultimi 12 mesi sono state recepite 3.201.540 dichiarazioni di volontà, di cui 2.204.318 consensi alla donazione (68,8%) e 997.222 opposizioni (31,2%): la percentuale di “sì” è la più alta mai raccolta in un anno da quando la registrazione dell’opinione dei cittadini maggiorenni in materia avviene prevalentemente all’anagrafe comunale al momento del rinnovo della carta d’identità. Un risultato positivo considerato che nel 2020 le opposizioni erano state il 33,6%, due punti e mezzo in più.

Recuperato il divario da inizio pandemia

Le conclusioni spettano al direttore del Centro nazionale trapianti, Massimo Cardillo, che sottolinea: “Avere recuperato in un solo anno il gap accumulato all’inizio della pandemia è un grande risultato il cui merito va all’intera rete trapiantologica che ha dimostrato di essere solida e resiliente, dal Nord al Sud del Paese”. Le prospettive e il futuro sono altrettanto cruciali: “Ora dobbiamo cogliere le opportunità che arriveranno dal Recovery Fund e dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) per offrire una presa in carico ancora più capillare a tutti i pazienti trapiantati e in attesa di trapianto”, ha concluso. Il PNRR, del resto, è una grande occasione per tutto il Paese e, tra gli altri, anche per il Servizio Sanitario Nazionale che dovrà sfruttare questa straordinaria disponibilità di fondi per investire sul presente e soprattutto in ottica futura.

Combattere l’anemia falciforme con la terapia genica, la nuova frontiera della medicina

La nuova frontiera dell’innovazione nella sanità è costituita dalle terapie geniche. Oggi è un trend ancora in fase iniziale, ma domani potrebbe davvero rappresentare una rivoluzione copernicana per il settore della salute, con ricadute positive anche in termini di risparmio di costi per i servizi sanitari nazionali.

In realtà, alcuni importanti risultati concreti sono già stati raggiunti. Tra questi c’è una possibile cura contro l’anemia falciforme, la fin troppo nota malattia genetica del sangue caratterizzata dall’aspetto anomalo dei globuli rossi (appunto a forma di falce) che causa dolore acuto e danni agli organi. L’Istituto Superiore di Sanità (ISS) specifica in modo approfondito che “l’anemia falciforme è una malattia ereditaria che colpisce i globuli rossi ed è causata dalla presenza, al loro interno, di anomalie dell’emoglobina, proteina che trasporta l’ossigeno dai polmoni a tutti i tessuti dell’organismo. Normalmente i globuli rossi hanno una forma simile ad un disco, sono flessibili e scorrono facilmente anche attraverso i vasi sanguigni più piccoli. Nelle persone con anemia falciforme, invece, i globuli rossi hanno una forma insolita, a falce o a mezzaluna, sono appiccicosi e rigidi e, di conseguenza, rimangono intrappolati nei piccoli vasi sanguigni impedendo così al sangue di raggiungere tutte le parti del corpo. Ciò causa danni, anche gravi, ai tessuti che non ricevono più ossigeno e può anche provocare dolore. I globuli rossi delle persone malate di anemia falciforme sono più fragili di quelli delle persone sane, vivono di meno e questo determina una grave anemia. Colpisce soprattutto le popolazioni dell’area mediterranea, del Medio Oriente, dei Caraibi e dell’Asia. In Italia è presente nelle zone meridionali, in particolare Sicilia e Calabria, dove può raggiungere una frequenza compresa tra il 2% ed il 13%. Negli ultimi 15-20 anni, gli spostamenti delle popolazioni (flussi migratori) hanno diffuso la malattia in tutte le regioni italiane, in particolare quelle del Nord e Centro”.

Ebbene, ora una terapia genica sperimentale – chiamata LentiGlobin – promette una cura: in particolare, restituisce ai globuli rossi la forma “giusta” permettendogli di scorrere facilmente nei vasi sanguigni. Risultato: vengono eliminati tutti i sintomi e le complicazioni della malattia per almeno tre anni. Detto in termini più scientifici, in fase sperimentale si è verificata una riduzione quasi completa (99,5%) delle crisi vaso-occlusive e della sindrome toracica acuta.

È importante ricordare che, ad oggi, l’unica cura possibile a questa malattia consiste nel trapianto di midollo osseo, una procedura complessa che richiede la compatibilità tra donatore e ricevente e che non sempre va a buon fine per l’elevato rischio di rigetto. Inoltre, l’aspettativa di vita per una persona con anemia falciforme è in media di 40 anni.

I risultati sperimentali della nuova terapia

La nuova terapia genica consiste come detto nel prelievo delle cellule staminali emopoietiche (che danno origine alle cellule del sangue) dal paziente e in una loro modifica in laboratorio. Attraverso un lentivirus innocuo utilizzato come mezzo di trasporto viene così collocata nelle cellule staminali la copia corretta del gene beta-globina. Una volta reinfuse nei pazienti, le cellule staminali si stabiliscono nel midollo osseo e iniziano a produrre nuovi globuli rossi dalla forma corretta.

Su che campione è stata testata LentiGlobin? È stata messa alla prova in una sperimentazione di fase 1-2 su 35 pazienti adulti e adolescenti con anemia falciforme e nessuno di loro ha avuto dolori nei 38 mesi successivi. I risultati, pubblicati sul New England Journal of Medicine, dimostrano insomma che l’intervento genetico è riuscito a modificare la forma dei globuli rossi eliminando gli episodi di dolore acuto scatenati dai globuli rossi anomali che raggruppandosi bloccano i vasi sanguigni. C’è un ulteriore elemento da sottolineare: LentiGlobin utilizza le cellule staminali del paziente è dunque non vi è il rischio di rigetto, una complicanza purtroppo comune dei trapianti di midollo osseo convenzionali.

Lo studio, va anche fatto notare, porta la firma di ben 12 autorevoli scienziati del settore. Tra loro Markus Y. Mapara, professore di medicina presso la Columbia University Vagelos College of Physicians and Surgeons, che ha chiarito: “Non c’è il rischio di sopravvalutare il potenziale impatto di questa nuova terapia. Le persone con anemia falciforme vivono nella paura della prossima crisi di dolore. Questo trattamento potrebbe restituire la vita a chi soffre di questa malattia.”

Il parere del “guru” Naldini intervistato da Assidai su Welfare 24

La terapia genica, dunque, come straordinario strumento per battere alcune malattie rare e in futuro, forse, anche alcune cronicità. Un argomento di grande attualità al quale Assidai aveva dedicato un numero di Welfare 24 con un’intervista esclusiva al Professor Luigi Naldini, Direttore dell’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica e Professore all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Naldini è stato pioniere nello sviluppo e nell’applicazione di vettori lentivirali per terapia genica e proprio per il suo straordinario lavoro in questo campo, nel 2019, si è aggiudicato il premio Louis-Jeantet, promosso dall’omonima Fondazione svizzera: un riconoscimento di altissimo livello e che rappresenta spesso l’anticamera del Nobel.

Secondo lo scienziato, la terapia genica “rappresenta una svolta epocale per la medicina perché va alla radice genetica di alcune malattie rare e agisce in modo risolutivo”. Con un potenziale impatto positivo anche sul Servizio Sanitario Nazionale: “Oggi parliamo di cure molto costose ma in futuro, una volta messe a punto cellule donatrici universali e realizzate economie di scala, si potrebbe consentire un risparmio dei costi legati al trattamento di patologie diffuse come i tumori”, ha fatto notare Naldini. Una prospettiva straordinaria che aiuterebbe il nostro Servizio Sanitario Nazionale a mantenere le caratteristiche di universalità ed equità che gli vengono riconosciute in tutto il mondo.