La sanità italiana è la quarta nel mondo secondo Bloomberg

Troppo spesso, ormai, siamo abituati a vedere l’Italia navigare nelle parti basse di qualsivoglia classifica internazionale che riguardi economia, competitività o legalità. Per questo, quanto meno a prima vista, potrebbe apparire sorprendente il quarto posto collezionato dal nostro Paese nel ranking mondiale di Bloomberg sui sistemi sanitari più efficienti del pianeta. Prima di noi, nell’ultima edizione del Global Health Index (sfornata, proprio nei giorni scorsi, incrociando i dati raccolti da Banca Mondiale, Onu, Fondo Monetario Internazionale e Organizzazione Mondiale della Sanità), ci sono soltanto Hong Kong, Singapore e la Spagna: l’Italia rimonta di due posti la classifica, e si mette dietro – nella top ten – Corea del Sud, Israele, Giappone, Australia, Taiwan ed Emirati Arabi. Gli altri principali Paesi occidentali? Decisamente più indietro: gli USA perdono quattro posizioni e scivolano al 54esimo e penultimo posto con l’Azerbaijan, la Gran Bretagna (caratterizzata per tradizione da un sistema sanitario universalistico) risulta in 35esima posizione, la Francia e il Canada in 16esima e la Germania addirittura in 45esima.

Premiata l’efficienza del Servizio Sanitario Nazionale italiano

Come spiegare un risultato di questo genere? Il nostro Servizio sanitario universale, che proprio quest’anno compie 40 anni, è sì tra i più stimati ed è considerato quasi unico al mondo per l’universalismo delle cure offerte. È anche vero, tuttavia, che presenta vari nodi, spesso causati dalle ristrettezze di spesa, su cui sarebbe opportuno lavorare: le liste d’attesa, il divario di prestazioni tra il Nord e il Sud o l’emergenza anziani, giusto per citarne alcuni.

La prestigiosa posizione dell’Italia nella classifica di Bloomberg è determinata, come spesso accade, dai criteri utilizzati per realizzare la classifica stessa. Criteri che valutano l’efficienza, piuttosto che la qualità assoluta dei servizi sanitari, e più nello specifico mettono a fuoco il rapporto tra risultati ottenuti e costi. Proprio per questo alcuni servizi sanitari eccellenti, ma costosi come quello tedesco o danese, sono nelle parti basse della classifica. Nel dettaglio, Bloomberg mette in relazione l’aspettativa di vita con la spesa pubblica pro capite per la sanità e di conseguenza l’Italia, tra i Paesi più longevi al mondo con una media di 82,5 anni, brilla appena preceduta dalla Spagna (82,8 anni): nei due Paesi, del resto, lo Stato mette a disposizione per il Servizio Sanitario Nazionale rispettivamente “solo” 2.700 dollari e 2.354 dollari pro capite l’anno, contro i 4.592 dollari della Germania, i 5.400 circa della Danimarca e gli oltre 9.000 degli Stati Uniti. C’è un altro modo, ovviamente, di interpretare la questione: la sanità italiana utilizza bene le risorse scarse messe a disposizione dalla politica nazionale, evitando gli sprechi e concentrandole sulle iniziative più importanti.

La sanità integrativa in Italia

I risultati forniti dal Global Health Index di Bloomberg confermano e avvalorano le posizioni di Assidai sul Servizio Sanitario Nazionale. Ovvero: il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) è un esempio unico nel mondo per la sua prerogativa di universalismo, per la sua capacità di ottimizzare le risorse sempre più risicate messe a disposizione dal Governo centrale e, in buona sostanza, per l’offerta gratuita di servizi ai propri cittadini che in altre parti del mondo, a partire dalle più semplici prestazioni di pronto soccorso, richiedono assicurazioni specifiche o spese di un certa entità. Tuttavia, questo stesso Sistema deve fare i conti sempre più con dinamiche di carattere aggregato che rischiano di minarne la sostenibilità nel lungo periodo, a partire dal graduale invecchiamento della popolazione. Per questo, Assidai vede la propria offerta di Piani Sanitari non come sostitutiva della sanità pubblica, che rappresenta e dovrà continuare a rappresentare uno dei principali pilastri del nostro Paese, ma semplicemente come un elemento integrativo e complementare, di supporto alla sostenibilità finanziaria e sociale dello stesso Servizio Sanitario Nazionale.

Una giornata mondiale per la prevenzione cardiaca

Le malattie cardiovascolari rappresentano ancora oggi la principale causa di morte nel nostro Paese, visto che sono responsabili del 44% di tutti i decessi. In particolare, è la cardiopatia ischemica a essere il principale “killer” (con il 28%), mentre gli attacchi cerebrovascolari sono al terzo posto con il 13%, dopo i tumori. Chi ha la fortuna di sopravvivere a un attacco cardiaco, inoltre, diventa un malato cronico, dato che la malattia peggiora la qualità della vita e comporta notevoli costi economici per la società: in Italia la prevalenza di cittadini affetti da invalidità cardiovascolare è pari al 4,4 per mille, mentre il 23,5% della spesa farmaceutica italiana (pari all’1,34% del prodotto interno lordo) è destinato a farmaci per il sistema cardiovascolare.

Una giornata mondiale per il cuore

Questi numeri, che ben rappresentano l’enorme problema delle patologie cardiache in Italia, sono anche il manifesto della Giornata Mondiale del Cuore, che come ogni anno si celebrerà il 29 settembre: una campagna mondiale di informazione e sensibilizzazione sulla prevenzione delle malattie cardiocerebrovascolari, promossa in tutto il mondo dalla World Heart Federation, attraverso una comunità di oltre 200 organizzazioni nazionali che sostengono l’impegno della società medica e delle fondazioni per il cuore in oltre 100 Paesi.

Nel nostro Paese l’iniziativa è sostenuta da Fondazione Italiana per il Cuore, membro nazionale della World Heart Federation, in collaborazione con Conacuore (100 associazioni di pazienti) e la Federazione Italiana di Cardiologia (FIC) e con il patrocinio di numerosi enti e delle società scientifiche nazionali (per le varie iniziative previste vedi il sito ufficiale). Sullo sfondo, del resto, c’è un obiettivo chiaro: ridurre del 25% l’incidenza delle malattie non trasmissibili, il cosiddetto “25 by 25” goal, come richiesto dall’OMS nel 2011 ai propri Stati membri. Ormai mancano solo 2.655 giorni per raggiungere questo importante traguardo e la prevenzione primaria, rappresentata per esempio da stili di vita sani e da screening medici effettuati con la giusta frequenza (come più volte ricordato e argomentato da Assidai), è un importante mezzo per centrarlo.

La consapevolezza e la “Carta del Rischio cardiovascolare” dell’ISS

In Italia solo il 38% delle persone ad alto rischio cardiovascolare conosce la propria condizione ed è, dunque, in grado di attuare concretamente comportamenti e stili di vita adeguati. La consapevolezza, in questo caso, è fondamentale così come lo sono le abitudini, che possono modificare positivamente un’eventuale predisposizione. C’è tuttavia un dato positivo: l’informazione sul tema e la prevenzione hanno iniziato a fare breccia, visto che i tassi di mortalità per le malattie cardio-cerebrovascolari, tra cui infarto, scompenso e ictus, si sono ridotti di oltre il 35% negli ultimi 11 anni. Per questo, bisogna spingere ancora di più sulla prevenzione come arma per combattere queste patologie.

Un’iniziativa interessante e di rilievo arriva dall’Istituto Superiore di Sanità che, attraverso il portale “Progetto Cuore”, ha lanciato già da tempo la cosiddetta “carta del rischio cardiovascolare”, che serve a stimare la probabilità di andare incontro a un primo evento cardiovascolare maggiore (infarto del miocardio o ictus) nei 10 anni successivi, conoscendo il valore di sei fattori di rischio: sesso, diabete, abitudine al fumo, età, pressione arteriosa sistolica e colesterolemia. La carta del rischio deve essere usata dal medico e con estrema cura, rispettando precise indicazioni, ma può essere estremamente utile per mettere a punto il proprio “identikit” cardiaco e muoversi di conseguenza sul fronte della prevenzione.

L’importanza della prevenzione per Assidai

Assidai crede fortemente nell’importanza della prevenzione e negli anni ha promosso specifiche campagne affinché la prevenzione non sia mai da sottovalutare per tutti coloro che sono sottoposti a situazioni di stress quotidiano, come per esempio i manager.

Quest’anno il Fondo sanitario, insieme a Federmanager, ha offerto a tutti gli iscritti Assidai – in modo totalmente gratuito – la possibilità di aderire al pacchetto “Healthy Manager” per effettuare l’esame ecocolordoppler dei tronchi sovraortici presso le strutture convenzionate con il Fondo sanitario e che hanno aderito al progetto.

Questa indagine rientra tra gli esami di primo livello nell’ambito della prevenzione cardiovascolare, in quanto il rilievo di lesioni arteriosclerotiche a livello carotideo presenta una correlazione non infrequente con analoghe lesioni a livello delle coronarie (le arterie che attraverso cui arriva il sangue al cuore). L’ecodoppler dei tronchi sovraortici è una metodica ecografica e quindi non invasiva e non dolorosa per il paziente. Questo esame consente lo studio della struttura della parete arteriosa e anche del flusso del sangue che scorre all’interno delle arterie. È perciò possibile valutare alcune caratteristiche morfologiche quali il diametro e lo spessore della parete, oltre alle caratteristiche del flusso, quali la velocità e la direzione.

La malattia arteriosclerotica è la patologia più frequentemente studiata nel distretto dei tronchi sovraortici ed è alla base di due delle patologie più diffuse e invalidanti: l’ictus cerebrale e l’infarto del miocardio. La placca carotidea è la lesione aterosclerotica più frequente. Si tratta di accumuli più o meno rilevanti di colesterolo, fibre e cellule all’interno della parete del vaso (che assomigliano molto all’accumulo di ruggine sulla parete di un tubo). Tali accumuli possono essere di piccole dimensioni, ma possono anche diventare così ingombranti da occludere il lume del vaso e quindi determinare un danno irreversibile a livello cerebrale (ictus). Tale metodica consente quindi l’individuazione precoce di tali lesioni che possono essere trattate.

 

Italia, leader in Europa sulla “buona” salute

Ridurre la mortalità prematura entro il 2020, aumentare l’aspettativa di vita, diminuire le disuguaglianze di salute, migliorare il benessere della popolazione, garantire l’accesso universale e il diritto al livello più elevato possibile della salute, e stabilire obiettivi di salute a livello di singoli Stati membri. Sono questi i sei principali obiettivi di “Salute 2020”, fissati ormai nel 2012, e su cui – nell’ultima edizione (appena uscita) dello European Health Report – l’OMS fa un punto dettagliato, con uno spaccato interessante (e confortante) anche sull’Italia.

In Europa si vive di più e meglio

Partiamo dalle notizie positive. A livello europeo, rispetto a cinque anni fa, in media la popolazione vive più a lungo (si è passati da una media di 76,7 anni a una di 77,9 anni), anche se  persiste più di una decade di differenza di aspettativa di vita tra i Paesi con i livelli più alti e quelli con i livelli più bassi (11,5 anni). Inoltre, la mortalità cala per tutte le cause (e per tutte le fasce di età) con un decremento cumulato di circa il 25% nell’arco di 15 anni. Quindi, l’Europa sta facendo meglio di quanto si era prefissata per il 2020: ridurre dell’1,5% l’anno le morti premature dovute ai quattro principali tipi di malattie non trasmissibili – malattie cardiovascolari, cancro, diabete mellito e malattie respiratorie croniche – con un calo medio annuo ormai attorno al 2%, anche se restano profonde differenze tra singole aree geografiche. La lotta alla diffusione delle malattie non trasmissibili vede da sempre in prima fila Assidai, che punta sulla prevenzione primaria (a partire dall’adozione di stili di vita sani e sostenibili) come arma cruciale per vincere questa battaglia.

Altro aspetto cruciale: la percezione di benessere della popolazione europea della Regione è tra le più elevate di tutto il mondo, con una media che si colloca a 6 in una scala da 1 a 10, ma in alcuni Stati è sotto 5 e in altri addirittura sopra il 7,5. E se la spesa sanitaria in rapporto al Prodotto Interno Lordo è praticamente rimasta invariata (8,3% contro 8,2%), l’OMS rileva anche come il numero di Paesi che ha messo in campo politiche contro le disuguaglianze è passato da 29 a 42 (su 53 Paesi complessivi). I risultati tangibili? La mortalità infantile è calata dal 7,3 al 6,8 per mille e la non frequenza della scuola primaria si è abbassata dal 2,6% al 2,3%.

Aumentano obesi e sovrappeso

Ora le notizie meno buone.  In Europa il 29% di coloro che hanno più di 15 anni fuma: si tratta della percentuale più alta delle sei macroregioni mondiali analizzate dall’OMS.  Anche il consumo di alcol resta il più elevato del mondo, anche se è in calo e i livelli  variano tra Paesi in una forbice molto ampia (da 1,1 a 15,2 litri a testa l’anno). Ancora: la popolazione sovrappeso è cresciuta dal 55,9% al 58,7% e gli obesi dal 20,8% al 23,3% dimostrando un trend complessivo crescente per l’Europa. Infine le coperture vaccinali dell’età pediatrica migliorano in generale in tutto il Vecchio Continente, ma recenti focolai di morbillo e rosolia in alcuni Paesi potrebbero mettere a repentaglio l’eliminazione di queste malattie.

Italia, bene SSN ma allarme fumo giovanile

Infine l’Italia, che spicca subito per tre dati: l’aspettativa di vita media che si attesta 82,8 anni (siamo secondi al mondo dietro la Spagna), circa due terzi della popolazione che si sente “in buona salute” e un Servizio Sanitario Nazionale che garantisce quantità (è universalistico) e qualità, visto che risulta efficace nel  mantenere la mortalità prevenibile ai livelli più bassi nell’Unione Europea. Sempre a proposito di SSN, lo studio evidenzia come la spesa sanitaria pubblica procapite è pari a 2.502 euro, il 10% in meno rispetto alla media UE che sfiora i 2.800 euro. Ciò significa, in rapporto al PIL, il 9,1% contro il 9,9% comunitario, a fronte di una spesa out of pocket superiore agli altri Paesi europei.

C’è poi un tema di stili di vita, soprattutto tra i giovani. L’Italia registra la terza percentuale più bassa dopo Svizzera e Danimarca nella diffusione dell’obesità, ma balza immediatamente al quarto posto se si comprendono nella statistica i 15enni maschi, tra i quali gli obesi e in sovrappeso arrivano al 26%. Senza dimenticare il fumo, dove siamo ben sotto la media europea generale ma tra gli adolescenti l’Italia è seconda in Europa per le femmine (22%) e terza per i maschi (20%). Infine il tema dei vaccini: la copertura con la prima dose di anti-morbillo nel 2016 era all’89% e al 92% nel 2017; per la seconda dose si attestava all’85% e all’86% rispettivamente nel 2016 e 2017. Valori elevati ma comunque lontani dal target del 95% fissato dall’OMS. 

 

Welfare sanitario il preferito dai lavoratori

Ristorazione, assistenza sanitaria, previdenza integrativa e istruzione. Appartengono a queste quattro categorie i servizi welfare più diffusi in Italia secondo il Quinto Rapporto Welfare e il Secondo Rapporto Wellbeing di OD&M Consulting, società di Gi Group specializzata in HR Consulting, che ha svolto due indagini parallele su un panel di 161 aziende italiane e su un campione di oltre 500 lavoratori. L’obiettivo? Mettere a fuoco l’evoluzione della percezione del welfare aziendale in Italia sotto entrambi i punti di vista e, soprattutto, quantificare il suo impatto sulla motivazione dei dipendenti. Una ricerca che conferma il ruolo di primo piano dell’assistenza sanitaria e dunque dell’offerta di servizi sanitari integrativi da parte di fondi come Assidai, in grado di garantire un vero valore aggiunto ai propri iscritti.

L’80% dei lavoratori vuole il welfare sanitario

Secondo l’indagine di OD&M Consulting, l’assistenza sanitaria rimane il servizio più apprezzato dai lavoratori con quasi l’80% di gradimento, seguito da ferie e permessi (voluti soprattutto dai giovani). Al terzo posto i servizi di ristorazione e a seguire quelli di gestione del tempo (che registrano una crescita di oltre 7 punti, arrivando a un gradimento del 78,6% se viene previsto anche lo smart working). Seguono, a pari merito, i servizi di previdenza e di mobilità con il 69,2% di preferenze, oltre ai programmi e servizi assicurativi e ai piani di maternità, tutti in crescita nella fascia tra 35 e 44 anni.

Spostandosi invece sul fronte delle aziende, tra i principali servizi offerti, spiccano la ristorazione (77,8%), l’assistenza sanitaria (71,1%), la previdenza (57,8%) e l’istruzione (54,4%). In generale, oltre l’80% delle imprese (ma c’è una preponderanza delle grandi) offre servizi di welfare a tutti i dipendenti e, in sette casi su 10, lo fa – oltre che in base alla possibilità di defiscalizzazione – ascoltando i bisogni dei lavoratori e utilizzando analisi socio-demografiche. Al proposito è importante ricordare come il 73% delle imprese offre ai dipendenti la possibilità di scegliere all’interno di un paniere di servizi. E proprio una bassa flessibilità, in questo senso, incide negativamente sulla soddisfazione dei lavoratori. Altri elementi critici risiedono in un’eventuale scarsa chiarezza del regolamento del piano e in difficoltà nell’accesso ai servizi.

“Un nuovo patto tra impresa e lavoratore”

È molto interessante sentire il parere di Miriam Quarti, Senior Consultant e Responsabile dell’area Reward&Performance di OD&M Consulting.

“Il welfare aziendale è ormai un pilastro fondamentale del Total Reward per la gestione del rapporto azienda/lavoratore; proprio per questo, per garantire il successo dei piani sono cruciali il coinvolgimento dei dipendenti e la soddisfazione di effettivi bisogni che si estendono sempre più alla dimensione famigliare e al benessere individuale”.

Inoltre, secondo Quarti, presidiare l’intero processo, identificare le modalità di implementazione più coerenti con le finalità e procedere soprattutto con una comunicazione strategica e operativa mirata, sono aspetti fondamentali per il successo del piano.

Il welfare aziendale è parte integrante di un nuovo patto tra azienda e lavoratore, basato non più solo sull’erogazione di denaro, – conclude l’esperta – ma anche di servizi che aiutano le persone ad accrescere il loro benessere nell’organizzazione. Questo è un aspetto da valorizzare in modo adeguato con i lavoratori”.

Il welfare e il benessere dei dipendenti

C’è poi il capitolo del cosiddetto “Wellbeing”: oltre che per obbligo derivante da contratto nazionale, nel 35,6% dei casi le aziende implementano piani di welfare per aumentare il livello di benessere delle persone e organizzativo generale. Tra i lavoratori che hanno percepito che questa fosse la finalità principale (21,4%) è cresciuto maggiormente il grado di soddisfazione (+7,4%). Non solo: secondo la ricerca di OD&M Consulting, 9 lavoratori su 10 pensano che i servizi di welfare aziendale possono impattare positivamente sul livello di benessere personale e sul bilanciamento tra vita lavorativa e privata e il 72,5% pensa che la propria azienda investirà in futuro su questa tipologia di servizi.

5 regole per vivere a lungo e in buona salute

Stop alle sigarette, consumare alcol con moderazione, svolgere esercizio fisico in modo regolare, alimentarsi in modo sano e corretto, mantenere il peso forma. Sono queste, secondo un recente studio dell’American Heart Association, le cinque regole d’oro da seguire per vivere a lungo e in salute. Osservarle tutte, infatti, fa guadagnare in media oltre 10 anni di vita. Vediamole allora, nel dettaglio, ricordando che tutte queste regole appartengono a quella prevenzione primaria che Assidai, da tempo, sostiene e diffonde, informando puntualmente i propri assistiti.

No alle sigarette

Liberarsi dal vizio delle sigarette è condizione necessaria, ma non sufficiente, per allungare la propria vita dei 10 anni medi stimati dall’American Heart Association. Il fumo, va ricordato, è un’emergenza mondiale, con una dinamica crescente soprattutto nei cosiddetti Paesi Emergenti. Secondo le ultime statistiche dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, le sigarette mietono 6 milioni di vittime l’anno (il 10% per il fumo passivo) aumentando esponenzialmente per i fumatori le possibilità di sviluppare un cancro: ciò significa una morte ogni sei secondi. Senza contare la scia drammatica di malattie invalidanti legate allo stesso consumo di sigarette. In Italia i decessi legati alle “bionde” sono oltre 80mila e il 50% dei fumatori muore in media 14 anni prima. Numeri drammatici ed eloquenti al tempo stesso, che tuttavia non sono stati finora sufficienti per arginare questo fenomeno.

No all’alcol

Consumare alcolici con moderazione significa per le donne non superare 5-15 grammi di alcol al giorno e per gli uomini 5-30 grammi. Detto in termini più semplici: lei può bere al massimo un bicchiere di vino e lui due. Un “compromesso” accettabile per coloro a cui piace degustare, magari abbinato a un buon piatto, il cosiddetto nettare di Bacco e che, secondo l’American Heart Association, consente di ottenere il massimo in termini di aspettativa di vita. Meglio ancora, suggerisce inoltre l’associazione, se si tengono sempre sotto controllo anche colesterolo, glicemia e pressione. Anche per quanto riguarda l’alcol ecco qualche numero per spiegare meglio il concetto: ogni anno il suo abuso causa nel mondo 3,3 milioni di morti ed è responsabile dell’insorgenza di oltre 230 patologie, che costano alla società complessivamente almeno 17 milioni di anni di vita.

Fare attività sportiva

Specie per chi lavora alla scrivania o si sposta prevalentemente in auto, il rischio è quello della pigrizia e della sedentarietà. Invece, è molto importante mantenere sempre un buon livello di attività fisica, anche di bassa o media intensità. Insomma, non c’è bisogno di correre maratone o macinare chilometri di nuoto: 150 minuti a settimana di camminata a passo veloce rappresentano il livello minimo di attività fisica richiesta per attenersi ai dettami dell’American Heart Association e aumentare le proprie aspettative di vita. Per quel 38% di italiani che, secondo le ultime statistiche dell’Istat, ha dichiarato di non svolgere alcuno sport, va ricordato che per attività fisica moderata si intendono anche comportamenti virtuosi (e assolutamente fattibili nella vita di tutti i giorni), come muoversi in bicicletta o a piedi per andare a lavorare o fare la spesa, quindi evitando la macchina per ogni spostamento, fare una passeggiata al parco, preferire le scale all’ascensore, dedicarsi ai lavori domestici oppure, magari, scendere alla fermata prima se ci si muove in autobus.

Controllare l’alimentazione

Il cibo è il migliore alleato per tenere lontane determinate malattie e problematiche fisiche. Uno stile alimentare corretto, che eviti eccessivi grassi e zuccheri, garantendo il corretto apporto di frutta e verdura, consente alle donne che rispettano tutte le cinque regole dell’American Heart Association di allungare la vita attesa di 14 anni. Va anche detto che, in tema di alimentazione, gli italiani partono avvantaggiati grazie alla cosiddetta dieta mediterranea, riconosciuta peraltro dall’Unesco come patrimonio dell’umanità. Un recente studio italiano, condotto sulla popolazione del Molise e pubblicato sul British Journal of Nutrition, ha dimostrato che seguire questo regime alimentare diminuisce la mortalità del 25% per gli over 65.

Controllare il peso

Il segreto sta nell’indice di massa corporea, che si calcola dividendo il peso in chili per il quadrato dell’altezza in metri e deve essere compreso fra quota 18 e quota 25. Se si rientra in questi parametri e si seguono le altre quattro regole dell’American Heart Association, cala addirittura dell’82% il rischio di decesso per cause cardiovascolari e per il 65% la probabilità di ammalarsi di tumori mortali.

Ecco dunque le cinque regole, dettate dall’American Heart Association, per una vita lunga e sana: “tendere” verso questa eccellenza, che in un mondo ideale dovrebbe diventare normalità, sarebbe anche un’ottima base per garantire nel tempo la sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale.

Ictus, anche l’Europa punta sulla prevenzione

L’Europa scende in campo contro l’ictus. Se Assidai, nel suo piccolo, lo scorso giugno ha realizzato con successo la campagna “Healthy Manager”, che ha registrato quasi 6mila adesioni, la European Stroke Organization ha rilanciato e potenziato un piano di azione per il Vecchio Continente nel periodo 2018-2030. Gli obiettivi? Principalmente quattro. Innanzitutto la riduzione del numero assoluto degli ictus in Europa del 10%. In secondo luogo, il trattamento di almeno il 90% dei pazienti in una unità neurovascolare come primo livello di cura. In terzo luogo, la creazione di piani nazionali specifici che comprendano tutto il percorso che va dalla prevenzione primaria fino alla vita dopo l’ictus. Infine, la messa a punto, e soprattutto l’implementazione, di strategie nazionali che promuovano stili di vita sani e, al contempo, riducano i fattori ambientali, socio-economici ed educativi che aumentano il rischio di incorrere in questa patologia.

Ictus: enormi costi sociali e finanziari per il sistema

L’urgenza di un’iniziativa ancora più convinta e forte contro l’ictus a livello europeo è data da numeri e previsioni sempre più allarmanti per il futuro. Stando alle ultime stime della European Stroke Organization, entro il 2035 si verificherà un aumento del 34% del numero totale degli “eventi” cerebrovascolari acuti nell’Unione Europea, passando dagli oltre 613mila casi del 2015 a quasi 820mila nel 2035. Di conseguenza, lieviterà anche il numero delle persone che dovrà convivere con le conseguenze di una patologia che diventerà cronica: si passerà dai 3,71 milioni di tre anni fa a 4,63 milioni per il 2035.

Del resto, a giocare un ruolo rilevante in questa dinamica, sarà anche il progressivo invecchiamento della popolazione. Tutto ciò, oltre ad avere un impatto umano devastante, avrà anche un costo rilevante, stimato in 45 miliardi di euro in Europa nel 2015 e destinato ad aumentare, sia per i costi derivanti dall’assistenza sanitaria, sia per quelli indiretti a carico delle famiglie e delle società intera. Un ragionamento che vale anche per l’Italia, dove l’ictus cerebrale è una patologia grave e disabilitante che rappresenta la terza causa di morte, dopo le malattie cardiovascolari e le neoplasie. Circa 150mila italiani ne vengono colpiti ogni anno e la metà dei superstiti rimane con problemi di disabilità anche grave. In Italia, le persone sopravvissute, con esiti più o meno invalidanti, sono circa 800mila, ma sono purtroppo destinate a crescere, sia per l’invecchiamento progressivo della popolazione, sia perché tra i giovani è in aumento l’abuso di alcool e droghe. Secondo le ultime statistiche, delle persone colpite da ictus, il 20-30% muore entro tre mesi, il 40-50% perde in modo definitivo la propria autonomia, e il 10% presenta una recidiva severa entro 12 mesi.

La campagna “Healthy Manager” di Assidai-Federmanager

In questo contesto si colloca la campagna di prevenzione “Healthy Manager”, che Assidai ha lanciato a giugno, insieme con Federmanager, e che ha visto come partner i colossi assicurativi Allianz e Generali Welion. Per tutti gli iscritti al Fondo è stato possibile prenotare un esame Ecocolordoppler dei tronchi sovraortici (TSA) – considerato fondamentale dagli esperti per prevenire l’ictus – da svolgere, in modo completamente gratuito, presso una rete di oltre 90 strutture sanitarie aderenti all’iniziativa. Guardando i numeri, l’iniziativa è stata un successo con 5.933 prenotazioni, il 57% in più rispetto alle 3.777 del 2016, quando si era svolta la precedente campagna di prevenzione.

Come funziona esattamente questo esame (assolutamente non invasivo)? L’ecocolordoppler dei tronchi sovraortici è un tipo di ecografia vascolare che permette lo studio morfologico e funzionale dei vasi del collo, valutandone sia il diametro e lo spessore di parete, sia la velocità e la direzione del flusso ematico all’interno. È un modo per scoprire i primi indizi di una malattia aterosclerotica, ovvero la patologia più studiata nel distretto dei tronchi sovraortici, che può determinare piccoli ispessimenti di parete o veri e propri restringimenti del lume di un vaso (stenosi). L’associazione tra i dati anatomici e quelli flussimetrici permette la stima esatta dell’entità della stenosi e indirizza verso una corretta terapia. L’ecocolordoppler TSA, inoltre, è necessario per seguire nel tempo l’andamento di una stenosi e valutare l’esito di un intervento chirurgico o endovascolare di correzione della stessa.

Farmaci equivalenti e farmaci di marca: il report Ticket 2017

Oltre un terzo del ticket sanitario è pagato “per scelta” dai cittadini. Detto in cifre, dei quasi 2,9 miliardi di euro sborsati complessivamente per questa voce dagli italiani nel 2017, infatti, oltre 1 miliardo “è imputabile alla scarsa diffusione dei farmaci equivalenti in Italia”. Ad affermarlo, numeri alla mano, è il recente report “Ticket 2017”, realizzato dalla Fondazione Gimbe, che ha rielaborato i dati definitivi sulla compartecipazione alla spesa dei cittadini nel 2017.

Il concetto è molto semplice: 1 miliardo di euro è la somma addizionale pagata l’anno scorso da tutti gli italiani che hanno preferito acquistare un farmaco di marca rispetto al generico, affrontando per questo una spesa superiore. Si tratta, fa notare Gimbe, di circa 17 euro a testa, con le punte più alte al Centro-Sud. Il trend è in atto da tempo e poggia sulla scarsa diffusione in Italia dei farmaci equivalenti, documentata dall’Ocse, che ci ha collocato al penultimo posto su 27 Paesi sia per valore (8,4% su una media Ocse del 25%), sia per volume (19,2% contro il 51,5% ) del consumo di farmaci alternativi a quelli di marca. Basta “spacchettare” il ticket 2017 sui farmaci, che include per un importo complessivo superiore a 1,5 miliardi la quota fissa per la ricetta e la quota differenziale sul prezzo di riferimento pagata dai cittadini che preferiscono l’articolo di marca rispetto all’equivalente; per tracciare una tendenza chiara: nel periodo 2013-2017, a fronte di una riduzione della quota fissa da 558 milioni a 498 milioni (-11%), la componente differenziale per acquistare il farmaco di marca è aumentato da 878 milioni a 1,05 miliardi, cioè del 20%.

Spesa, si allarga la forbice farmaci-prestazioni

Per allargare ulteriormente l’obiettivo della nostra analisi, nel 2017 le Regioni hanno incassato per i ticket quasi 2,9 miliardi, che  corrispondono ad una quota pro-capite di 47,6 euro, di cui gli 1,549 miliardi (25,5 euro procapite) sono legati ai farmaci e 1,33 miliardi (22,1 euro procapite) alle prestazioni di specialistica ambulatoriale, incluse quelle di pronto soccorso. Ebbene, se si considera il periodo 2014-2017, la dinamica in questione emerge in modo ancora più netto: l’ammontare complessivo del ticket è rimasto stabile attorno a 2,9 miliardi, ma la forbice tra la spesa per farmaci e quella per prestazioni, praticamente inesistente quattro anni fa, si è allargata a dismisura con la prima voce che è aumentata del 7,9% e la seconda che è calata del 7,7%.

Il motivo? Sempre il solito: i cittadini preferiscono il farmaco di marca all’equivalente. Insomma, il Servizio Sanitario Nazionale – nonostante le ristrettezze di spesa e le dinamiche demografiche, che nel medio termine rendono auspicabile l’intervento di un sostegno privato, per esempio, proveniente da fondi integrativi, come Assidai – continua a mantenersi all’altezza e il rincaro della spesa sanitaria è da legare anche a scelte scorrette, o talvolta semplicemente non consapevoli, del cittadino-paziente, nel caso specifico sulla scelta dei farmaci.

Farmaci generici, Bolzano la provincia più “virtuosa”

Dall’analisi di Gimbe emergono, inoltre, significative differenze regionali sotto diversi punti di vista. Se il range della quota pro-capite totale per i ticket oscilla dai 97,7 in Valle d’Aosta ai 30,4 euro in Sardegna, per i farmaci varia dai 34,3 euro in Campania ai 15,6 euro in Friuli Venezia Giulia, mentre per le prestazioni specialistiche si va dai 66,2 della Valle d’Aosta agli 8,6 della Sicilia. Qual è invece la provincia più virtuosa nella scelta dei farmaci generici rispetto a quelli di marca? Bolzano con un differenziale di 10,5 euro a fronte di una media nazionale di 17,3 euro, mentre Lazio e Sicilia sono in coda alla classifica con 22,1 euro.

Italia fanalino di coda nella LTC – Long Term Care

L’invecchiamento della popolazione italiana rischia di essere una “bomba” non solo per il settore sanitario, ma per gli equilibri economici e sociali dell’intero Paese. A lanciare l’allarme, giustificato da numeri eloquenti, è stata la terza edizione degli Stati Generali dell’assistenza a lungo termine, organizzati da Italia Longeva, con la collaborazione, tra gli altri, del Ministero della Salute e dell’Istat: un appuntamento che ha acceso un faro sulla copertura Ltc (Long Term Care), un fronte sul quale Assidai si è sempre mossa in prima linea e su cui invece l’Italia staziona nelle retrovie rispetto ai principali partner europei.

Nel 2030 5 milioni di anziani disabili

Il punto di partenza è una cifra che riassume perfettamente il rischio che grava sul sistema Italia: nei prossimi dieci anni, 8 milioni di anziani avranno almeno una malattia cronica grave, vale a dire ipertensione, diabete, demenza, malattie cardiovascolari e respiratorie. Curarli tutti in ospedale, secondo il Professor Roberto Bernabei, presidente di Italia Longeva, sarebbe come “trasformare Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Bologna e Firenze in grandi reparti a cielo aperto”. Quindi, l’obbligo diventa “dare una risposta efficace alla fragilità e alla non autosufficienza dei nostri anziani, che si accompagnerà anche a una crescente solitudine”. Del resto, la popolazione italiana, in continua crescita negli ultimi 100 anni, oggi diminuisce, e al contempo invecchia, più velocemente: nel 2050 saremo due milioni e mezzo in meno. Al tempo stesso – secondo le stime elaborate dall’Istat per Italia Longeva – gli over65, oggi un quarto della popolazione, diventeranno più di un terzo, vale a dire 20 milioni di persone, di cui oltre 4 milioni avranno più di 85 anni. Ma già nel 2030,  secondo le ricerche effettuate, la cosiddetta “bomba dell’invecchiamento” potrebbe esplodere con 5 milioni di anziani potenzialmente disabili, innescando un circolo vizioso se non adeguatamente gestito: l’aumento della vita media causerà l’incremento di condizioni patologiche che richiederanno cure a lungo termine e determineranno un’impennata del numero di persone non autosufficienti, esposte al rischio di solitudine e di emarginazione sociale;  crescerà inesorabilmente anche la spesa per la cura e l’assistenza a lungo termine degli anziani e  quella previdenziale, mentre diminuirà la forza produttiva del Paese e non ci saranno abbastanza giovani per prendersi cura degli anziani.

Assidai in prima linea sulla LTC – Long Term Care

Sono tutte dinamiche più volte evidenziate da Assidai che, sulla copertura LTC (cioè l’insieme dei servizi socio-sanitari forniti con continuità a persone che necessitano di assistenza permanente a causa di disabilità fisica o psichica) ha spesso giocato d’anticipo. Nel 2015, infatti, aveva impresso una prima svolta estendendo la copertura anche al coniuge o al convivente more uxorio dell’iscritto, mentre l’anno scorso ha introdotto novità molto positive e rilevanti sia per gli iscritti under 65 (allargata la copertura a tutto il nucleo familiare dell’iscritto con aumento del 30% della rendita in caso di presenza di un figlio minore e fino alla sua maggiore età, e raddoppio della rendita in presenza di un figlio già non autosufficiente) sia per gli iscritti over 65 (con il pacchetto garantito arricchito di ulteriori prestazioni).

Italia fanalino di coda UE sulla non autosufficienza

Secondo i più recenti dati Eurostat, l’Italia naviga nelle retrovie a livello europeo per le cure a lungo termine che, nel solo 2016, hanno assorbito 15 miliardi di euro, dei quali ben 3,5 miliardi pagati di tasca propria dalle famiglie. Il nostro Paese riserva alla LTC il 10% della spesa sanitaria, fanalino di coda tra i big europei: Svezia e Olanda guidano la classifica con il 26,3% e il 24,8%, la Germania è al 16,3%, l’Austria sfiora il 15% e la Francia è al 12%. “Nei prossimi 50 anni – ha concluso nel corso degli Stati Generali Tito Boeri, presidente dell’INPS – le generazioni più a rischio di non autosufficienza passeranno da un quinto a un terzo della popolazione. Non è pensabile rispondere a una domanda crescente di assistenza basandosi sul contributo delle famiglie”. È per questo che, oltre al Servizio Sanitario Nazionale, anche la sanità integrativa deve fare la propria parte (ed essere messa nelle condizioni di farlo), per rendere sostenibile la gestione dell’invecchiamento della popolazione a livello sociale, finanziario e “umano”.

I danni del fumo nella Global Adult Tobacco Survey dell’OMS

Il 40% della popolazione è esposta al fumo passivo in luoghi pubblici, il 29% è un fumatore attivo, mentre solo il 6% ha provato a smettere negli ultimi 12 mesi (con un 8% che è intenzionato a farlo a breve). E ancora: meno di un quarto degli adulti in Cina è consapevole che la sigaretta causa l’infarto e il cancro al polmone e sia in India che in Indonesia oltre il 50% della popolazione non è conscio della correlazione tra fumo e ictus. Sono questi i principali risultati del Global Adult Tobacco Survey, uno studio condotto in 22 Paesi in via di sviluppo per complessivi 3 miliardi di persone e realizzato, tra gli altri, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ,dalla Cdc Foundation (finanziata dalla Bloomberg Philanthropies e dalla Bill & Melinda Gates Foundation). Tra gli Stati esaminati, oltre a quelli già citati, spiccano Brasile, Messico, Argentina, Nigeria, Etiopia, Russia, Indonesia, Grecia, Polonia, Turchia e Ucraina.

Un’indagine di ampio respiro, basata su interviste a oltre 380 mila famiglie, che ha evidenziato come il livello di consapevolezza dei danni causati dalle sigarette non sia ancora ai livelli sperati. Fumare e respirare il fumo passivo – sottolinea l’OMS – causa 7,1 milioni di morti l’anno, di cui, quasi la metà, circa 3 milioni, sono legate alle patologie cardiovascolari (compresi ictus e infarto), che a loro volta sono tra i primi fattori delle malattie non trasmissibili. Proprio questo è il rischio più subdolo del fumo: molte persone associano la sigaretta ai tumori e alle malattie polmonari e molte meno a ictus e malattie cerebrali, che invece – a dirlo sono i numeri – sono i principali “killer” a livello globale.

Gli obiettivi dell’OMS sul fumo ancora lontani

Nel 2000 l’OMS si era posta un obiettivo molto chiaro e ambizioso: ridurre del 30% entro il 2025 i fumatori adulti, cioè da 15 anni in su. Oggi centrarlo sembra difficile visto che, nel 2016, fumava il 20% della popolazione mondiale contro il 27% di inizio Millennio: oltre metà dei Paesi membri ha ridotto il numero di fumatori in questo lasso di tempo, ma solo uno su otto riuscirà a rispettare i target. Oltre l’80% dei fumatori vive in Paesi a medio e basso reddito, che sono anche quelli in cui il loro numero cala più lentamente con la Cina leader (oltre 307 milioni di tabagisti) seguita dall’India. Uno Stato su quattro, inoltre, non possiede neppure gli strumenti necessari per monitorare i consumi di tabacco dei propri abitanti.

Il fumo in Italia nell’indagine Doxa

A livello globale, oggi, ci sono 1,1 miliardi di fumatori adulti e almeno 367 milioni di consumatori di tabacco (senza fumo). Il numero di fumatori nel mondo è sostanzialmente invariato: era di 1,1 miliardi anche nel 2000. Un dato da attribuire alla crescita della popolazione, anche se i tassi di prevalenza diminuiscono. E l’Italia? In base alle indagini realizzate dalla Doxa, per l’Istituto Superiore di Sanità dal 28,9% del 2001 nel 2017 ci siamo attestati poco sopra il 22% con una riduzione dunque di circa il 24%. Sarebbe una buona notizia se non fosse che – sottolineano le stesse statistiche – da ormai nove anni il trend di calo si è fermato. In tutto, in Italia, i fumatori sono 11,5 milioni: 6,9 milioni di uomini (il 27,3%) e 4,6 milioni di donne (17,2%).

Costi sociali e finanziari del fumo

Senza calcolare i costi, da esaminare a 360 gradi. Un fumatore italiano in media consuma 5mila sigarette l’anno, pari a 250 pacchetti. Calcolando un costo medio di 5,5 euro a pacchetto in un anno spende in media 1.375 euro. In trent’anni di tabagismo spende oltre 41mila euro: smettendo si darebbe, da solo, un bell’aumento di stipendio senza contare ovviamente l’aspetto sanitario in termini di prevenzione primaria, un elemento – quest’ultimo – da sempre considerato cruciale da Assidai per la tutela della salute, ma anche degli equilibri economico-finanziari del Servizio Sanitario Nazionale. I costi del tabagismo per lo Stato sono infatti altissimi, stimati in circa 6,5 miliardi di euro l’anno per curare le malattie che derivano da esso, senza considerare i disagi sociali e famigliari. A livello globale, ovviamente, i numeri sono enormi: secondo l’OMS 422 miliardi di dollari l’anno (il 5,7% delle spese sanitarie globali), che con i costi indiretti (perdita di produttività per malattia o decessi) arrivano a 1.436 miliardi di dollari, pari all’1,8% del PIL mondiale.

 

 

 

 

Prevenzione primaria e morti evitabili: Italia campione d’Europa

Il dato più lampante è il seguente: nell’Unione Europea, nel 2015, circa 570mila morti (un terzo dei decessi complessivi) sarebbero state evitabili grazie alle conoscenze mediche e tecnologiche di cui si dispone attualmente. A riportarlo è un rapporto diffuso da Eurostat nei giorni scorsi, che analizza approfonditamente la condizione sanitaria del Vecchio Continente.  La prima causa di morte evitabile? L’infarto, che colpisce un terzo delle vittime, seguito dall’ictus (con il 16%) e dal tumore al colon e al retto (12%). A rimarcare la gravità della situazione, ma anche paradossalmente i possibili margini di miglioramento della stessa, c’è il fatto che circa un terzo delle vittime registrate ha un’età inferiore ai 75 anni.

Morti evitabili: Italia leggermente meglio della media UE

E l’Italia? Ricordando che con “morte evitabile” si intende “un decesso che sarebbe potuto non avvenire in un dato momento se ci fosse stata una assistenza sanitaria adeguata in atto, dal punto di vista della tempestività o del livello tecnologico”, il nostro Paese si attesta a poco più di 52mila morti per il 2015, cioè il 32% del totale. Parliamo di una percentuale leggermente inferiore alla media UE che è il 33,1%, ma più alta di Paesi come la Francia, che è l’unica sotto il 25%,, oppure la Spagna, la Norvegia o la Svizzera. Nella classifica di Eurostat, Romania e Lettonia sono le peggiori: rispettivamente con il 49,4% e il 48,5% delle morti evitabili. Subito dopo ci sono Lituania (45,4%) e Slovacchia (44,6%), mentre i migliori, al di là della già citata Francia, sono Danimarca (27,1%), Belgio (27,5%) e Olanda (29,1%). Il nostro Paese è sì poco sopra la media europea, ma fa comunque meglio rispetto al Regno Unito, altro Stato con un sistema sanitario storicamente universalistico ed efficiente, che, a sorpresa, raggiunge un 34,2% di morti evitabili.

Italia leader nella prevenzione primaria

In realtà, il nostro Paese primeggia nell’altra classifica stilata da Eurostat, che è quella relativa alle morti “prevenibili”, che sono oltre 1 milione in Europa e comprendono, oltre alle evitabili, anche quelle legate a carenza di prevenzione primaria, cioè causate per esempio da alimentazione scorretta, fumo e abuso di alcol. Sicuramente, sostengono infatti gli esperti, è importante abbassare il preoccupante dato dei decessi “evitabili”, ma è altrettanto cruciale lavorare sulla prevenzione –un fronte sul quale Assidai è attivo da tempo, sotto vari punti di vista e linee di azione – trasmettendo ai cittadini stili di vita attenti e sani e rendendoli consapevoli che la loro salute dipende anche e soprattutto da scelte di carattere privato. Ebbene, nella classifica dei Paesi che prevengono le morti evitabili per carenza di prevenzione primaria l’Italia brilla decisamente: è al secondo posto, con 151 decessi su 100mila abitanti, dietro soltanto al Liechtenstein (123), ma decisamente davanti a tutti gli altri partner europei come Francia (184) e Germania (214); Cipro (155)  e Spagna (158) ci arrivano dietro per un’incollatura come la Svizzera (163), mentre la Gran Bretagna si attesta a quota 213, a fronte di una media europea di 216.

Cosa significa tutto ciò? Che la tanto bistrattata Italia, sul fronte del Servizio Sanitario Nazionale, offre comunque un’assistenza leggermente sopra la media del Vecchio Continente, mentre per quanto riguarda la prevenzione primaria – nonostante la crescente diffusione di alcuni trend e abitudini preoccupanti (vedi bambini e adolescenti sovrappeso) – siamo tra i primi in Europa e praticamente leader incontrastati tra i Paesi più grandi.