Alla scoperta del diritto sanitario in Italia

Quando si parla di diritto sanitario si intende un particolare ramo della giurisprudenza italiana che si occupa di tutelare e fare funzionare nel modo corretto due aspetti cruciali del nostro Paese: il diritto alla salute e il Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Sono due principi base scritti nella nostra Costituzione che, infatti, considera la salute come uno dei diritti fondamentali della persona, che lo Stato deve poter assicurare a tutti. E, al tempo stesso, rappresentano due valori chiave della filosofia di Assidai, che considera il Servizio Sanitario Nazionale un pilastro cruciale per gli equilibri del nostro Paese – grazie alle sue caratteristiche di universalità ed equità praticamente uniche al mondo – e pone al centro della propria mission la tutela della salute e l’assistenza sanitaria a 360 gradi dei propri iscritti.

Negli ultimi anni, tuttavia, la coesistenza tra diritto alla salute e sanità pubblica è diventata progressivamente più complessa a causa soprattutto della ristrettezza dei fondi a disposizione del Governo centrale. In estrema sintesi, la salute deve essere assicurata in maniera gratuita a tutti coloro che ne hanno bisogno, ma è necessario anche fare quadrare i conti dello Stato. È qui, appunto, che entrano in gioco le normative che lo Stato stesso ha dovuto predisporre per affrontare la situazione e che, in generale, hanno visto lo sviluppo del diritto sanitario.

La definizione di diritto sanitario

Nel dettaglio, il diritto sanitario si occupa anche di stabilire e fare rispettare gli aspetti organizzativi della sanità pubblica. Esistono, infatti, diversi enti con lo scopo di gestire al meglio tutte le attività connesse alla salute dei cittadini. Il Servizio Sanitario Nazionale, istituito dalla legge 833 del 1978, fornisce l’assistenza sanitaria a tutti i cittadini:

Il servizio sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio.

Si basa su cinque principi:

  1. responsabilità pubblica della tutela della salute,
  2. universalità ed equità di accesso ai servizi sanitari,
  3. globalità di copertura in base alle necessità assistenziali di ciascuno,
  4. finanziamento pubblico attraverso la fiscalità generale,
  5. “portabilità” dei diritti in tutto il territorio nazionale e reciprocità di assistenza con le altre regioni.

Il SSN è composto da diversi enti: l’organo centrale è il Ministero della Salute, esistono poi le Aziende Sanitarie Locali, le cosiddette Asl, e gli ospedali controllati dalle Regioni.

Il Governo del sistema sanitario viene esercitato in misura prevalente da Stato e Regioni, secondo la distribuzione di competenze stabilita dalla Carta costituzionale e dalle norme in materia: alla legislazione statale spetta la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; la tutela della salute rientra invece nella competenza concorrente affidata alle Regioni, che possono legiferare in materia nel rispetto dei principi fondamentali posti dalla legislazione statale.

Riassumendo, il servizio sanitario è articolato secondo diversi livelli di responsabilità e di governo. C’è il livello centrale, cioè lo Stato, che deve assicurare a tutti i cittadini il diritto alla salute mediante un forte sistema di garanzie, attraverso i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). E c’è il livello delle Regioni, che hanno la responsabilità diretta della realizzazione del governo e della spesa per il raggiungimento degli obiettivi di salute del Paese. Inoltre, le Regioni stesse hanno competenza esclusiva nella regolamentazione e organizzazione di servizi e di attività destinate alla tutela della salute e dei criteri di finanziamento delle Aziende sanitarie locali e delle aziende ospedaliere, che devono a loro volta gestire le situazioni nel loro territorio di competenza.

Inoltre, nella Costituzione italiana è scritto, all’articolo 32, che il diritto alla salute rappresenta uno dei diritti fondamentali della persona, dove per salute, si intende, il benessere psico-fisico di un individuo. In sostanza, non si tratta di prevenire o curare solamente le malattie in senso stretto: il raggio di azione è ben più allargato e fa anche riferimento al diritto a ricevere prestazioni sanitarie, a vivere in un ambiente salubre, e non ultimo alla libertà di cura, cioè alla possibilità di decidere se essere curato o meno.

Non solo: lo Stato ha anche il compito di tutelare tutti i diritti fondamentali dell’uomo, quindi anche la salute (a dirlo è l’articolo 2 della Costituzione). Da qui nasce la necessità di fornire assistenza gratuita agli indigenti, ovvero alle persone povere o con scarse possibilità economiche. Per tutti gli altri individui è prevista invece una compartecipazione alle spese sostenute dallo Stato, attraverso il pagamento del ticket.

Le ristrettezze di spesa dello Stato

Come detto, tuttavia, c’è anche la necessità da parte dello Stato di far quadrare i conti e, a volte, mettere in pratica quanto afferma la Costituzione in materia di tutela e diritto alla salute a volte non è semplice poiché ciò entra in conflitto con la sostenibilità finanziaria del sistema. Del resto, anche l’articolo 81 della nostra Carta parla chiaro: lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Tutto ciò, ogni anno, si sostanzia nella Legge di Bilancio, in cui vengono stanziati dei fondi a favore della sanità, nell’ambito di tutte le spese che deve sostenere lo Stato per garantire dei servizi ai propri cittadini. In pratica, il Governo da una parte cerca di mantenere i conti in ordine e dall’altra deve garantire tutti i diritti dei cittadini costituzionalmente protetti. Una questione decisamente delicata e complessa che, in ambito sanitario, viene appunto regolata dal cosiddetto diritto sanitario. E che, in prospettiva, potrebbe vedere i fondi sanitari integrativi giocare un ruolo cruciale, così come anticipato più volte da Assidai in un’ottica di collaborazione e complementarietà con l’obiettivo di rendere il SSN stesso sostenibile nel lungo periodo.

Welfare aziendale, la chiave per incrementare la produttività

Prima di tutti i numeri. Secondo l’OCSE – l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico che raggruppa i principali 36 Paesi industrializzati – l’Italia tra il 1995 e il 2017 ha registrato un incremento della produttività del lavoro dello 0,3% contro un aumento medio (sempre nell’OCSE) dell’1,47%.

Come colmare questo gap? Secondo gli esperti una delle leve possibili che possono essere sfruttate è sicuramente quella del welfare aziendale. Del resto, ed è questa una posizione sostenuta da diverso tempo anche da Assidai, il benessere personale e un corretto bilanciamento tra vita lavorativa e vita privata (il cosiddetto work-life balance) fanno bene ai manager e ai dipendenti in generale, perché accrescono il benessere organizzativo all’interno di un’azienda e il livello di energia e motivazione dei singoli. Secondo Assidai, il welfare aziendale deve essere dunque visto come uno strumento da mettere a disposizione dei lavoratori e, in particolare, dei propri manager, quadri e professionisti iscritti che, alla luce dei gravosi impegni lavorativi e della scarsità di tempo libero a disposizione, dimostrano sempre più di apprezzare una struttura flessibile ed efficiente, come quella del nostro Fondo di assistenza sanitaria integrativa. Da svariati studi e ricerche emerge, peraltro, come proprio l’assistenza sanitaria sia tra i benefit più richiesti a livello di welfare aziendale.

L’Italia ultima in termini di produttività aziendale

Secondo l’OCSE, l’Italia è tra i fanalini di coda dell’Europa e tra i principali Stati industrializzati quanto a produttività del lavoro. Una debolezza che, tuttavia, rappresenta al tempo stesso una grande occasione, poiché il nostro Paese ha margini di crescita e miglioramento superiori rispetto a molti altri partner europei e mondiali. Nel dettaglio, sottolinea l’Organizzazione, tra il 1995 e il 2017 l’aumento della produttività del lavoro nel nostro Paese, ossia il Prodotto Interno Lordo per ore lavorate, è stato dello 0,3%, il più basso tra le 40 economie prese in considerazione (le 36 OCSE più alcuni Paesi partner), a fronte di un aumento medio OCSE dell’1,47%. Sempre considerando questi dati, presa come base 100 la produttività degli Stati Uniti, l’Italia si ferma a 78, la Germania è al 98, la Francia al 94, mentre Irlanda e Lussemburgo si collocano a 135 e la Norvegia a 112. Non solo: tra il 2010 e il 2016 la produttività italiana è aumentata solo dello 0,14% medio annuo, dato peggiore in assoluto dopo quello della Grecia (-1,09%). Ma prima della grande crisi, tra il 2001 e il 2007, il nostro Paese è risultato l’ultimo in assoluto, con una flessione dello 0,01% annuo, unico segno meno tra la quarantina di Paesi considerati dallo studio OCSE.

Nuove misure di potenziamento del welfare aziendale

Ecco perché il welfare aziendale, in Italia, potrebbe essere uno strumento utile per alleviare il cronico problema della produttività. Al proposito, secondo indiscrezioni, in un disegno di legge di imminente presentazione potrebbero essere introdotte nuove misure che puntano a potenziare le agevolazioni per il welfare aziendale. In particolare, potrebbe essere incrementato da 3mila a 5mila euro l’importo dei premi di risultato soggetto a detassazione, a fronte di un dimezzamento dell’imposta sostitutiva dal 10 al 5%. Va ricordato che la Legge di Bilancio 2019, approvata nei mesi scorsi, non aveva previsto nuovi incentivi in materia. Incentivi che invece erano stati lanciati con la Manovra del 2017 che, così come quella del 2016, era intervenuta principalmente in due direzioni. Da una parte aveva deciso per un “allargamento” del perimetro del welfare aziendale che non concorre al calcolo dell’Irpef. Dall’altra parte aveva ampliato, nei numeri, l’area della tassazione zero per i dipendenti che scelgono di convertire i premi di risultato del settore privato di ammontare variabile in benefit compresi nell’universo del welfare aziendale stesso. In alternativa, come già previsto, i benefit saranno soggetti a un’imposta sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali regionali e comunali pari al 10 per cento.

Più nel dettaglio, il tetto massimo di reddito di lavoro dipendente che consente l’accesso alla tassazione agevolata era stato aumentato da 50mila a 80mila euro, mentre gli importi dei premi erogabili erano passati da 2 mila a 3 mila euro nella generalità dei casi e da 2.500 a 4mila euro per le aziende che coinvolgono pariteticamente i lavoratori nell’organizzazione del lavoro. Numeri che, in assenza di provvedimenti ufficiali, valgono ovviamente ancora oggi.

Il ruolo del welfare nel Pilastro Europeo dei Diritti Sociali

Fornire un nuovo quadro di riferimento per i modelli di welfare nazionali chiamati a fronteggiare le nuove sfide globali (invecchiamento demografico, digitalizzazione, globalizzazione e automazione del lavoro) ma anche uno strumento per aggiornare la legislazione europea in tema di politiche sociali e del lavoro. È questo il principale obiettivo del Pilastro Europeo dei Diritti Sociali (PEDS), una sorta di Costituzione del nuovo welfare del Terzo Millennio che stabilisce 20 principi e diritti fondamentali per sostenere il buon funzionamento e l’equità dei mercati del lavoro e dei sistemi di protezione sociale. Allo stesso tempo, nelle intenzioni dei Paesi membri, il PEDS – concepito principalmente per la zona euro ma applicabile a tutti gli Stati membri dell’Ue che desiderino aderirvi – dovrà essere bussola per un nuovo processo di convergenza verso migliori condizioni di vita e di lavoro in Europa.

Tra i principi chiave assistenza sanitaria e LTC

Va rilevato come tra i 20 principi del PEDS ce ne siano almeno due che fanno parte dei punti fermi della mission di Assidai. Il primo è quello dell’assistenza sanitaria: il nostro Fondo ritiene infatti essenziale il ruolo del Servizio Sanitario Nazionale come punto di riferimento per il Paese grazie alle sue caratteristiche, uniche al mondo, di universalità e gratuita. Al proposito, il documento ufficiale del PEDS sottoscritto congiuntamente dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione durante il vertice sociale per l’occupazione equa e la crescita, che si è tenuto il 17 novembre 2017 a Göteborg, in Svezia, recita molto chiaramente al principio numero 16:

Ogni persona ha il diritto di accedere tempestivamente a un’assistenza sanitaria preventiva e terapeutica di buona qualità e a costi accessibili.

Al punto 18 del PEDS c’è invece l’altro punto fermo di Assidai: la copertura per la non autosufficienza – Long Term Care, cioè l’assistenza degli individui non più autosufficienti.

Ogni persona ha diritto a servizi di assistenza a lungo termine di qualità e a prezzi accessibili, in particolare ai servizi di assistenza a domicilio e ai servizi locali”.

Più in generale, come detto, il Pilastro Europeo dei Diritti Sociali identifica una lista di 20 principi e diritti, suddivisi sotto tre distinte aree (qui il link al sito dell’Unione Europea): uguali opportunità, pari condizioni lavorative, protezione e inclusione sociale. Tali principi e diritti coprono sia aree dove l’UE possiede un’esplicita competenza legislativa (per esempio le pari opportunità, l’uguaglianza di genere e la sicurezza sul posto di lavoro), sia aree dove l’UE ha finora esercitato una competenza limitata (per esempio il diritto a un’abitazione dignitosa e l’assistenza ai senza fissa dimora).

I 20 principi del Pilastro Europeo dei Diritti Sociali

La proclamazione di Göteborg è arrivata dopo un lungo percorso iniziato nel settembre 2015, quando il presidente della Commissione UE, Jean Claude Junker, ha lanciato la nuova iniziativa, chiamandola appunto Pilastro Europeo dei Diritti Sociali. Proprio la Commissione ha cercato di promuoverlo negli Stati membri durante i mesi successivi, avviando anche un ampio processo di consultazione con i governi nazionali, gli stakeholders e i cittadini, con l’obiettivo di raccogliere impressioni, suggerimenti e aspettative. Sulla scorta di questa consultazione, la Commissione UE ha pubblicato una serie di documenti arrivando poi alla stesura dei 20 principi e, appunto, al “sì” di Göteborg, che rappresenta uno dei primi passi formali verso l’effettiva creazione di un Pilastro Europeo dei Diritti Sociali.

La sua effettiva implementazione e messa a regime dipenderà da molti fattori ma, se tutto andrà per il verso giusto, potrà avere un ruolo cruciale nella creazione del welfare del Terzo Millennio, in cui anche i fondi integrativi saranno chiamati a fare la loro parte per garantire gli equilibri del sistema.

Anziani di oggi e di domani: LTC, welfare e rapporto tra generazioni

Ci sono diversi modi per valutare gli effetti dell’invecchiamento della popolazione, che rappresenta indubbiamente una delle più importanti trasformazioni sociali, economiche (e con significativi riflessi finanziari) del nostro tempo. Una lettura interessante è quella che prende in considerazione il rapporto tra generazioni, sicuramente un tema cruciale, che a sua volta si distingue in due approcci:

  • il primo analizza lo “scambio” tra generazioni – il più classico è quello tra anziani e figli adulti – e le relative diseguaglianze nell’accesso a risorse di cura formali e informali.
  • Il secondo approccio, invece, prende in considerazione le condizioni degli anziani appartenenti a diverse fasce d’età.

È proprio da quest’ultima analisi che emergono, secondo alcuni esperti, considerazioni e implicazioni cruciali per le politiche economiche di un Paese e, più in particolare, per quelle che dovrebbero essere le strategie in materia di LTC Long Term Care – prestazioni per la non autosufficienza. Un settore, quest’ultimo, su cui Assidai si è sempre mossa in prima linea, garantendo ai propri iscritti (e alle loro famiglie) tre miglioramenti della copertura in pochi anni.

Un futuro meno agevole per gli anziani

In particolare, emergerebbe una frattura molto chiara tra due classi di età: gli anziani di oggi, che hanno beneficiato di livelli crescenti di benessere di welfare, e quelli di domani (gli attuali adulti), per i quali si prospetta invece un invecchiamento con risorse ridotte e accresciute disuguaglianze. In Italia, in particolare, il nodo riguarda coloro che oggi hanno 40-50 anni: quando invecchieranno che tipo di società avranno intorno a loro? E su che tipo di potenziale assistenza potranno contare, anche alla luce delle loro future condizioni sociali e finanziarie? Ebbene, quando i nati negli anni Sessanta e Settanta varcheranno la soglia dei 75 anni, lo scenario sarà diverso rispetto ad oggi: avranno una speranza di vita più lunga ma in una società che, nel frattempo, sarà fortemente invecchiata. Le attuali dinamiche demografiche – molti futuri anziani avranno solo un figlio (o anche nessuno) – porteranno a una significativa restrizione del perimetro di potenziali “caregiver”, cioè di persone che potranno prendersi cura di loro.

In sostanza, gli anziani di domani saranno diversi e potenzialmente più deboli rispetto a quelli di oggi. In assenza di mutamenti profondi delle politiche sociali o di uno sviluppo importante di previdenza e sanità integrative, i nuovi anziani potranno così contare non solo su minori risorse di cure formali, ma anche su minori risorse economiche per acquistare cure sul mercato. Questi problemi riguarderanno la generazione nata tra il 1965 e il 1974 ma – secondo gli esperti – potrebbero sfiorare anche i nati tra il 1955 e il 1964.

I baby boomers e la sfida LTC Long Term Care

Il problema, insomma, è soprattutto sul futuro: bisognerà fare i conti con le sfide poste dall’invecchiamento dei cosiddetti baby boomer, cioè coloro che sono nati nel Secondo Dopoguerra (e fino a metà anni 60) e hanno contribuito alla fortissima ripresa economica dei Paesi occidentali nel secolo scorso.

In futuro, la sostenibilità economica dei sistemi di welfare chiamati a gestire questo passaggio generazionale rischia di andare in crisi sia per le caratteristiche demografiche (la numerosità e la presenza di molti grandi anziani) sia per quelle sociali (la minor ampiezza e disponibilità di reti informali di sostegno). Tutto ciò rischia così di avere importanti ripercussioni sia sul versante economico e finanziario, sia sull’organizzazione dei servizi. In questo contesto, la gestione della copertura LTC – attraverso il rilancio del secondo pilastro – assume un ruolo ancora più centrale, vista anche l’ingente mole di spesa out of pocket e l’enorme esercito di caregiver famigliari che già oggi si dedicano nel supporto dei propri cari non più autosufficienti.

L’esplosione dei centenari

C’è poi un ulteriore scenario, che meriterebbe di essere analizzato più ampiamente, che riguarda i bambini nati nell’ultimo decennio. Ebbene, costoro – secondo le ultime proiezioni demografiche – sono destinati a vivere ancora più a lungo: uno su due, in Italia come nei principali Paesi occidentali, avrebbe infatti buone possibilità di raggiungere 100 anni. Un’età inimmaginabile fino a qualche decennio fa, se non per poche eccezioni, che tuttavia implica profonde riflessioni non soltanto in ambito sociale, sanitario e previdenziale ma anche a livello politico, culturale e aziendale. A fronte di questo scenario, una scelta di investimento a lungo termine su un fondo sanitario integrativo destinato a erogare prestazioni nella terza età, che sarà ben più lunga rispetto ad oggi, diventa una componente imprescindibile per gli equilibri di un Paese.

Assidai e le politiche LTC Long Term Care  prestazioni per la non autosufficienza

Abbiamo parlato più volte delle politiche adottate da Assidai in termini di Long Term Care e Non autosufficienza. Assidai sin dal 2015 si spende per offrire ai propri iscritti una serie di vantaggi in termini di LTC. Inizialmente estendendo la copertura anche al coniuge o al convivente more uxorio dell’iscritto e poi ampliando ulteriormente la copertura dal 2017 per gli iscritti under 65, la cui copertura è ampliata a tutto il nucleo familiare dell’iscritto con aumento del 30% della rendita in caso di presenza di un figlio minore e fino alla sua maggiore età, e raddoppio della rendita in presenza di un figlio già non autosufficiente, e per gli iscritti over 65.

Nel 2019 è arrivata la svolta ulteriore: per gli iscritti sotto i 65 anni di età in caso di prestazioni per la non autosufficienza dedicate al caponucleo, il coniuge/convivente more uxorio e i figli risultanti dallo stato di famiglia fino al 26° anno di età, la rendita vitalizia aumenta; per gli iscritti con più di 65 anni di età per il caponucleo iscritto e il coniuge/convivente more uxorio è stata prevista l’estensione dell’assistenza infermieristica domiciliare. Per approfondire si può consultare Assidai: vantaggi LTC dal 2019.

Ricordiamo che da recenti studi è emerso che l’Italia è uno dei fanalini di coda europei in termini di Long Term Care. Nel 2030 in Italia potrebbe esserci 5 milioni di anziani, una percentuale dei quali sarà non autosufficiente. Con l’attuale gestione della spesa sanitaria (solo il 10% va in LTC) le famiglie potrebbero trovarsi fortemente in crisi, dovendosi sobbarcare quasi totalmente la gestione dell’invecchiamento della popolazione. Motivo per cui Assidai ha deciso di migliorare le tutele LTC per la terza volta in soli 5 anni, focalizzandosi sull’importanza che questa tematica ha per tutte le famiglie in generale e per quelle dei suoi iscritti in particolare.

La squadra di Assidai alla Maratona di Roma 2019

Generare un forte senso di appartenenza, sentirsi parte di una squadra aumentando la conoscenza tra gli individui, scaricare le tensioni accumulate sul luogo di lavoro e favorire il benessere fisico. Sono questi i quattro principali obiettivi che si è posto il Trofeo RunCorporate, tenutosi all’interno della Maratona di Roma lo scorso 7 aprile e al quale ha partecipato, con grande entusiasmo e partecipazione, anche Assidai. Del resto, i valori legati a questa iniziativa – cioè l’esercizio fisico come fattore di benessere e di prevenzione, il ruolo chiave del welfare aziendale come strumento per generare valore dentro e fuori l’impresa, e la solidarietà – rappresentano alcuni dei punti fermi del nostro Fondo e della sua filosofia d’azione sul mercato e nei confronti dei suoi iscritti.

Il trofeo RunCorporate 2019 e la solidarietà

Come funzionava l’iniziativa RunCorporate? In modo molto semplice: in un’ottica di team building e di rafforzamento aziendale proponeva, all’interno della Maratona di Roma, lo sviluppo di un Trofeo a sè stante su un tracciato di 5 km esclusivamente dedicato alle aziende. Aspetto cruciale è che partecipando alla gara, le imprese e i dipendenti hanno contribuito fattivamente alla raccolta fondi attraverso tutte le Onlus inserite nel Charity Program di Roma Marathon. Ogni pettorale acquistato sono stati devoluti 3 euro e ogni azienda ha potuto scegliere personalmente e liberamente la Onlus, tra quelle previste dal programma, a cui devolvere la somma derivante dai pettorali acquistati. Due i premi previsti: uno per l’azienda con il maggior numero di dipendenti iscritti e l’altro per quella con più donne partecipanti al Trofeo.

Non si è trattato dunque di una gara con una spiccata accezione competitiva, ma piuttosto di un’occasione finalizzata a costruire, attraverso la conoscenza delle dinamiche del running, una più solida coscienza di sè e dei propri obiettivi, oltre che dei colleghi con cui si lavora fianco al fianco tutti i giorni. Il tutto in un’ottica di work-life balance, cioè una cultura di conciliazione tra lavoro e vita privata finalizzata ad accrescere i livelli di soddisfazione delle persone con impatti significativi anche sulla produttività aziendale. È la filosofia che muove tutte le iniziative di welfare aziendale, strumento che si sta diffondendo sempre più in Italia grazie anche gli incentivi del Governo e la cui validità è sostenuta da Assidai.

La corsa medico-paziente che ha commosso tutti

Peraltro, quest’anno, la Maratona di Roma è stata anche teatro di una bellissima storia – raccontata dai quotidiani – che ha visto protagonisti un cardiochirurgo, Luca Di Marco di 44 anni, e il suo paziente, Massimiliano Ponzo, di 46 anni, che il 22 febbraio 2018 (ormai più di un anno fa) era in condizioni critiche prima di ricevere un nuovo cuore da un ragazzo parlemitano di 33 anni, mancato quel giorno e del quale la famiglia aveva deciso di donare gli organi. Ebbene, domenica scorsa, Massimiliano e Luca si sono ritrovati uno sottobraccio all’altro a tagliare il traguardo della stracittadina nell’ambito della Maratona di Roma. Il tutto è avvenuto grazie a un’iniziativa – su un percorso ridotto di 5 km dai Fori Imperiali al Circo Massimo – lanciata dalla fondazione “Cuore Domani” con l’obiettivo di raccogliere fondi per la ricerca sulle malattie cardiovascolari. Per Di Marco, “è stata una gioia immensa vedere che, ad un anno dal trapianto, un tuo paziente può correre e va anche più forte di te”. “Marco è ormai il mio angelo custode: non solo per quello che ha fatto in sala operatoria ma per come mi è stato accanto prima e dopo il trapianto, sempre a farmi coraggio e darmi speranza”, ha sottolineato invece Massimiliano.

Il suo è stato un calvario lungo e doloroso: un uomo di sport al quale, a 38 anni, è stata diagnosticata una cardiomiopatia dilatativa. “Due anni dopo muore mia madre della stessa malattia. A quel punto facciamo un’indagine genetica e scopriamo che tutti i parenti per parte di madre sono morti per la stessa patologia tra i 40 e i 55 anni. La mia vita era segnata. Da quel momento è stata una discesa agli inferi fatta di ricoveri e arresti cardiaci”, ha raccontato lui. L’unica speranza: il trapianto atteso per anni. Fino a febbraio dello scorso anno, quando il cerchio si è chiuso e per Massimiliano è iniziata una nuova vita.

Welfare familiare, big dell’industria

La sua dimensione è superiore a quella dell’industria assicurativa (139,5 miliardi di euro di raccolta) e del settore alimentare (137 miliardi di fatturato); vale una volta e mezza l’universo della moda (95,7 miliardi) e ben tre volte e mezzo quello del mobile (41,5 miliardi). Stiamo parlando dell’universo del welfare familiare italiano, a cui Mbs (il principale gruppo italiano indipendente di business consulting), ha appena dedicato un Rapporto ad hoc.

La conclusione è chiara: si tratta di un settore che fa da locomotiva per l’intero Paese, caratterizzato da una dimensione complessiva di 143,4 miliardi (+6,9% sul 2017), pari all’8,3% del Prodotto interno lordo italiano. Un numero decisamente rilevante che dovrebbe indurre a riflessioni sul presente ma soprattutto sul futuro, alla luce di quelle che potrebbero essere le politiche di sostegno a quest’area, in particolar modo per quanto riguarda il welfare aziendale, che già negli anni scorsi ha vissuto un importante sviluppo grazie agli incentivi messi in campo dal Governo.

L’industria del welfare, sottolineano gli autori del Rapporto, è in pieno sviluppo ed è destinata a crescere nel medio e lungo termine, poiché risponde a una domanda generata dal cambiamento sociale e dalle dinamiche demografiche del Paese.

 La sanità prima voce di spesa per le famiglie italiane

Nel dettaglio, il Rapporto ha mappato un ecosistema in cui agiscono dieci soggetti chiave: Stato e Regioni, rappresentanze e associazioni di categoria, fondi pensione e fondazioni, fondi e casse, servizi finanziari e assicurativi, aziende erogatrici, terzo settore, comunità e reti sociali, servizi professionali, facilitatori gestionali. Per ognuno è stato tracciato il contributo attuale e quello potenziale alla costruzione di un sistema nazionale di offerta del welfare che soddisfi la domanda delle famiglie.

In ogni caso, quello che balza subito all’occhio dall’analisi effettuata da Mbs Consulting è come l’industria del welfare familiare sia un settore trainante per il sistema Paese. Qualche numero? La spesa per il welfare assorbe il 18,6% del reddito netto delle famiglie: a fronte di un reddito annuo medio rilevato di 30.134 euro, le uscite per il welfare sono pari a 5.611 euro per nucleo familiare. La sanità è l’area di spesa più̀ rilevante: 37,7 miliardi nel 2018 e una spesa familiare media di 1.476 euro. Allo stesso tempo, la sanità rappresenta anche il segmento con una dinamica di crescita più marcata: +11,9%.

Stiamo parlando della cosiddetta spesa out of pocket, ovvero quella non coperta dal Servizio Sanitario Nazionale – che pure ha uno degli approcci più universalistici al mondo – né da fondi integrativi. La dimensione significativa della spesa privata, che va a erodere direttamente i redditi delle famiglie (e in taluni casi spinge addirittura alla rinuncia alle cure, un aspetto analizzato dallo studio di cui parleremo più avanti), spinge a riflettere sull’assoluta necessità, nel nostro Paese, di una maggiore intermediazione della spesa sanitaria: un concetto più volte rimarcato da Assidai.

Welfare familiare e spesa per LTC

Per dare una scorsa alle altre principali voci del welfare familiare, si scopre che le spese per il lavoro – trasporti e pasti – sono la seconda area con 31,9 miliardi (+2,2%) mentre l’assistenza agli anziani e alle persone bisognose è la terza area per dimensione: 27,9 miliardi, con un aumento del 10,3% a fronte di una spesa individuale di 13.300 euro per famiglia, con forte divario fra Nord (14.863 euro) e Sud (9.657 euro).

In quest’ultima voce di spesa ricade anche la Long Term Care, cioè le cure e l’assistenza necessarie per le persone non autosufficienti, altro settore su cui Assidai è da sempre molto attiva nelle opportunità e coperture offerte ai propri iscritti e ai rispettivi famigliari. Infine, un’altra area di spesa in forte crescita è l’istruzione: 10,5 miliardi, in incremento del 9,4%. Nel 2018 ogni famiglia italiana ci ha investito in media 5.611 euro: dai 3.206 euro per le famiglie più deboli ai 13.030 euro per quelle agiate.

La rinuncia al welfare, dall’assistenza alla sanità

Infine, un capitolo doloroso. Gli attuali squilibri della struttura del welfare familiare italiano determinano significativi fenomeni di rinuncia alle prestazioni da parte delle famiglie meno abbienti. Il settore più critico è quello dell’assistenza agli anziani e ai non autosufficienti, con un tasso medio del 48%. La rinuncia a cure sanitarie è mediamente del 40,8% e sale al 61,5% per le fasce più deboli, con un 17% di rinuncia rilevante che colpisce particolarmente le visite mediche e le cure odontoiatriche. Inoltre, il 36,7% delle famiglie con figli a scuola o nell’università rinunciano a spese per l’istruzione: per il 15% si tratta purtroppo di scelte che hanno un’incidenza negativa sul percorso formativo.

Differenze e analogie tra salute e sanità

Sanità e salute, talvolta, vengono utilizzate nel gergo comune come sinonimo mentre, benché legate l’una con l’altra, sono due concetti ben distinti con differenze significative. La principale? La salute esiste per definizione da quando c’è l’uomo proprio perché insita nel concetto di umanità. La nascita della sanità, intesa come sistema sanitario organizzato e diffuso sul territorio, è avvenuta a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, dunque da poco più di un secolo.

Il concetto di salute e la sua evoluzione

Più nel dettaglio, secondo lo statuto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), redatto nel 1948, la salute è “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza di malattia”. Il concetto, col tempo, si è ovviamente evoluto: oggi per salute si intendono generalmente le condizioni della popolazione di un Paese o di una comunità in un dato anno. Per questo, essa viene misurata con l’aspettativa di vita (in cui l’Italia per esempio è seconda soltanto alla Spagna in tutto il mondo) e le sue principali determinanti sono lo stile di vita, le condizioni socio-economiche, il genoma, la cultura, l’ambiente e i servizi sanitari. In buona sostanza, a conferma di quanto più volte sottolineato da Assidai, è l’attitudine degli individui nei confronti della prevenzione, primaria e secondaria, a determinare in maniera significativa l’incidenza delle malattie, anche se ovviamente c’è una componente di imponderabile che non può essere controllata.

Come si definisce la sanità

Che cosa si intende invece per sanità? Anche in questo caso è utile partire da una definizione più datata ma certamente autorevole. Secondo Charles-Edward Amory Winslow, celebre accademico americano dell’MIT di Boston e poi fondatore nel 1915 a Yale del dipartimento di Sanità Pubblica, quest’ultima è la scienza e l’arte di prevenire le malattie, prolungare la vita e promuovere salute fisica e mentale ed efficienza. Ciò avviene, afferma Winslow in uno scritto del 1920,

“attraverso sforzi organizzati della comunità per migliorare le condizioni igieniche dell’ambiente, controllare le infezioni ed educare l’individuo ai principi dell’igiene personale, organizzare il servizio medico e infermieristico per la diagnosi precoce e il trattamento preventivo delle malattie, sviluppare organizzazioni sociali che assicurino ad ogni individuo della comunità uno standard di vita adeguato per il mantenimento della salute”.

Leggendo questi concetti e considerata la loro attualità è immediato intuire la profondità di pensiero dello stesso Winslow. In generale oggi per sanità si intende l’insieme delle regole e delle risorse umane, strutturali e tecnologiche dedicate alla tutela della salute.

Essa viene misurata con tre parametri:

  • la dimensione, personale, numero di strutture, etc;
  • il funzionamento, per esempio il tasso di ospedalizzazione;
  • la spesa, pro-capite e in percentuale sul PIL.

È facile intuire come in tutti i Paesi industrializzati la sanità sia uno dei settori più estesi e complessi poiché assorbe grossi capitali, coinvolge milioni di persone (tra operatori, pazienti e tutti gli altri stakholder che girano intorno al mondo della sanità stessa) ed è influenzato da fattori culturali e morali.

I vari modelli di sanità nel mondo

Chiaramente sanità e salute sono tra loro legate a doppio filo ed è questo il motivo, forse, per il quale a volte vengono confuse l’una con l’altra: meglio funziona la sanità, più alta sarà la qualità della salute di una popolazione.

Negli ultimi anni, questa relazione è stata messa alla prova da diversi fattori strutturali, in particolare due: le ristrettezze di bilancio a livello di Stato centrale (è un ragionamento che vale per l’Italia) e soprattutto il graduale e costante invecchiamento della popolazione, che amplia inevitabilmente il bacino di coloro che abbisognano di cure. A fronte di questo trend, in Italia, gli esperti evidenziano la necessità di un supporto da parte dei fondi sanitari integrativi (come Assidai) alla Sanità pubblica, affinché quest’ultima preservi quelle prerogative di equità e universalità che la rendono praticamente unica al mondo.

Sistema Sanitario e Servizio Sanitario Nazionale

A tal proposito è utile evidenziare le differenze tra altri due concetti e cioè tra Sistema Sanitario e Servizio Sanitario Nazionale. Il primo è l’insieme degli elementi che costituiscono e caratterizzano l’organizzazione sanitaria di un Paese (indipendentemente dal modello adottato). Il secondo, invece, è un particolare modello sanitario in cui lo Stato si occupa (integralmente o in parte) di gestire e regolamentare gli aspetti della sanità. È il caso, per esempio, di Italia, Spagna e Regno Unito.

Più in generale, nella sanità ci sono due tipi di modelli: quello solidaristico (più diffuso in Europa) e quello individualistico (spesso identificato con gli Stati Uniti). In quest’ultimo ogni cittadino è libero di scegliere a quale struttura sanitaria rivolgersi in caso di necessità e secondo le proprie risorse economiche. Nel modello solidaristico, invece, ciascun cittadino è chiamato a pagare una tassa allo Stato, indipendentemente dalla frequenza e dall’entità delle prestazioni che riceve, e gli viene garantita un’assistenza sanitaria pubblica che, solo in taluni casi, coincide con il Servizio Sanitario Nazionale.

Italiani: a 75 anni ne dimostrano 65

L’Italia si conferma non solo come uno dei Paesi più in salute del pianeta, ma anche come uno dei luoghi in cui si invecchia meglio. A dirlo è uno studio pubblicato da “The Lancet Public Health”, che evidenzia in linea generale un concetto molto chiaro: nel mondo l’invecchiamento e il peggioramento delle condizioni di salute non viaggiano alla stessa velocità. Anzi, in taluni Paesi dietro un’età anagrafica avanzata c’è uno stato di salute tipico di una persona più giovane e, ovviamente, in altri Stati può accadere l’esatto contrario. Per esempio, i disturbi legati all’età tipici di un individuo di 65 anni in Giappone e Svizzera arrivano in media a 76 anni e in Papua Nuova Guinea (ultimo in questa speciale classifica) si manifestano già a 46 anni, con una forbice di ben 30 anni rispetto ai Paesi più “sani”.

Il valore della prevenzione contro l’invecchiamento precoce

Qual è il significato di questi numeri?

Rappresentano un pericolo ma anche un’opportunità per i futuri Governi e per le prossime classi dirigenti che dovranno disegnare il futuro del sistema sanitario, poiché gli effetti negativi dell’invecchiamento possono giocare un ruolo determinate.

sottolinea Angela Chang, esperta del Center for Health Trends and Forecast all’Università di Washington, commentando lo studio. Non solo, aggiunge l’esperta, i problemi di salute legati all’età possono portare a pensionamenti anticipati, a una contrazione della forza lavoro complessiva e a una spesa sanitaria più elevata. Tutti temi più volte sollevati anche da Assidai: una prevenzione primaria efficace, in primis con l’adozione di stili di vita sani e di un’alimentazione equilibrata, e una prevenzione secondaria altrettanto puntuale, con screening medici puntuali nel tempo, consentono invece di evitare l’insorgere di malattie croniche e, al tempo stesso, di avvicinarci alla terza età nel modo ideale, vivendo gli anni più delicati della nostra esistenza in buone condizioni di salute.

Scendendo nel dettaglio dell’analisi pubblicata da “The Lancet Public Health” si scopre in ogni caso che il nostro Paese è decisamente ben posizionato: a quasi 75 anni lo stato di salute di un italiano medio è “più giovane” di circa dieci anni. In parole povere, a 75 anni ne dimostriamo 65: merito delle nostre abitudini di vita e anche della dieta mediterranea, che ogni anno riceve riconoscimenti internazionali per gli effetti benefici sulla salute.

Al primo posto della speciale classifica ci sono giapponesi e svizzeri: in questi Paesi, infatti, gli anziani sono a lungo in buona salute e il carico di patologie del “65enne medio” si riscontra in un individuo di 76,1 anni, seguono Francia e Singapore con 76 anni, il Kuwait con 75,3, la Corea del Sud e la Spagna con 75,1 anni; in ottava posizione si trova l’Italia con 74,8 anni. Fuori dai primi dieci gli Stati Uniti, con un livello più vicino all’età anagrafica: 68,5 anni. Agli ultimi posti, invece, oltre alla Papua New Guinea (con 45,6 anni), ci sono Afghanistan (51,6), Guinea-Bissau (54,5) e Lesotho (53,6).

I veri killer? Le malattie croniche

Un altro risultato di rilievo dello studio è un trend che emerge in modo netto: nel 2017 le popolazioni di 108 Paesi oggetto di analisi (più della metà del campione) hanno evidenziato una precoce manifestazione dei problemi di salute legati all’invecchiamento, mentre in 87 Stati è stata più rallentata. Inoltre le patologie associate a più decessi e a più anni di vita persi per mortalità e disabilità erano tre:  attacchi ischemici, emorragie cerebrali e la broncopneumopatia cronico-ostruttiva. Insieme ai tumori sono le malattie croniche per eccellenza, i principali killer a livello mondiale – a dirlo sono i numeri dell’OMS – che vanno “disarmati” o perlomeno depotenziati attraverso la prevenzione primaria e secondaria. A quest’ultima, per esempio, appartiene l’ultima campagna di prevenzione, totalmente gratuita per gli iscritti, promossa da Assidai lo scorso giugno contro l’ictus attraverso il pacchetto Healthy Manager, che permetteva di effettuare l’esame ecocolordoppler dei tronchi sovraortici per rilevare eventuali stenosi carotidee.

La spesa per le prestazioni sociali in Italia: i dati del 2017

Quanto pesa in Italia la spesa per prestazioni sociali, cioè pensioni, assistenza e sanità? La risposta a questa domanda è cruciale per capire gli equilibri attuali e soprattutto futuri del nostro Paese e di riflesso, per intuire, quale ruolo possono giocare i fondi sanitari integrativi in questo scenario.

Ebbene, secondo il sesto Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano, curato del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e diffuso di recente, il peso della spesa per “welfare” in senso lato è pari al 54,01% di tutta la spesa pubblica italiana (comprensiva degli interessi sul debito). In altre parole, lo Stato spende un euro su due del proprio bilancio per coprire pensioni, assistenza e sanità. Non solo: l’incidenza rispetto al PIL, considerando anche altre funzioni sociali e le spese di funzionamento degli enti che gestiscono il welfare, sfiora il 30%, uno dei valori più alti in Europa a 27 Paesi. Tradotto in numeri: nel 2017 la spesa pubblica totale è stata di 839,5 miliardi di cui 453,5 miliardi per il welfare.

Per quanto tempo sarà ancora sostenibile questo trend? Difficile prevederlo, ma una cosa è certa: le crescenti ristrettezze di spesa a livello centrale e il graduale invecchiamento della popolazione sono due dinamiche che chiamano direttamente in causa quello che viene definito “il secondo pilastro” – che comprende anche i fondi sanitari integrativi come Assidai – per fornire un sostegno cruciale al welfare pubblico, di cui fa parte il Servizio Sanitario Nazionale, che secondo la visione di Assidai deve attuarsi sempre in un’ottica di complementarietà e non di sostituzione.

Insostenibile la spesa assistenziale italiana

Analizzando nel dettaglio il rapporto realizzato da Itinerari Previdenziali, si scopre che, benché in leggera crescita, le spese pensionistiche e sanitarie sono sotto controllo ormai da anni, mentre risulta sempre più insostenibile il costo delle attività assistenziali a carico della fiscalità generale, arrivato a 110,15 miliardi di euro nel 2017. In particolare, lo sviluppo della spesa sanitaria dal 2013 al 2017 (quando ha raggiunto la quota di 113 miliardi) ha visto “un incremento modesto (3,7%) a fronte di un rapido invecchiamento della popolazione che incide su questa spesa”, evidenzia il rapporto.

Per quanto riguarda la spesa pensionistica, cioè la principale componente della “gamba” previdenziale del welfare, al netto dell’assistenza ha fatto registrare dal 2013 un aumento medio pari allo 0,88%, attestandosi nel 2017 a circa 220 miliardi di euro. Ciò significa – sottolinea lo studio – che la dinamica della spesa per le pensioni è sotto controllo e le riforme hanno colto l’obiettivo di stabilizzarla. Ciò detto, il vero nodo per la sostenibilità del welfare italiano si scopre essere rappresentato dalle attività assistenziali, il cui costo (a carico della fiscalità generale) è arrivato nel 2017 a 110,15 miliardi (107,374 nel 2016, 103,673 nel 2015, 98,44 nel 2014, 93,2 nel 2013 e 83,5 del 2012). In 6 anni il tasso di crescita dei trasferimenti e quindi delle spese per assistenza (+26,65 miliardi) è stato pari al 5,32%: un incremento superiore al tasso d’inflazione e al PIL e sicuramente da sorvegliare con grande attenzione.

La spesa sanitaria privata e Long Term Care (LTC)

Molto interessante, nel rapporto di Itinerari Previdenziali, anche un focus specifico sul sistema di welfare complementare, inteso come accesso a prestazioni sanitarie, di assistenza e di previdenza appunto complementari. Il dato è pari a quasi 70 miliardi ed è in sensibile crescita rispetto all’anno precedente (62 miliardi di euro nel 2016, con un +12%), un incremento dettato anche dal cambiamento dei metodi di contabilizzazione di alcuni dati. In ogni caso la voce più consistente di spesa è ancora quella della spesa sanitaria out of pocket: 35,9 miliardi che, aggiungendo il valore della spesa per sanità intermediata, raggiunge e supera la soglia dei 40 miliardi di euro. Vale a dire un terzo del totale della spesa sostenuta dal sistema pubblico per offrire cure mediante il Servizio Sanitario Nazionale.

Risulta in crescita, inoltre, anche la voce di spesa per la copertura della non autosufficienza, la cosiddetta Long Term Care (LTC). Per calcolarla sono state sommate le poste relative alla spesa per assistenza domiciliare pari a 18,9 miliardi di euro e per assistenza residenziale (per la quota parte a carico dei singoli e delle famiglie) pari a circa 4,2 miliardi di euro, più 90 milioni di euro per la raccolta del ramo assicurativo IV vita per LTC e dread disease. Il tutto per un totale di 23,1 miliardi circa. A questi è stato sottratto il totale degli assegni di accompagnamento riconosciuti dallo Stato italiano pari, per il 2017, a 12,4 miliardi: si ottiene così un valore finale di circa 10,7 miliardi.

Una somma rilevante, che ricade direttamente sui bilanci delle famiglie e che conferma la validità dell’impegno di Assidai sul fronte della non autosufficienza – Long Term Care (LTC), migliorando per la terza volta in cinque anni le prestazioni. In particolare, per il caponucleo iscritto al nostro Fondo sanitario e il coniuge o convivente more uxorio, aventi un’età non superiore a 65 anni e i figli fino a 26 anni, è stata aumentata la rendita vitalizia con importi maggiorati in caso di figlio minorenne o disabile. Se invece l’evento che determina lo stato di non autosufficienza avviene dopo il 65° anno di età, per il caponucleo iscritto ad Assidai e/o il relativo coniuge o convivente more uxorio, è stata prevista l’estensione per un ulteriore mese dell’assistenza infermieristica domiciliare.

Aumentano le malattie croniche in Italia

Le malattie croniche o non trasmissibili sono il principale killer mondiale. Cancro, patologie dell’apparato cardiocircolatorio, diabete e malattie respiratorie – secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) – in futuro richiederanno circa il 70-80% delle risorse sanitarie a livello mondiale. Ogni anno, queste patologie uccidono 41 milioni di persone, rappresentando il 71% di tutti i decessi a livello globale (in Europa si arriva all’86%); 15 milioni di morti, peraltro, si verificano tra i 30 e i 70 anni. Per questo l’OMS ha messo a punto un piano di azione per ridurre su scala globale del 30% entro il 2030 l’incidenza delle malattie non trasmissibili. E sempre per questo motivo l’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane – che ha sede a Roma presso l’Università Cattolica – ha realizzato un approfondito studio sull’impatto delle cronicità nel nostro Paese, i cui dati, decisamente interessanti, approfondiremo più avanti.

Del resto, il tema è anche legato alla sostenibilità economica della sanità e dei conti pubblici, visto che in futuro – proprio per la crescente diffusione delle malattie croniche – la spesa sanitaria rischia di crescere in molti Paesi più del PIL. Per interrompere questa dinamica, che assomiglia molto a un corto circuito, è essenziale agire in tre direzioni.

Innanzitutto, far leva sulla prevenzione primaria, cioè l’adozione di stili di vita sani e di tutti gli esami che possano permettere di prevenire l’insorgere delle cronicità in età adulta. Aspetto fondamentale per Assidai, che propone importanti campagne di prevenzione dedicate agli iscritti al fondo sanitario e totalmente gratuite.

In secondo luogo, bisogna mettere a punto nuove strategie e metodi di cura, focalizzandosi su temi che diverranno di sempre maggiore attualità con l’invecchiamento della popolazione: per esempio la non autosufficienza, un fronte su cui invece l’impegno di Assidai è massimo, tanto da avere migliorato per tre volte in cinque anni la copertura per la non autosufficienza – Long Term Care (LTC) -offerta ai propri iscritti manager, quadri e consulenti.

Infine, c’è il ruolo dei fondi sanitari integrativi – come Assidai – che possono giocare un ruolo cruciale in un’ottica di complementarietà e sostegno al Servizio Sanitario Nazionale a maggior ragione nel momento in cui una persona si trova ad affrontare queste malattie.

Italia: più malattie corniche e più spese

In Italia la situazione è in costante evoluzione, purtroppo negativa. A dirlo sono gli ultimi dati dell’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane, secondo il quale le malattie croniche l’anno scorso hanno interessato quasi il 40% della popolazione del nostro Paese, cioè 24 milioni di persone, delle quali 12,5 milioni hanno multi-cronicità. Le prospettive sono ancora più preoccupanti: tra 10 anni, cioè nel 2028, il numero di malati cronici salirà a 25 milioni, mentre i multi-cronici saranno 14 milioni.

La patologia più frequente è l’ipertensione, con quasi 12 milioni di persone affette nel 2028, mentre l’artrosi/artrite interesserà 11 milioni di italiani; per entrambe le patologie ci si attende 1 milione di malati in più rispetto al 2017. Tra 10 anni le persone colpite da osteoporosi, invece, saranno 5,3 milioni (500 mila in più) e quelle colpite da diabete e malattie cardiache rispettivamente 3,6 milioni e 2,7 milioni.

Tutto questo, ovviamente, si riflette anche a livello economico sulla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale. Attualmente si stima che in Italia si spendano complessivamente circa 66,7 miliardi di euro per curare le cronicità ma stando alle proiezioni effettuati sulla base degli scenari demografici futuri elaborati dall’Istat – l’Italia è destinata a diventare il Paese più vecchio del mondo dopo il Giappone – nel 2028 l’esborso complessivo arriverà a 70,7 miliardi di euro.

Istruzione e area geografica

A dimostrazione che sulle cronicità si può agire e incidere c’è il fatto che, stando ai dati sull’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane, sulla loro diffusione pesano il genere, le differenze socio-economiche e culturali e il territorio in cui si nasce o si vive.

Le donne – soprattutto perché mediamente vivono più a lungo – sono le più colpite (il 42,6% a fronte del 37% degli uomini), e quando si guarda alla multicronicità il divario aumenta: il 25% delle donne contro il 17,0% degli uomini. Le persone con il livello di istruzione più basso soffrono inoltre molto più frequentemente di patologie croniche, rispetto al resto della popolazione, con un divario crescente all’aumentare del titolo di studio conseguito. Nel 2017, nella classe di età 45-64 anni (quella in cui insorge la maggior parte della cronicità), le persone con la licenza elementare o nessun titolo di studio con almeno una patologia cronica era pari al 56%, scendeva al 46,1% tra coloro che hanno un diploma e al 41,3% tra quelli che possiedono almeno una laurea.

Infine, il tema geografico: la prevalenza più elevata di almeno una malattia cronica si registra in Liguria con il 45,1% della popolazione mentre in Calabria c’è la quota più elevata di malati di diabete, ipertensione e disturbi nervosi, rispettivamente con 8,2%, 20,9% e 7% della popolazione. Il Molise spicca invece per la prevalenza maggiore di malati di cuore, il 5,6% della popolazione, la Liguria per la significativa presenza di malati di artrosi/artriti, il 22,6%, e la Sardegna per la quota maggiore di malati di osteoporosi, il 10,4%, infine la Basilicata si distingue per la prevalenza più alta di malati di ulcera gastrica o duodenale e bronchite cronica, rispettivamente 4,5% e 7,7%. La zona con la più bassa incidenza di patologie croniche è la Provincia Autonoma di Bolzano.

Tutto ciò a dimostrazione che con la prevenzione, l’educazione a stili di vita corretti e il senso di responsabilità si può frenare anche la diffusione a macchia d’olio delle malattie croniche in Italia migliorando, al contempo, le prospettive di sostenibilità nel lungo termine del Servizio Sanitario Nazionale.