Employer Branding, carta vincente delle aziende

Si definisce “Employer Branding” quell’insieme di valori, peculiarità e qualità, spesso intangibili, che definisce l’identità di un’azienda o di un’organizzazione come luogo di lavoro, evidenziandone le caratteristiche distintive rispetto ai competitor. Un must – ormai – per HR manager, responsabili recruiting e head hunter visto che il loro obiettivo è rendere l’azienda interessante e accattivante a 360 gradi sia per i potenziali candidati, sia per i dipendenti, sia per i clienti. Certo, poi, un luogo di lavoro ottimale diventa anche uno strumento per trattenere i talenti.

I primi a darne una definizione furono Tim Ambler e Simon Barrow nel 1996, i quali descrissero l’Employer Branding come “il pacchetto di benefici funzionali, economici e psicologici forniti dall’impiego e identificati con l’organizzazione”.

Secondo una ricerca realizzata da Boston Consulting Group, implementando un valido Employer Branding si può ridurre il tasso di rotazione dei dipendenti fino al 28%, cosa che ovviamente comporta un notevole risparmio (fino al 50%) in termini di costi per l’assunzione di nuove risorse. Secondo LinkedIn, inoltre, il 75% dei potenziali candidati effettua ricerche sulla reputazione dell’azienda prima di presentarsi per una posizione, e quasi il 70% dei candidati stessi non accetterebbe un’offerta da un datore di lavoro con una cattiva reputazione.

Le leve dell’Employer Branding

Alla luce di questi dati è evidente quanto sia cruciale l’implementazione di un Employer Branding efficace per una società, per un ente o per un’organizzazione. Esso è la sintesi di due filoni aziendali, ovvero il brand e le risorse umane. Dalla loro integrazione deve nascere una visione tale da poter trattenere le risorse in organico, impedendo che passino alla concorrenza, e allo stesso tempo attrarre nuovi potenziali candidati. Lavorare per un’azienda diventa così una sorta di esperienza unica, a elevato valore aggiunto, che si connota per un forte senso di appartenenza.

Su quali fattori bisogna agire per creare tutto ciò? Sul tema ovviamente non mancano le idee e gli studi ma in generale gli esperti concordano sul fatto che sono tre le leve su cui agire: la retention (cioè la capacità di trattenere legati all’azienda i dipendenti o i clienti), l’attrattività aziendale e il coinvolgimento del personale.

Per farlo l’azienda stessa deve mettere a fuoco e comunicare i suoi punti di forza ma anche capire quali sono gli effettivi bisogni dei propri dipendenti per individuare eventuali discrasie. Cruciale, in questo senso, è guardare sempre al futuro, anticipando le esigenze o le necessità che possono nascere. E in questo caso il perimetro delle possibilità offerte dal welfare aziendale, che si dimostra parente stretto dell’Employer Branding, è potenzialmente molto vasto.

Qualche esempio? Se una società realizza che attraverso lo smart working riesce a ottenere una migliore organizzazione del lavoro e ad aumentare il benessere dei propri dipendenti, si attrezza per mettere loro a disposizione questa modalità lavorativa, che in alcuni casi permette di conciliare maggiormente le incombenze professionali e quelle personali senza perdere in produttività ed efficienza. Oppure: si possono offrire ai dipendenti la mensa gratuita, contributi per l’educazione dei figli (pagamento di retta scolastica o acquisto di libri), l’asilo nido o campus estivi per i figli, la possibilità di svolgere in azienda alcuni controlli medici o screening periodici, la palestra o il beauty center. Ecco, dunque, solo alcuni esempi di quello che un’azienda può mettere a disposizione di manager o dipendenti sia per aumentare il loro grado di soddisfazione sul lavoro, sia per caratterizzarsi sul mercato, contribuendo a creare un Employer Branding, e attrarre così nuovi talenti.

Assidai, i suoi valori e l’importanza per le aziende

Se dovessimo definire l’Employer Branding di Assidai dovremmo in primis riferirci alle caratteristiche uniche e distintive che contraddistinguono il Fondo. È, infatti, un Ente senza scopo di lucro dedicato a dirigenti, quadri, alle alte professionalità e alle loro famiglie con alcune peculiarità: non ha limiti di età, di accesso e di permanenza, non opera la selezione del rischio, non può recedere dall’iscrizione e quindi tutela gli assistiti per tutta la durata della loro vita. Nato 30 anni fa su iniziativa di Federmanager, oggi Assidai conta una base di oltre 50.000 nuclei familiari e 120.000 persone assistite. È il punto di riferimento per più di 1.500 aziende che hanno scelto di sottoscrivere un Piano Sanitario per i propri dirigenti, quadri, dipendenti e consulenti.

Il Fondo ha una missione chiara – nato per garantire il benessere, la sicurezza, la tranquillità e la salute dei manager, dei quadri e delle alte professionalità – punta a creare valore sociale. Per farlo segue valori cardine che hanno rappresentato e rappresenteranno sempre il faro della sua attività. Tra questi ci sono sicuramente la tutela, la salute e l’assistenza ma anche un sistema di gestione certificato secondo la norma UNI EN ISO 9001:2015 e il welfare, visto che Assidai costruisce ad hoc con le aziende piani di copertura sanitaria per i manager, quadri, consulenti e dipendenti, che percepiscono l’assistenza sanitaria come un benefit sempre più prezioso nell’ampio portafoglio del welfare aziendale. E in questo l’offerta di Assidai può contribuire a rafforzare, a sua volta, l’Employer Branding delle aziende che decidono di appoggiarsi al Fondo per fornire ai propri manager (e alle loro famiglie) pacchetti di copertura sanitaria tagliati su misura.

Ma Assidai è anche integrità, trasparenza (certifica annualmente, su base volontaria, il proprio bilancio e si è dotato di un Codice Etico e di Comportamento, oltre a essere regolarmente iscritto all’Anagrafe dei fondi sanitari istituita dal Ministero della Salute alla fine del 2009), professionalità, innovazione e trasparenza.

Un mix di valori che fanno di Assidai una realtà quasi unica in Italia e che rappresentano la spina dorsale di un Employer Branding che proietta il Fondo tra le realtà più dinamiche del settore, a vantaggio degli iscritti e delle aziende che hanno deciso di scegliere Assidai per prendersi cura della propria salute e di quella dei propri cari.

“Codice del diritto della persona di minore età alla salute e ai servizi sanitari”

Tutelare, da un punto di vista etico, i diritti dei minori ospedalizzati o che necessitano di assistenza socio-sanitaria a domicilio.

È questo il principale obiettivo del “Codice del diritto della persona di minore età alla salute e ai servizi sanitari” elaborato da un gruppo di lavoro costituito dai Garanti regionali e delle Province autonome e presentato a inizio ottobre 2020. In sostanza, si è trattato di un significativo passo in avanti che ha tratto ispirazione dalla “Carta dei diritti dei minori in ospedale” (adottata nel 2001 e a sua volta ispirata ai principi della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989) alla luce del cambiamento dello scenario e delle criticità emerse negli ultimi anni, anche se lo spirito resta lo stesso: porre precisi obblighi sul funzionamento del sistema sanitario per le persone di minore età.

Nuove sfide per la tutela dei minori

Del resto – è l’opinione degli esperti – l’evolversi della società pone sfide sempre nuove per tutelare i diritti dei bambini e dei ragazzi. Dunque, è necessario che gli strumenti posti a loro tutela siano capaci di interpretare i nuovi tempi e proporre soluzioni innovative. A partire, per esempio, da un richiamo all’attenzione per le fasce più vulnerabili della popolazione minorile che vive in Italia, tra le quali i minorenni stranieri non accompagnati, rifugiati e appartenenti a minoranze. In quest’ottica rafforzare i già esistenti strumenti di garanzia per un accesso ai servizi sanitari senza discriminazione alcuna, contribuisce a rafforzare il concetto stabilito dall’articolo 32 della Costituzione (il diritto alla salute) e in ogni caso a innalzare ulteriormente l’elevato profilo di equità e universalità che distingue il nostro Servizio Sanitario Nazionale (SSN) nel mondo.

Lo spirito del nuovo Codice

In generale, il nuovo Codice ha come principio superiore l’interesse della persona di minore età, valutato per ogni singolo caso e si pone come obiettivo la tutela di vari diritti e principi. A partire, per esempio, da quello di non discriminazione (razza, genere, orientamento sessuale, religione e altro). Stabilisce inoltre che debbano essere garantite assistenza globale continuata, favorendo percorsi che prevedano la deospedalizzazione, e l’accesso alle cure per le malattie croniche e disabilità. Ci sono poi il diritto all’informazione e parere del minore sul percorso di cura, per consentire un consenso consapevole tramite i genitori; la protezione da ogni forma di violenza fisica e mentale; il rispetto della privacy; la proposta di un ambiente ospedaliero con spazi esclusivamente dedicati ai minori; il diritto al gioco e alla ricreazione, per poter godere di tempi di riposo e divertimento; il diritto all’istruzione, per mantenere lo sviluppo creativo anche in situazioni di degenza; oltre al diritto di preservare la propria identità, nazionalità, tradizioni, valori culturali e relazioni familiari. Insomma, un ampio spettro di diritti dei minori su cui i Garanti effettueranno una sorveglianza adeguata, svolgendo indagini o ispezioni per assicurare il rispetto di tutto quanto viene previsto dal “Codice del diritto della persona di minore età alla salute e ai servizi sanitari”.

Va anche ricordato che alcuni di questi valori quali salute, assistenza, integrità, trasparenza e riservatezza rappresentano anche i principi fondanti dell’operato di Assidai, che tutela gli iscritti e tutto il loro nucleo familiare, assistendo i figli fino a 26 anni. Il nostro Fondo di assistenza sanitaria, inoltre, ha adottato un Codice Etico e di Comportamento per evidenziare l’insieme dei valori di cui si fa portatore e le linee guida che devono ispirare l’operato di coloro che agiscono per conto di Assidai e cui devono attenersi nel perseguimento degli scopi istituzionali.

Sintesi degli articoli del Codice

Vediamo infine una sintesi dettagliata dei 23 articoli che compongono il nuovo “Codice del diritto della persona di minore età alla salute e ai servizi sanitari” in modo da capirne la portata e la sua evoluzione rispetto alla Carta del 2001.

  • Superiore interesse della persona di minore età, che deve essere considerato e valutato in relazione al caso singolo e non in astratto.
  • Diritto alla salute, che deve esaminare tutte le dimensioni della salute stessa, ovvero fisica, psichica, sociale, culturale e spirituale come peraltro stabilito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Ciò comprende anche una adeguata informativa sui corretti stili di vita.
  • Principio di non discriminazione, che sia fondata su razza, colore, genere, opinione politica, orientamento sessuale, lingua, religione, opinione politica, etnia o eventuale disabilità.
  • Assistenza globale e continuata, attraverso una rete organizzativa che integri strutture sanitarie e professionali diverse.
  • Malattie croniche e disabilità, per cui i minori hanno diritto a un completo accesso alle cure e ai servizi.
  • Diritto all’informazione e parere della persona di minore età in merito al percorso di cura riguardo sia gli accertamenti diagnostici sia le indicazioni terapeutiche sia le conseguenze della loro mancata esecuzione.
  • Protezione da ogni forma di violenza fisica e mentale, contro la quale le strutture sanitarie dovranno adottare apposite procedure.
  • Trattamento sanitario obbligatorio, che deve avvenire con modalità dignitose e meno invasive possibili, comunque compatibili con le necessità e condizioni di salute del minore.
  • Continuità relazionale con i membri della famiglia in ogni fase dei percorsi di assistenza e cura senza nessuna esclusione.
  • Privacy, che va tutelata da tutte le persone che si prendono cura del minore con rispetto del suo pudore fin da quando egli inizia ad averne percezione.
  • Ambiente ospedaliero: i minori hanno diritto di essere ricoverati in reparti pediatrici separati da quelli degli adulti e possibilmente aggregati per fasce di età.
  • Gioco e ricreazione, che dovranno essere garantiti in ogni struttura sanitaria con tempi e modalità adeguati all’età e alla condizione dei minori.
  • Istruzione, a cui il minore ha diritto anche in stato di degenza con i genitori, considerati partner responsabili e attivi.
  • Diritto del minore della persona di minore età di origine straniera o appartenente a minoranze a preservare la propria identità, nazionalità, tradizione, valori culturali e relazioni familiari.
  • I Garanti Nazionali e Regionali adotteranno misure adeguate per assicurarsi che tutte le persone di minore età ricevano assistenza sanitaria rispettosa del Codice appena approvato.

 

Welfare aziendale, soluzione voucher per le PMI

La forte espansione del welfare aziendale è ormai un dato di fatto. Assidai, come Fondo di assistenza sanitaria integrativa, approfondisce costantemente questa tematica e tutti gli aggiornamenti introdotti proprio perché offre a manager, quadri e consulenti uno dei benefit maggiormente apprezzati in ambito aziendale, appunto l’assistenza sanitaria. Secondo le ultime ricerche, più di un’impresa su due in Italia ha adottato il welfare sia per i vantaggi fiscali offerti da questo strumento sia perché sono evidenti i benefici in termini di produttività dei dipendenti e di coinvolgimento degli stessi nella mission aziendale. Tuttavia, in particolare per le imprese di piccole e medie dimensioni, non è semplice gestire in autonomia l’erogazione dei beni e dei servizi compresi nel piano di welfare, per esempio realizzando all’interno della propria struttura un asilo nido o una palestra. Ecco perché, soprattutto per le PMI o per le microimprese, risulta più pratico stipulare convenzioni con strutture esterne che si occuperanno poi di erogare i servizi al dipendente. Servizi che possono essere dei più svariati: dall’assistenza sanitaria (come si diceva sopra) all’istruzione, dall’assistenza per bambini e anziani alla formazione, dai trasporti alla previdenza, dal tempo libero al benessere per arrivare allo sport e allo shopping. Di questo ampio insieme non fanno parte i buoni pasto, che hanno una regolamentazione a parte. Infine, è importante ribadire il concetto chiave del cuneo fiscale: 100 euro investiti in welfare aziendale corrispondono a una spesa di 100 euro netti per l’azienda e a 100 euro spendibili per il dipendente.

Che cosa sono i voucher per il welfare aziendale

Ma andiamo con ordine: all’interno della macro-categoria dei compensi in natura (fringe benefits) che rivestono quella parte di retribuzione che non è corrisposta dal datore di lavoro in busta paga bensì attraverso l’erogazione di beni e servizi, vi sono i voucher welfare, che sono stati introdotti in Italia con la Legge di Bilancio 2016, che ha introdotto una serie di incentivi poi rafforzati negli anni successivi per rendere centrale il welfare aziendale nel nostro Paese. Nel dettaglio si tratta di buoni cartacei o elettronici che vanno considerati come veri e propri titoli di credito personali, cioè utilizzabili soltanto dal titolare. Essi sono da considerarsi come accessori alla retribuzione ordinaria: danno diritto al dipendente di ottenere beni e servizi di vario tipo presso i fornitori convenzionati con l’impresa e possono essere erogati anche in sostituzione dei premi di produttività. A stabilire tutto ciò è l’articolo 3 bis dell’articolo 51 del TUIR (Testo Unico sulle Imposte sul Reddito). Che cosa significa? Che i voucher welfare mantengono le stesse agevolazioni fiscali dei beni e servizi di welfare: dunque non concorrono a formare il reddito da lavoro dipendente e sono esenti da tassazione fino alla soglia di 258,23 euro.

Il raddoppio del tetto per il 2020

Sul tetto di spesa va fatta una precisazione cruciale: solo per quest’anno, vista anche la situazione economica e sociale legata alla pandemia di Covid-19, il Governo ha deciso di raddoppiare tale soglia fino a 516,46 euro. Una decisione arrivata con il Decreto Legge di Agosto: l’articolo chiave è il 112, comma 1, che ha introdotto il raddoppio del limite di esenzione per il welfare aziendale modificando quanto previsto dall’articolo 51, comma 3 del TUIR. Ecco l’indicazione precisa:

“Limitatamente al periodo d’imposta 2020, l’importo del valore dei beni ceduti e dei servizi prestati dall’azienda ai lavoratori dipendenti che non concorre alla formazione del reddito ai sensi dell’articolo 51, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, è elevato ad euro 516,46.”

Come vanno usati i voucher

Riprendendo l’analisi del welfare tramite i voucher, va evidenziato che l’articolo 6 del TUIR stabilisce delle caratteristiche vincolanti che è bene elencare:

  • non possono essere ceduti in quanto nominativi;
  • possono essere utilizzati solo dal titolare o dai familiari fino al primo grado di parentela;
  • non possono essere convertiti in denaro;
  • danno diritto all’erogazione di un bene o un servizio per il loro intero valore nominale e non possono essere integrati dal titolare fatte salve alcune eccezioni.

In realtà, l’articolo 6 precisa anche che è possibile derogare all’obbligo di utilizzare il voucher per un solo bene o servizio. Ciò può accadere nel caso si ricada nella fattispecie del “carrello della spesa” o di “paniere” previsto dal piano di welfare aziendale. Il tetto, ovviamente, è sempre fissato a 258,23 euro (solo per quest’anno è raddoppiato).

L’ISTAT e l’equilibrio casa-lavoro

Per concludere è utile riportare l’ultimo studio in materia da parte dell’ISTAT che certifica una crescente consapevolezza da parte delle imprese riguardo l’importanza del welfare aziendale e in più in generale dell’equilibrio casa-lavoro e della responsabilità sociale. Si tratta del “Censimento permanente delle imprese”, uno strumento di rilevazione che si propone di fornire un quadro puntuale della situazione delle aziende italiane sul fronte economico e non solo. Il documento, in particolare, si è concentrato su un aspetto: ha verificato quante imprese applicassero azioni volontarie per il benessere dei propri collaboratori. Il risultato? Circa il 53,4% delle aziende con almeno tre dipendenti ha adottato almeno una misura per il sostegno alla genitorialità e alla conciliazione vita-lavoro. Nel dettaglio, il 20,5% delle realtà ha attivato forme di comunicazione interna per informare i lavoratori sui diritti legati alla genitorialità e previsti dall’attuale normativa e il 25,5% ha previsto congedi extra rispetto a quelli previsti dalla normativa in caso di nascita di un figlio. Ancora: il 22,5% ha messo a punto permessi specifici per l’inserimento di figli al nido o alla scuola dell’infanzia. Infine, il 47,3% delle realtà imprenditoriali ha attivato interventi per rendere maggiormente flessibile l’orario di lavoro. Numeri che certificano la crescente diffusione nel tessuto produttivo italiano di una nuova filosofia, imperniata su un patto dipendente-impresa proficuo per entrambi.

Servizio Sanitario Nazionale, verso investimenti record nel 2020-2021

Universalità, uguaglianza ed equità. Sono questi principi cardine del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) italiano, che proprio l’anno scorso ha compiuto 40 anni e, ancora oggi, spicca in Europa e nel mondo per la sua caratteristica di universalità. Del resto, esso si basa sull’articolo 32 della Costituzione, che è stata la prima nel Vecchio Continente a mettere nero su bianco il diritto alla salute e all’articolo citato recita:

“la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.

Piuttosto, nell’ultimo decennio il Servizio Sanitario Nazionale ha inevitabilmente sofferto, a livello di investimenti, a causa di due fattori difficilmente modificabili, quanto meno nel breve periodo: il graduale invecchiamento della popolazione, che porta un aumento delle cronicità e dunque della spesa pubblica, e le crescenti ristrettezze di bilancio a livello di Stato centrale.

Al tempo stesso, tuttavia, va sottolineato che è compito delle Regioni far fruttare a meglio il budget messo a disposizione proprio dallo Stato. È la stessa Costituzione, infatti, a stabilire una complessa distribuzione di competenze in tema di salute in base al cosiddetto principio di sussidiarietà. Da un lato, alla legislazione statale spetta la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; d’altro lato la tutela della salute rientra nella competenza concorrente affidata alle Regioni, che possono legiferare in materia nel rispetto dei principi fondamentali posti dalla legislazione statale nonché dei livelli essenziali come individuati da quest’ultima. Più nello specifico le Regioni hanno la responsabilità diretta della realizzazione del governo e della spesa per il raggiungimento degli obiettivi di salute del Paese, nonché la competenza esclusiva nella regolamentazione ed organizzazione di servizi e di attività destinate alla tutela della salute e dei criteri di finanziamento delle Asl e degli ospedali.

Negli ultimi mesi, in ogni caso, anche a fronte dell’emergenza sanitaria causata dal virus Covid-19 (Coronavirus), si è compreso strategicamente quanto sia rilevante per il nostro Paese un decisivo cambio di marcia e sono stati stabiliti nuovi investimenti: nel solo 2020 sono stati investiti 6,845 miliardi di euro in più, un incremento superiore alla somma degli aumenti dei cinque anni precedenti. E nei prossimi mesi un’ulteriore spinta potrebbe arrivare anche dai fondi del Recovery Fund (750 miliardi a livello europeo, di cui oltre 200 destinati all’Italia), di cui una fetta significativa potrebbe essere indirizzata proprio sulla sanità, come ha ricordato lo stesso Ministro della Salute Roberto Speranza.

Spesa sanitaria corrente: Italia sotto la media UE

Un recente rapporto di Eurostat è utile per capire il contesto internazionale. Per quanto riguarda la spesa sanitaria corrente, la Francia spicca con una percentuale pari all’ 11,5% in rapporto al prodotto interno lordo. A seguire ci sono Germania con l’11,1% e Svezia con l’11%. In coda alla classifica, invece, ben 12 Stati membri sono sotto il 7,5% con la Romania fanalino di coda che registra il rapporto più basso pari al 5%. L’Italia si posiziona all’8,9% a fronte di una media UE pari al 9,9% del Prodotto Interno Lordo (PIL). Inoltre, nell’Unione Europea a 28 Paesi, i Governi hanno finanziato in media il 36,7% delle spese sanitarie mentre i regimi obbligatori di assicurazione sanitaria contributiva e i conti di risparmio medico sono arrivati al 42,7%. Proprio nei finanziamenti pubblici il nostro Paese spicca con il 74,4%: ci precedono soltanto i “giganti” del welfare scandinavi come la Danimarca (84,1%), la Svezia (83,4%) e la Norvegia (74,3%), oltre alla Gran Bretagna (79,4%). Il rovescio della medaglia nel nostro Paese? La spesa “out of pocket”, cioè quella privata, che in Italia raggiunge il 22% contro il 15,7% della media UE a 28 (esclusa Malta) mentre la Francia si attesa al 9,8% e la Germania si attesta al 12,7% (la Spagna invece fa peggio con il 23,8%).

Dove saranno destinatigli investimenti del SSN

Di fronte a questi dati è evidente l’importanza dell’incremento degli investimenti approvato quest’anno. Tra i 2 miliardi legati al Fondo Sanitario 2020 (fondo di 2 miliardi che la Legge di Bilancio dell’anno scorso ha destinato alla sanità a valere sul 2020), i 185 milioni per l’abolizione del superticket, i 1,41 miliardi del decreto di marzo e soprattutto i 3,25 miliardi del “Decreto Rilancia Italia” si sfiorano i 7 miliardi. Giusto per dare un’idea, negli anni precedenti si era arrivati al massimo a 1,575 miliardi (nel 2017) e nel 2015 gli investimenti erano addirittura calati. “Rilancio Italia” è stato indubbiamente il provvedimento più significativo e più completo visto che ha messo in campo una cifra rilevante ed è arrivato a valle del lockdown con il Governo che ha deciso per un ulteriore aumento delle risorse a favore della sanità pubblica, anche in vista di ulteriori ed eventuali emergenze.

I suoi fondi sono stati destinati infatti a rafforzare la rete territoriale, puntando su infermieri e servizi domiciliari alle persone fragili, facendo passare l’Italia – proprio in quest’ultimo settore – dal 4% della platea di assistiti al 6,7%, cioè lo 0,7% in più della media OCSE. Verrà potenziata anche la rete ospedaliera (in particolare sul fronte della terapia intensiva), si punterà su nuove assunzioni, su incentivi a medici, infermieri e a tutto il personale sanitario, oltre che su ulteriori borse di studio. La perfetta sintesi dello spirito del Decreto è nelle parole del Ministro della Salute Roberto Speranza: “Il Servizio Sanitario Nazionale è una pietra preziosa e investire su questa pietra preziosa serve a rendere il nostro Paese più forte”.

Il futuro della sanità pubblica e dell’assistenza sanitaria

Proprio alla luce di questi ulteriori investimenti, che testimoniano la volontà di puntare ulteriormente su un Servizio Sanitario Nazionale equo, universalistico ma anche di qualità, non bisogna perdere di vista le criticità legate alla gestione futura della sanità pubblica e le sfide che dovrà affrontare, a partire dall’invecchiamento della popolazione e dall’inevitabile aumento delle cronicità. Uno strumento a nostra disposizione è sicuramente quella della prevenzione ma, allo stesso tempo, anche il supporto in termini di complementarità, offerto da fondi come Assidai, può rappresentare un valido strumento per evitare ai cittadini eventuali difficoltà finanziarie qualora costretti a ricorrere a prestazioni non coperte dal Servizio Sanitario Nazionale.

Ricordiamo che Assidai è un Fondo di assistenza sanitaria integrativa che ha natura giuridica di ente non profit. Nato su iniziativa di Federmanager, è attivo da 30 anni e offre i propri servizi a manager, quadri e alte professionalità. Oggi conta una base di oltre 120.000 persone assistite ed è punto di riferimento per più di 1.500 aziende che hanno scelto di sottoscrivere un Piano Sanitario Assidai. L’assenza di selezione del rischio e l’impossibilità di recesso dall’iscrizione da parte del Fondo, garantiscono la tutela degli aderenti durante l’intero arco della loro vita. Assidai ha certificato il proprio sistema di gestione secondo la norma UNI EN ISO 9001:2015, è iscritto all’Anagrafe dei fondi sanitari presso il Ministero della Salute, certifica annualmente su base volontaria il proprio bilancio e si è dotato di un Codice Etico e di Comportamento.

Welfare aziendale, raddoppia l’esenzione dei “fringe benefit”

In un anno difficile, sotto tutti i punti di vista, per il nostro Paese e per la congiuntura globale, si aggiunge comunque un piccolo tassello positivo al mosaico del welfare aziendale in Italia. Ciò grazie al recente Decreto Agosto (Decreto-legge del 14 agosto 2020, n. 104), che tra i vari provvedimenti ha portato il limite per la detassazione di beni e servizi riconosciuti ai lavoratori dipendenti, i cosiddetti “fringe benefit”, a 516,46 euro, raddoppiando dunque la cifra rispetto ai precedenti 258,23 euro.

Una misura, si precisa, valida soltanto per il 2020 e che tuttavia rappresenta un ulteriore passo in avanti nell’espansione di un settore, quello del welfare aziendale, che negli ultimi anni ha più volte dimostrato le proprie potenzialità, in termini di soddisfazione del dipendente e di produttività dello stesso a tutto vantaggio dell’impresa.

Dal 2016, il Governo ha progressivamente messo in campo una serie di incentivi, soprattutto di carattere fiscale, per favorire la diffusione del welfare aziendale e, numeri alla mano, si può dire che i primi risultati siano ormai tangibili se si pensa che, proprio negli ultimi mesi, la porzione di imprese attive su questo fronte si è consolidata sopra la fatidica soglia del 50%. Il concetto alla base, quello di cuneo fiscale, è molto semplice: 100 euro investiti in welfare aziendale corrispondono a una spesa di 100 euro netti per l’azienda e a 100 euro spendibili per il dipendente.

Assidai e il welfare aziendale: Piani Sanitari ad hoc

Anche Assidai ritiene che il benessere personale e un corretto bilanciamento tra vita lavorativa e vita privata, il cosiddetto work-life balance fanno bene ai manager e ai dipendenti in generale, perché accrescono il benessere organizzativo generale all’interno di un’azienda e il livello di energia e motivazione dei singoli. E, di conseguenza, incrementano la produttività, l’operatività ordinaria e aiutano ad affrontare i cambiamenti organizzativi necessari per tenere il passo della competitività. Non solo: diverse indagini in materia hanno dimostrato come l’assistenza sanitaria sia tra i benefit più richiesti a livello di welfare aziendale. Per questo i Piani Sanitari Assidai riservati alle imprese sono diversi e i vantaggi sia per le aziende che per i lavoratori sono numerosi; inoltre, i decision maker possono valutare con Assidai la costruzione di Piani Sanitari ad hoc, personalizzati proprio sulla base delle caratteristiche richieste dalle aziende e dai lavoratori.

L’intervento sui fringe benefit

Approfondiamo il Decreto Agosto e vediamo nello specifico cosa prevede. L’articolo chiave è il 112, comma 1, che introduce il raddoppio del limite di esenzione per il welfare aziendale e che, modificando quanto previsto dall’articolo 51, comma 3 del TUIR, innalza la soglia di esenzione fiscale per i fringe benefit da 258,23 euro a 516,46 euro: “Limitatamente al periodo d’imposta 2020, l’importo del valore dei beni ceduti e dei servizi prestati dall’azienda ai lavoratori dipendenti che non concorre alla formazione del reddito ai sensi dell’articolo 51, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, è elevato ad euro 516,46.”

Che cosa significa in parole povere? Entro tale limite, il valore di beni ceduti e servizi erogati dalle imprese ai propri lavoratori dipendenti non concorrerà alla formazione del reddito, e sarà quindi esente da imposte e contributi. Salvo ripensamenti futuri o provvedimenti che la renderanno strutturale, questa sarà una misura una tantum (valida cioè soltanto per il 2020), ma in ogni caso si tratta di un’iniziativa apprezzabile poiché agevola la concessione di buoni spesa, buoni benzina o altre misure di welfare aziendale ai dipendenti, grazie all’incremento del limite che comporta l’obbligo di tassazione totale del valore di beni e servizi riconosciuti ai dipendenti stessi.

Fuori dal provvedimento, invece, i buoni pasto che hanno una specifica disciplina di esenzione. Al proposito va ricordato che – sempre in tema di fringe benefit – l’ultima Manovra finanziaria (che risale ormai a un anno fa) aveva introdotto alcune piccole revisioni, agendo in particolare sulle auto a uso promiscuo (cioè i veicoli aziendali) e sui buoni pasto. Per quest’ultimi era stato deciso, infatti, un aumento del limite di esenzione fiscale del ticket elettronico da 7 a 8 euro e una contestuale riduzione della deducibilità del cartaceo (da 5,29 a 4 euro). Per quanto riguarda invece le auto aziendali era stata introdotta una tassazione correlata e proporzionale ai valori di emissione di anidride carbonica. Le nuove regole sono entrate in vigore dal primo luglio 2020 e sono applicabili solo ai veicoli di nuova immatricolazione.

Le altre agevolazioni del welfare aziendale

Infine, è utile riassumere le attuali agevolazioni fiscali per il welfare aziendale e il percorso che ha portato all’attuale cornice normativa. La Legge di Bilancio 2017, come quella del 2016, era intervenuta con misure specifiche lavorando su due punti in particolare. Innanzitutto, aveva allargato il perimetro del welfare aziendale che non concorre al calcolo dell’Irpef. Aveva incluso servizi come l’educazione, l’istruzione e ulteriori benefit, sempre erogati dal datore di lavoro, per poter fruire di servizi di assistenza destinati a familiari anziani o comunque non autosufficienti. In secondo luogo, aveva allargato, nei numeri, l’area della tassazione zero per i dipendenti che scelgono di convertire i premi di risultato del settore privato di ammontare variabile in benefit compresi nell’universo del welfare aziendale. In alternativa i benefit saranno soggetti a un’imposta sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali regionali e comunali pari al 10 per cento.

Nel dettaglio, il tetto massimo di reddito di lavoro dipendente che consente l’accesso alla tassazione agevolata è di 80.000 euro, mentre gli importi dei premi erogabili sono di 3.000 euro nella generalità dei casi e di 4.000 euro per le aziende che coinvolgono pariteticamente i lavoratori nell’organizzazione del lavoro. Infine, la sanità integrativa può andare oltre il limite di deducibilità previsto dalle norme fiscali utilizzando il premio di produttività. Le Leggi di Bilancio 2019 e 2020, invece, hanno confermando di fatto le misure già introdotte negli anni precedenti sul welfare aziendale.

Al via il Piano Nazionale della Prevenzione al 2025

Lo scorso anno avevamo già introdotto il Piano Nazionale della Prevenzione 2020-2025, adottato in via definitiva nelle scorse settimane dalla Conferenza Stato-Regioni.

Fra i suoi principali obiettivi ci sono:

  • consolidare l’attenzione alla centralità della persona, tenendo conto che questa si esprime anche attraverso le azioni finalizzate a migliorare la cosiddetta “alfabetizzazione sanitaria.
  • Accrescere la capacità degli individui di interagire con il sistema sanitario attraverso relazioni basate sulla fiducia, la consapevolezza e l’agire responsabile.
  • Migliorare il mantenimento del benessere in ciascuna fase dell’esistenza.
  • Potenziare le azioni di promozione della salute e di prevenzione, e di genere, al fine di migliorare l’appropriatezza ed il sistematico orientamento all’equità degli interventi.

A tutti gli effetti il Piano Nazionale della Prevenzione 2020-2025, rappresenta lo strumento fondamentale di pianificazione centrale degli interventi di prevenzione e promozione della salute da realizzare sul territorio. Esso – sottolinea il Ministero della Salute – punta infatti

“a garantire sia la salute individuale e collettiva sia la sostenibilità del Servizio sanitario nazionale attraverso azioni quanto più possibile basate su evidenze di efficacia, equità e sostenibilità che accompagnano il cittadino in tutte le fasi della vita, nei luoghi in cui vive e lavora”.

Perché un Piano Nazionale di Prevenzione

I lavori sul Piano Nazionale di Prevenzione proseguivano da oltre un anno mentre era stata effettuata una proroga al precedente Piano 2014-2018. Stiamo parlando – è bene ricordarlo – di uno strumento fondamentale di pianificazione del Ministero della Salute, messo in campo già dal 2005: un documento di respiro strategico che a livello nazionale stabilisce gli obiettivi e gli strumenti che vengono poi adottati a livello regionale. Del resto, l’assetto istituzionale del nostro Paese in tema di tutela della salute è semplice: stabiliti i principi fondamentali da parte dello Stato, le Regioni hanno competenza non solo in materia di organizzazione dei servizi, ma anche sulla legislazione per l’attuazione dei principi stessi, sulla programmazione, sulla regolamentazione e sulla realizzazione dei differenti obiettivi. Perché serve un Piano nazionale di prevenzione? Su questo punto il Ministero della Salute è chiaro: un investimento in interventi di prevenzione costituisce una scelta vincente, capace di contribuire a garantire, nel medio e lungo periodo, la sostenibilità del Sistema Sanitario Nazionale, a maggior ragione considerate le sue caratteristiche di equità e universalità praticamente uniche al mondo.

Il ruolo cruciale della prevenzione è riconosciuto anche da Assidai, che la reputa fondamentale e ogni anno promuove campagne di prevenzione gratuite per gli iscritti al Fondo sanitario e campagne di informazione sui corretti stili di vita. Ad oggi le malattie croniche (ad esempio le cardiopatie, l’ictus, il cancro, il diabete e le malattie respiratorie croniche) sono i principali killer a livello mondiale. Non solo: ragionando anche in termini più prettamente economici, una buona prevenzione consente pure allo Stato di risparmiare le spese in termini di cure, ospedalizzazioni e assistenza nel lungo periodo che mettono a serio rischio la tenuta del sistema.

Il Piano al 2025: obiettivi e strategie

Ebbene, il nuovo Piano per la Prevenzione al 2025, anche alla luce della recente pandemia di Covid, sottolinea l’indispensabilità di una programmazione sanitaria basata su una rete coordinata e integrata tra le diverse strutture e attività presenti nel territorio, anche al fine di disporre di sistemi flessibili in grado di rispondere con tempestività ai bisogni della popolazione, sia in caso di un’emergenza infettiva, sia per garantire interventi di prevenzione (screening oncologici, vaccinazioni, individuazione dei soggetti a rischio, tutela dell’ambiente, ecc.) e affrontare le sfide della promozione della salute e della diagnosi precoce e presa in carico integrata della cronicità. Per raggiungere questo obiettivo si punta su alleanze e sinergie intersettoriali tra forze diverse e conferma l’impegno nella promozione della salute, chiamata a caratterizzare le politiche sanitarie non solo per l’obiettivo di prevenire una o un limitato numero di condizioni patologiche, ma anche per creare nella comunità e nei suoi membri un livello di competenza, resilienza e capacità di controllo che mantenga o migliori il capitale di salute e la qualità della vita.

Nel dettaglio, il piano si articola in sei Macro Obiettivi:

  1. malattie croniche non trasmissibili;
  2. dipendenze e problemi correlati;
  3. incidenti stradali e domestici;
  4. infortuni e incidenti sul lavoro, malattie professionali;
  5. ambiente, clima e salute;
  6. malattie infettive prioritarie.

Esso inoltre mira a contribuire al raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che definisce un approccio combinato agli aspetti economici, sociali e ambientali che impattano sul benessere delle persone e sullo sviluppo delle società, affrontando dunque il contrasto alle disuguaglianze di salute quale priorità trasversale a tutti gli obiettivi. Proprio la riduzione delle principali disuguaglianze sociali e geografiche rappresenta una priorità trasversale a tutti gli obiettivi del Piano: il profilo di salute ed equità della comunità – si legge nel documento finale approntato dalla Conferenza Stato-Regioni – rappresenta il punto di partenza per la condivisione con la comunità e l’identificazione di obiettivi, priorità e azioni sui quali attivare le risorse della prevenzione e al tempo stesso misurare i cambiamenti del contesto e dello stato di salute.

I prossimi passi e le mosse delle Regioni

Quali saranno ora i prossimi passi? Ogni Regione è ora chiamata ad adottare il Piano e a predisporre e approvare un proprio Piano locale (Piano Regionale della Prevenzione), entro i termini previsti dall’intesa, declinando contenuti, obiettivi, linee di azione e indicatori del Piano nazionale all’interno dei contesti regionali e locali. A sua volta il livello centrale è tenuto a mettere in campo le linee di supporto centrale al Piano nazionale, parte integrate del Piano stesso, al fine di contribuire al raggiungimento degli obiettivi garantendo la coesione del sistema. Infine, come il precedente, il Piano adotta infine un sistema di valutazione, basato su indicatori e relativi standard, che consente di misurare, nel tempo, e in coerenza con il monitoraggio dell’applicazione dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), lo stato di attuazione dei programmi, anche al fine di migliorarli in itinere, nonché il raggiungimento dei risultati di salute e di equità attesi.

 

Welfare in azienda, nasce il manager della felicità

La felicità e il benessere aziendale migliorano l’efficienza e le prospettive di crescita delle imprese, nonché la produttività dei dipendenti. Questo concetto, che solo alcuni anni fa veniva visto da taluni con una certa diffidenza, rappresenta ormai un punto fermo per le politiche di molte aziende, in particolare sul fronte del welfare, con l’obiettivo di garantire ai propri lavoratori anche un perfetto equilibrio vita-lavoro (il cosiddetto work –life balance). Non solo, negli ultimi tempi, proprio a fronte di queste considerazioni, sempre più suffragate da evidenze empiriche, sta emergendo una figura professionale ad hoc, il Chief Happiness Officer: il manager della felicità rientra tra le figure aziendali che si occupano delle risorse umane e rappresenta al tempo stesso un’evoluzione dell’HR classico poiché si occupa proprio della soddisfazione e del benessere dei dipendenti, nonché di far percepire l’azienda stessa come una organizzazione innovativa e costruttiva.

Chief Happiness Officer: da Microsoft a KPMG

A livello mondiale non mancano gli studi e gli esempi (anche legati a società molto famose) che testimoniano come il benessere organizzativo sia un’opportunità di crescita per tutti. Di recente Microsoft ha sperimentato nella sede di Tokyo la settimana lavorativa di quattro giorni su 2.300 dipendenti. Il risultato? Un aumento di produttività di circa il 40%.

I Tax Manager di KPMG, una delle prime società di consulenza e revisione al mondo, sono stati invece sottoposti a varie esercitazioni che hanno dimostrato come avere dipendenti allenati a mantenere un alto livello di felicità, riescono a trasformare la felicità stessa in abitudine, a vantaggio di sé stessi e del business.

Ancora: secondo uno studio di Gallup Healthways, società di consulenza americana che supporta manager e società nelle loro decisioni, ha rivelato come i dipendenti infelici si assentano 15 giorni all’anno in più rispetto agli altri, mentre le catene di retail, in cui i lavoratori sono soddisfatti, registrano in media profitti superiori rispetto alle altre.

Insomma: quando i dipendenti riescono ad agire in un contesto incoraggiante e positivo possono svolgere incarichi complessi con efficienza, senza accumulare tensioni e stress e ottenendo, al contempo, retribuzioni e soddisfazioni professionali superiori. Tutto ciò, ovviamente, si traduce in maggiori possibilità di crescita per l’azienda.

Cosa fa il manager della felicità

Da queste considerazioni nasce così il Chief Happiness Officer, una figura professionale che integra le competenze dell’HR con una visione più legata al business per amalgamare alla perfezione iniziative di welfare, politiche di sviluppo delle persone, stili di leadership e cultura dell’organizzazione creando un mix vincente per l’azienda. Detto in altre parole, il suo obiettivo è rendere il posto di lavoro un luogo felice, dove le persone si sentono valorizzate e motivate e le interazioni tra colleghi hanno conseguenze positive (e non negative). Così facendo, un’azienda riesce anche a trattenere i propri talenti, rendendoli più coinvolti nella mission di impresa.

Quali sono le regole a cui si deve attenere un manager della felicità per svolgere al meglio il proprio compito? Difficile dirlo. Secondo Hppy (HR & Employee Engagement News and Resources), una community statunitense delle Risorse Umane, ci sono in ogni caso otto linee guida da seguire: dare importanza ad ogni persona, trattandola con rispetto; garantire basi economiche adeguate per ciascun dipendente; consentire a ciascun lavorare di esprimere la propria voce e ascoltarlo con attenzione; assicurarsi che i valori aziendali siano conosciuti e apprezzati; consentire ai propri dipendenti di lavorare in modo libero e flessibile (smart working); sostenere la crescita delle persone; stimolare il lavoro di squadra e, infine, creare un ambiente di lavoro piacevole.

Assidai e il welfare

Anche Assidai è perfettamente consapevole che le politiche di total reward rivestono una grande importanza per una concreta attuazione del welfare all’interno delle aziende, perché i manager si aspettano che l’azienda stessa comprenda e favorisca sempre più l’equilibro tra vita lavorativa e vita privata. Allo stesso tempo, inoltre, le imprese considerano i benefit una leva di gestione e di crescita dell’individuo all’interno dei modelli di sviluppo aziendale.

In questo senso Assidai e i suoi pacchetti sanitari rappresentano un benefit esclusivo e di valore: un importante strumento a disposizione di datori di lavoro, dei responsabili delle risorse umane e degli altri decision maker aziendali per ricompensare, attrarre e trattenere talenti e collaboratori.

Il benessere individuale è la premessa per un buon clima aziendale e per il successo della propria azienda: per questo Assidai è a totale disposizione delle aziende per fidelizzare e motivare i dirigenti, i quadri, i dipendenti e i consulenti, favorendo la prevenzione e il mantenimento di un buono stato di salute per gli iscritti.

Ministero del Lavoro: il welfare aziendale cresce ancora

Oltre 56mila dichiarazioni di conformità, per l’esattezza 56.131, di cui 11.998 si riferiscono a contratti tuttora attivi: di questi 9.144 riguardano contratti aziendali e 2.854 contratti territoriali. Oppure, per vederla utilizzando un altro “filtro”: degli 11.998 contratti attivi 9.433 si propongono di raggiungere obiettivi di produttività, 7.074 di redditività, 5.524 di qualità mentre 1.436 prevedono un piano di partecipazione e 6.918 contemplano misure di welfare aziendale. L’ultimo report, datato metà luglio, diffuso dal Ministero del Lavoro, conferma la forte accelerazione del welfare aziendale, iniziata nel 2016 quando il Governo, attraverso la Legge di Bilancio, inaugurò una serie di agevolazioni fiscali potenziate o quantomeno confermate negli anni successivi (2019 e 2020).

Un trend di crescita che, a dirlo sono i numeri, non si è arrestato neppure durante gli ultimi, complessi mesi in cui l’attività economica in Italia è frenata molto, in particolare nel secondo trimestre, a causa delle restrizioni legate al Coronavirus. Lo scorso 14 gennaio, infatti, i contratti attivi erano 10.272 e a luglio, dunque, si registrata un incremento di quasi il 17%: di questi oggi quasi 7mila sono riferiti a misure di welfare aziendale contro i 5843 di gennaio.

Va ricordato che vige il regime di tassazione zero per i dipendenti che scelgono di convertire i premi di risultato del settore privato di ammontare variabile in benefit compresi nell’universo del welfare aziendale stesso (il perimetro di quest’ultimo che è stato via via esteso con ulteriori interventi legislativi allargandolo per esempio all’educazione, all’istruzione e alla copertura per la non autosufficienza – Long Term Care). In alternativa, come già previsto, i benefit saranno soggetti a un’imposta sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali regionali e comunali pari al 10 per cento.

La crescita del welfare aziendale

Il report periodico del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali aggiorna ogni mese sul deposito telematico dei contratti aziendali e territoriali che prevedono la detassazione dei premi o, in alternativa, l’erogazione di servizi di welfare aziendale. Per questo è un punto di osservazione privilegiato, che permette di tastare il polso alla dinamica di questo segmento, cui le imprese ricorrono sempre più per remunerare i propri dipendenti. Ormai, a dirlo sono tutte le principali indagini in materia, il welfare aziendale – inteso come quell’insieme di benefit e servizi forniti da un’azienda ai propri dipendenti (e talvolta anche ai loro familiari) come forma integrativa della normale retribuzione monetaria – è diffuso in oltre il 50% delle aziende: una realtà sempre più solida, dunque, che affonda le proprie radici nel Decreto Interministeriale del 25 marzo 2016. Quest’ultimo disciplina infatti l’erogazione dei premi di risultato, la partecipazione agli utili di impresa con tassazione agevolata e prevede misure di welfare aziendale. Sempre questo Decreto prevede che il deposito dei contratti aziendali e territoriali di secondo livello deve avvenire esclusivamente in modalità telematica, senza recarsi cioè presso gli Uffici Territoriali del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali in modo che le prassi delle singole imprese vengano monitorate e controllate con la dovuta attenzione.

Il report del Ministero: numeri e dettagli

Per andare più nello specifico, che cosa rivela il report del Ministero sulla diffusione del welfare aziendale? Svolgendo un’analisi per settore di attività economica si scopre come il 58% delle dichiarazioni si riferisca ai servizi, il 41% all’industria e solo l’1% all’agricoltura. Se invece ci si sofferma sulla dimensione aziendale emerge che il 52% delle aziende ha un numero di dipendenti inferiore a 50, il 33% ha un numero di dipendenti maggiore uguale di 100 e il 15% ha un numero di dipendenti compreso fra 50 e 99. Altro elemento chiave: la distribuzione geografica, che per le 11.998 dichiarazioni di conformità che si riferiscono a contratti tuttora attivi, evidenzia come, per sede legale delle imprese, il Nord si aggiudica il 78% del totale, il Centro il 15% e il Sud il 7%. In questa fattispecie il numero di lavoratori beneficiari indicato è pari a 2.777.677, di cui 2.404.707 riferiti a contratti aziendali e 372.970 a contratti territoriali. Il valore annuo medio del premio risulta pari a 1.303,06 euro, di cui 1.547,00 euro riferiti a contratti aziendali e 532,66 euro a contratti territoriali.

I benefici del welfare aziendale e l’offerta di Assidai

Qual è invece l’impatto del welfare aziendale sulle “performance” lavorative? Diversi studi confermano come all’interno delle aziende un corretto bilanciamento tra vita lavorativa e vita privata rappresenta un fattore positivo. Esso infatti aumenta il benessere organizzativo generale all’interno dell’impresa, le motivazioni dei singoli e, di conseguenza, migliora la produttività. Inoltre, dai dati emersi da numerose indagini di mercato sul tema del welfare aziendale, si scopre come l’assistenza sanitaria integrativa sia uno dei benefit maggiormente richiesti all’interno delle aziende.

In tale contesto, Assidai, Fondo di assistenza sanitaria integrativa, eroga i propri servizi in favore di manager, quadri e professionisti e delle loro famiglie mettendo loro a disposizione i migliori Piani Sanitari per le persone e utilizzando tecnologie avanzate per consentire l’accesso alla propria area riservata in assoluta sicurezza. Inoltre, il servizio di Customer Care Assidai è a completa disposizione degli iscritti dal lunedì al venerdì, dalle ore 8.00 alle ore 18.00, e risponde alle domande e richieste di supporto.

I Piani Sanitari Assidai riservati alle aziende sono diversi e i vantaggi sia per le aziende stesse che per i lavoratori sono numerosi. Inoltre, i decision maker delle aziende industriali possono valutare direttamente con Assidai la costruzione di Piani Sanitari ad hoc, personalizzabili proprio sulla base delle esigenze presentate al Fondo di assistenza sanitaria dalle aziende e dai lavoratori.

Passi d’Argento: un’indagine su salute e assistenza agli anziani

PASSI d’Argento (PDA) è un’indagine periodica nazionale coordinata dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) sulla qualità della vita, sulla salute e sulla percezione dei servizi nella terza età, ripetibile nel tempo (survey) che mira ad ottenere informazioni sui bisogni della popolazione over 65 anni e sulla qualità del sistema integrato di servizi socio-sanitari e socio-assistenziali.

Tale sorveglianza si inserisce nella pianificazione della salute prevista a livello nazionale dal Piano Sanitario Nazionale e dal Piano Nazionale della Prevenzione e, a livello regionale, dal Piano Regionale della Prevenzione.

PASSI d’Argento viene effettuato concretamente mediante interviste telefoniche o domiciliari ai cittadini di 65 anni e oltre, estratti in modo casuale dall’anagrafe sanitaria, utilizzando un questionario standardizzato messo a punto dal CNESPS (Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute) dell’Istituto Superiore di Sanità. La durata dell’intervista è di circa 20 minuti. L’indagine condotta sul territorio dai Dipartimenti di Prevenzione delle Aziende sanitarie locali ha l’obiettivo di analizzare i dati delle patologie croniche riscontrate nella popolazione residente in Italia.

Il tema, del resto, è cruciale: da una parte proprio le patologie croniche sono le principali cause di morte a livello globale; dall’altra parte, in Italia così come nei principali Paesi occidentali, è in atto un trend di graduale invecchiamento della popolazione che potrebbe presto mettere a rischio gli equilibri del nostro Servizio Sanitario Nazionale (SSN), noto in tutto il mondo per le caratteristiche di equità e universalità. Allo stesso tempo c’è un altro aspetto da sottolineare con forza e che è alla base di questa indagine: le persone over 65 anni vanno considerate una risorsa preziosa per la nostra società e possono contribuire in modo importante alla crescita del sistema paese: dunque identificare le loro potenzialità, le loro debolezze e le loro abitudini può essere di straordinario aiuto per tutto il Paese. In sostanza, con PASSI d’Argento si “misura” anche il contributo che gli anziani offrono alla società, attraverso il lavoro retribuito o fornendo sostegno all’interno del proprio contesto familiare e della comunità con attività di volontariato, ambiti nei quali sono centrali non solo la salute fisica, l’autosufficienza, ma anche il benessere psicologico e sociale della persona.

La struttura dell’indagine e il campione

Ma quali temi vengono indagati da PASSI d’Argento e in che modo? Gli ambiti d’analisi sono molteplici e consentono di disegnare il profilo della popolazione ultra65enne imperniato su tre pilastri del cosiddetto invecchiamento attivo, individuati dalla strategia “Active Ageing” dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms): salute, partecipazione e sicurezza. Vediamoli nel dettaglio:

  • Su salute e prevenzione vengono raccolte le informazioni più varie: la salute percepita, la soddisfazione per la propria vita, la qualità della vita connessa alla salute, i sintomi di depressione, la presenza di patologie croniche e l’autonomia nelle attività funzionali e strumentali della vita quotidiana, la presenza di problemi sensoriali (di vista, udito, masticazione), l’uso dei farmaci, la vaccinazione antinfluenzale e fattori di rischio comportamentali (fumo, alcol, consumo di frutta/verdura, eccesso ponderale o perdita di peso involontaria, ridotta attività fisica).
  • Nell’ambito della partecipazione, invece, vengono raccolte informazioni sullo svolgimento di attività lavorative retribuite, sul supporto fornito alla famiglia o alla collettività e sulla partecipazione a eventi sociali o a corsi di formazione.
  • Infine, sulla tutela vengono indagati aspetti inerenti all’accessibilità dei servizi socio-sanitari, alla qualità dell’ambiente di vita, alla sicurezza domestica e alla sicurezza del quartiere.

Altro tema cruciale è il campione intervistato: le analisi si basano su un campione nazionale di circa 130 mila adulti raccolto nel quadriennio 2015-2018 (PASSI) e su un campione di circa 40 mila anziani raccolto nel triennio 2016-2018 (PASSI d’Argento), a cui hanno partecipato tutte le Regioni, eccetto Lombardia e Valle d’Aosta. Sperimentato per la prima volta nel 2009 e realizzato nel 2012 come indagine trasversale, PASSI d’Argento è stato infatti avviato come indagine in continuo dal 2016, tanto da essere ormai diventato un punto di riferimento per il Paese.

I risultati di PASSI d’Argento: cronicità e policronicità

Quali sono i principali risultati dell’indagine? Un angolo di analisi interessante è quello delle cronicità e delle policronicità, con quest’ultima intesa come presenza di due o più patologie croniche fra quelle indagate in PASSI e PASSI d’Argento, cioè fra cardiopatie, ictus o ischemia cerebrale, tumori, malattie respiratorie croniche, diabete, malattie croniche del fegato e insufficienza renale.

Ebbene questi dati raggiungono livelli importanti con l’avanzare dell’età: già dopo i 65 anni e prima dei 75 anni più della metà delle persone convive con una o più patologie croniche fra quelle indagate e questa quota aumenta con l’età fino a interessare complessivamente i tre quarti degli ultra 85enni, di cui la metà è affetto da due o più patologie croniche.

Quali sono le malattie croniche più diffuse? Anche qui la prevalenza dipende fortemente dall’età: se prima dei 55 anni la più frequente riguarda l’apparato respiratorio e coinvolge mediamente il 6% degli adulti, con l’avanzare degli anni aumenta significativamente anche la frequenza di cardiopatie e di diabete, che raggiungono prevalenze intorno al 30% e al 20% verso gli 80 anni. Attorno a quest’età raggiungono il picco anche i tumori (15% circa). I casi con eventi pregressi di ictus e ischemie cerebrali, così come i casi con insufficienza renale, numericamente più contenuti, iniziano ad aumentare dopo i 70 anni, mentre la prevalenza di malattie croniche del fegato non supera mai il 5%. Attenzione poi alla pressione alta, meglio detta ipertensione arteriosa: è poco frequente prima dei 40 anni e interessa meno del 10% di questa popolazione ma dopo questa età aumenta rapidamente e arriva a coinvolgere circa il 65% degli intervistati intorno agli 80 anni di età.

In generale, il quadro che emerge da questi dati mostra un Paese longevo ma con una quota rilevante di anziani con patologie croniche e policronicità che accresce la loro vulnerabilità a eventi avversi alla salute e che diminuisce la qualità della loro vita. Su una popolazione residente in Italia di quasi 51 milioni di persone con più di 18 anni di età, si può stimare infatti che oltre 14 milioni di persone convivano con una patologia cronica, e di questi 8,4 milioni siano ultra 65enni.

I fattori di rischio e la prevenzione primaria

Infine, un breve cenno ai fattori di rischio, che determinano un incremento dell’incidenza delle malattie croniche in età adulta ma soprattutto dopo i 65 anni. Tra questi spiccano la mancanza di attività fisica (regolare e ove possibile quotidiana), sovrappeso e obesità, eccessivo consumo di alcol, abitudine al fumo e fumo passivo. Tutte “cattive abitudini” che Assidai ha spesso evidenziato nei propri approfondimenti e nelle comunicazioni agli iscritti, in cui ha altresì sottolineato l’importanza della prevenzione primaria – anche con specifiche campagne di screening totalmente gratuite per i propri iscritti – per evitare l’insorgenza e l’incidenza delle malattie croniche.

Un nuovo algoritmo contro il cancro al seno

Un nuovo algoritmo che consente di prevedere il rischio individuale di metastasi per le donne con tumore al seno e, di conseguenza, permetterà di evitare il sovra-trattamento o il sotto-trattamento nelle terapie dopo il trattamento chirurgico. La scoperta, potenzialmente una vera e propria svolta per combattere il carcinoma più diffuso del genere femminile, è stata annunciata nelle scorse settimane e ottenuta nell’ambito del Programma di Novel Diagnostics dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) di Milano con il sostegno della Fondazione AIRC. Che cosa permette questa rilevante novità? Di fatto potrebbe portare a indicare una vera e propria cura su misura per le donne con tumore al seno: il modello creato dell’IEO, secondo i ricercatori, potrebbe diventare una guida per gli oncologi al fine di orientare le scelte terapeutiche paziente per paziente. Esso si basa sulla combinazione del predittore genomico, ovvero un gruppo di geni che forma una “firma molecolare”, con due parametri clinici: lo stato dei linfonodi e la dimensione del tumore.

I numeri della ricerca dello IEO

I risultati dei primi test sono stati decisamente confortanti, per non dire eccellenti: testato su oltre 1.800 pazienti selezionate dallo IEO, il modello matematico ha dimostrato che la sua capacità di stimare il rischio di recidiva entro 10 anni dalla diagnosi è superiore rispetto ai parametri clinico-patologici comunemente utilizzati. Il biomarcatore StemPrintER – introdotto appunto grazie alla scoperta dello IEO – può considerarsi ad oggi il primo e unico strumento capace di indicare numero e aggressività delle cellule staminali del cancro, che hanno un ruolo cruciale nell’avvio del tumore, nella sua diffusione con metastasi nell’organismo, e sono anche alla base della resistenza alla chemioterapia di ogni tumore del seno. In sostanza, le evidenze dicono che si tratta di un modello duttile e affidabile – sempre secondo i ricercatori – che si applica sia alle pazienti con linfonodi negativi, sia a quelle con pochi linfonodi positivi. Proprio queste ultime sono ovviamente il gruppo con il maggior bisogno di una predizione accurata del rischio di recidiva per evitare il sovra-trattamento con chemioterapie aggressive non indispensabili, senza per questo trascurare il rischio di sviluppare una recidiva a distanza di anni.

I numeri del cancro al seno

Il cancro al seno, come detto, è il tumore più frequente nel genere femminile: colpisce una donna su otto nella propria vita. I numeri più recenti dicono che la sopravvivenza a cinque anni è aumentata: dall’81% all’87% negli ultimi 20 anni con il 2019 come ultimo periodo di riferimento. Tuttavia, questa patologia resta la prima causa di mortalità per tumore nelle donne, è responsabile infatti del 17% di tutti i decessi per causa oncologica del sesso femminile.

Un dato purtroppo ancora rilevante che ci dice come, oltre alla ricerca, un’arma fondamentale per sconfiggere il cancro al seno sia la prevenzione, agendo sia a livello primario (cioè sugli stili di vita, a partire da una corretta alimentazione, eliminando il consumo di alcol o tabacco e praticando sport) sia secondario, cioè svolgendo con regolarità periodici screening che, nel peggiore dei casi, ci consentiranno di scoprire eventuali lesioni con il congruo anticipo.

Il tema della prevenzione, non solo per quanto riguarda il cancro al seno, è sempre stato sostenuto con forza da Assidai. Anche alla luce di statistiche eloquenti: secondo l’AIRC, un ente privato senza fini di lucro nato nel 1965 grazie all’iniziativa di alcuni ricercatori dell’Istituto dei tumori di Milano, fra cui il Professor Umberto Veronesi, se il tumore al seno viene scoperto allo stadio 0 (cioè iniziale), la sopravvivenza a cinque anni nelle donne trattate è del 98%, anche se le ricadute variano tra il 9 e il 30% dei casi, a seconda della terapia effettuata. Se invece i linfonodi sono positivi (ovvero tutti gli stadi tranne lo 0), cioè contengono cellule tumorali, la sopravvivenza a cinque anni è del 75%.

La prevenzione del tumore al seno: gli screening consigliati

La prevenzione secondaria, cioè basata su periodici screening, deve iniziare dai 20 anni. Con un punto fermo: l’autopalpazione, ovvero un esame che ogni donna dovrebbe svolgere autonomamente una volta al mese per individuare anomalie del seno. Tra i possibili campanelli di allarme, la presenza di noduli, secrezioni nei capezzoli o l’ingrossamento dei linfonodi sotto l’ascella. Tutti segnali ovviamente da valutare con una visita senologica, cioè con l’esame clinico completo del seno da parte di un medico specializzato, visita che dopo i 40 anni è consigliabile effettuare ogni anno.

Poi ci sono gli esami diagnostici veri e propri. Ovvero l’ecografia, che permette di studiare a fondo la ghiandola mammaria ed è indicata nelle donne di età compresa tra i 45 e i 50 anni perché molto affidabile nell’individuare lesioni in caso di seno con una ricca componente ghiandolare, ma è meglio associarla ad ogni età alla mammografia. Quest’ultima è invece una radiografia eseguita con il seno compresso tra due lastre per individuare la presenza di formazioni potenzialmente tumorali. In questo caso, il programma di screening, secondo le indicazioni del Ministero della Salute, prevede che venga effettuata ogni due anni dalle donne di età compresa tra i 50 e i 69 anni.