Il nuovo video corporate di Assidai

Il nuovo video corporate Assidai nasce per illustrare la mission e le caratteristiche del Fondo Sanitario, principalmente nel corso di meeting e incontri con i manager organizzati dalle Associazioni Territoriali Federmanager in tutta Italia. Realizzare un video che in poco tempo potesse raccontare i valori distintivi del Fondo non è stato semplice, ma il giovane regista Giovanni Stella della società Smile Vision potrebbe aver raggiunto il suo scopo, se consideriamo i feedback positivi ricevuti da coloro che hanno visto il video.

L’obiettivo? “Creare un filo diretto tra Assidai e l’iscritto, trasmettendo la sensazione di sicurezza e fiducia che caratterizza il loro rapporto”. Che cosa lo distingue da altri video aziendali? “Coinvolge veramente chi lo guarda grazie alla veridicità del racconto”. Giovanni Stella parla della sua creazione con entusiasmo e trasporto. “Perché siamo riusciti a realizzare davvero qualcosa di particolare, con una resa finale che mi lascia pienamente soddisfatto: abbiamo cercato di evitare il classico spot, generando invece empatia e quindi un contatto diretto con lo spettatore”, aggiunge Stella.

All’interno dello spot integrale, che dura meno di 3 minuti, emergono i principali valori su cui si impernia dal 1990 l’attività di Assidai – tra gli altri, tutela, salute, assistenza, solidarietà, trasparenza e qualità a vantaggio delle persone e delle aziende – e che a loro volta si traducono in fatti concreti: per esempio l’estensione di determinate coperture anche ai familiari dell’iscritto, la non selezione del rischio da parte del Fondo e la tutela degli assistiti per tutta la loro vita. Ciò avviene anche grazie a una rete convenzionata di oltre 10mila strutture sanitarie d’eccellenza a disposizione degli iscritti per usufruire di prestazioni in regime di convenzionamento diretto e a campagne di informazione e prevenzione gratuite per gli iscritti. Assidai “è una certezza per la vita”: è con questa frase che si conclude il nuovo video corporate e nell’intervista che segue approfondiamo tecniche, modalità di realizzazione e montaggio.

Giovanni Stella, qual è il messaggio che ha voluto comunicare con questo video e quali sentimenti o emozioni ha voluto suscitare nello spettatore?

Abbiamo dato la priorità alla necessità di creare una linea diretta tra il Fondo e l’iscritto, utilizzando riprese reali – per esempio anche della sede Assidai – e cercando di generare una sensazione di sicurezza e fiducia. Era questo l’obiettivo finale del video, che supera la durata media degli spot commerciali e che, a mio parere, si differenzia dai classici video aziendali.

In che cosa è diverso, secondo lei, da altri video corporate?

È molto più coinvolgente. Ha superato lo standard del video corporate di lancio e la logica dello spot commerciale, creando invece un’empatia con l’iscritto. Non volevamo raccontare soltanto Assidai e i professionisti che ci lavorano – cosa che invece avviene in diversi spot aziendali – ma molto di più. Per questo abbiamo collaborato direttamente con il Fondo e per la maggior parte coloro che compaiono nel video sono professionisti veri, tra cui il Direttore Generale Marco Rossetti, molti colleghi Assidai, operatori del Customer Care, personale di Federmanager Roma e della Casa di Cura Quisisana, mentre altri sono attori professionisti. Inoltre, per rafforzare la veridicità del racconto, gli ambienti in cui abbiamo girato il video sono quelli istituzionali, di lavoro, tra cui proprio gli uffici di Assidai, di Federmanager Roma, il call center di Assidai (G&G Associated) e la struttura convenzionata con Assidai, la Casa di Cura Quisisana di Roma (Gruppo Eurosanità S.p.a.).

Quanto ci è voluto per girare il video e come avete scelto gli attori?

Per arrivare al set vero e proprio ci è voluto circa un mese di preproduzione, durante il quale abbiamo svolto diversi sopralluoghi, messo a punto con il Fondo tutti gli aspetti organizzativi e lavorato sullo script. Lavorando a stretto contatto con il Fondo abbiamo selezionato, dopo un intenso lavoro, i due attori principali che troviamo nel video. L’uomo è Alberto Mosca, attore professionista teatrale, insegnante di recitazione e sceneggiatore, che rappresenta la voce narrante che alla fine si palesa allo spettatore comparendo nel video e creando così un ulteriore situazione di riscontro e di interazione. La donna manager, invece, è Daniela Amato, doppiatrice e attrice professionista teatrale e cinematografica. Inoltre, a conferma della veridicità del nostro racconto, vorrei sottolineare che il signore anziano che compare a un certo punto nel video è un vero iscritto Assidai: il Dott. Giampaolo Marcellini. Poi, in tutto, le giornate di riprese sono state due.

Da parte sua c’è dunque piena soddisfazione per il prodotto finale? C’è un elemento in particolare di cui va orgoglioso?

Sì, sono assolutamente soddisfatto e mi auguro il video possa trovare un ottimo riscontro sia tra gli iscritti sia tra chi non conosce ancora Assidai. In particolare, mi piace molto la resa finale dell’interazione tra le grafiche e la ripresa visiva: è una tecnica che ultimamente stiamo utilizzando per avere risultati migliori. Un’altra cosa molto interessante è stata quello di lavorare con tecnologie innovative e in location prestigiose. E poi c’è la scelta dei colori con il ruolo chiave che ha giocato il direttore della fotografia Amira Ra, che ha lavorato per numerosi videoclip musicali e anche spot pubblicitari per la televisione. Abbiamo deciso di spostarci verso i toni caldi dei colori, creando un contrasto netto tra il blu e l’arancione (colore del brand Assidai), per fare emergere ancora meglio le tonalità del Fondo sanitario. È stato un ottimo modo per creare un legame tra il brand Assidai e la colorimetria visiva e comunicare, in questo modo, lo spirito e i punti di forza di Assidai.

 

Smile Vision è nata nel 2015 con l’obiettivo di ritagliarsi un ruolo definito nell’area della comunicazione visiva e della produzione cinematografica. L’identità̀ del brand è fondata sulla comprovata esperienza di un team di giovani under 30, laureati e professionisti di settore, impegnati nel continuo ampliamento del network di collaborazioni per garantire standard e qualità sempre elevati. Regista e fondatore della società è Giovanni Stella, specializzato in arti e tecniche cinematografiche che vanta la realizzazione di diversi cortometraggi, documentari e spot pubblicitari.

Assidai, confermato il rinnovo dell’iscrizione all’Anagrafe fondi anche per il 2019

L’importante certificazione è arrivata lo scorso 23 settembre nella sede di Assidai direttamente dal Ministero della Salute, in particolare dalla Direzione Generale della Programmazione Sanitaria. Si tratta del rinnovo dell’iscrizione di Assidai per il 2019 all’Anagrafe dei Fondi Sanitari: un documento chiave visto che, come noto, per operare in Italia, i fondi di assistenza sanitaria integrativi devono essere iscritti ad un albo, chiamato appunto Anagrafe Fondi Sanitari Integrativi. Quest’ultima, va ricordato, è stata istituita dal Ministero della Salute con il Decreto del 31 marzo 2008, e poi resa operativa con il successivo Decreto ministeriale del 27 ottobre 2009, che ha definito le procedure e le modalità del suo funzionamento.

I valori di Assidai e la trasparenza

Il rinnovo dell’iscrizione all’Anagrafe per il 2019 è solo un elemento di un più ampio e ricco quadro di valori su cui si impernia l’attività del Fondo. Valori come assistenza, riservatezza, professionalità, integrità, trasparenza, mutualità e solidarietà che hanno mosso e muoveranno sempre Assidai nel proprio operato a tutela degli iscritti.

Nel tempo, sono così arrivate la certificazione annuale su base volontaria del proprio bilancio, un Sistema di Gestione certificato, la dotazione di un Codice Etico e di Comportamento, oltre ovviamente alla regolare iscrizione all’Anagrafe dei fondi sanitari.

Perché quest’ultima è così importante? Perché svolge un ruolo di censimento e di controllo sull’operato dei vari soggetti coinvolti. In Italia sono tenute all’iscrizione nell’albo due tipologie di fondi sanitari che garantiscono l’erogazione di prestazioni integrative al Servizio Sanitario Nazionale. Si tratta dei “Fondi sanitari integrativi del Servizio Sanitario Nazionale (SSN)”, che erogano solo ed esclusivamente prestazioni non comprese nei livelli essenziali di assistenza, e degli “Enti, Casse e Società di Mutuo Soccorso aventi esclusivamente fini assistenziali” che sono sia integrativi del SSN, sia sostitutivi.

L’Anagrafe e i numeri dei fondi in Italia

Dai dati più recenti dell’Anagrafe sui fondi sanitari, diffusi dal Ministero della Salute in un apposito report – un approfondimento pubblicato su Welfare 24 newsletter di Assidai – emerge una crescita continua del comparto della sanità integrativa italiana, con i fondi passati complessivamente dai 267 del 2010 ai 322 del 2017, a fronte di una netta prevalenza degli Enti, Casse e Società di mutuo soccorso (come Assidai) rispetto ai fondi sanitari puramente integrativi. C’è un altro elemento che spicca: il divario tra il numero dei fondi sanitari integrativi e gli enti, casse e società di mutuo soccorso, è sempre rimasto rilevante. Anzi, nel corso degli anni al lieve aumento del numero dei fondi integrativi della prima tipologia (3 nel 2013, 4 nel 2014, 7 nel 2015, 8 nel 2016 e 9 nel 2017), si è avuto un più significativo e progressivo incremento del numero degli enti, casse e società di mutuo soccorso (273 nell’anno 2013, 286 nel 2014, 293 nel 2015 e 297 nel 2016 e 313 nel 2017), che rappresentano ormai il 97% del totale. Inoltre, la forbice salta all’occhio anche nell’ammontare delle risorse erogate e nel numero di iscritti. Gli Enti, le Casse e le Società di Mutuo Soccorso, nel 2017, avevano erogato prestazioni per 2,32 miliardi di euro, a fronte di un totale di 10,6 milioni di iscritti; l’altra categoria di fondi si fermava rispettivamente a 1,3 milioni e poco più di 11mila iscritti.

Importanza delle certificazioni

L’iscrizione all’Anagrafe dei Fondi Sanitari dimostra lo spessore e la trasparenza dell’attività del Fondo. Attività che si ispira al Codice Etico e di Comportamento, che evidenzia l’insieme dei valori di cui Assidai si fa portatore e le linee guida che devono ispirare l’operato di coloro che agiscono per conto di Assidai e a cui devono attenersi nel perseguimento degli scopi istituzionali. Inoltre, ogni anno, pur non essendo obbligato, Assidai sottopone il proprio bilancio alla revisione contabile d’esercizio, certificazione effettuata da una delle principali società di revisione a livello mondiale per fornire ogni garanzia di correttezza e trasparenza a tutti gli stakeholder e alle migliaia di famiglie assistite. Infine, il Fondo si è dotato di un Sistema di Gestione certificato in base alle norme UNI EN ISO 9001:2015 per quanto concerne “l’erogazione del servizio di rimborsi spese mediche ed assistenziali per dirigenti, quadri e consulenti”. Ciò consente sia di fornire ai propri iscritti i migliori servizi e Piani Sanitari sia, di riflesso, di lavorare continuamente sul miglioramento continuo dell’efficienza e dell’efficacia dei processi interni e dei servizi agli iscritti.

21 settembre Giornata Mondiale dell’Alzheimer

Nel mondo ogni tre secondi un individuo sviluppa una forma di demenza. Complessivamente, oggi, sono 50 milioni le persone affette da questo tipo di malattia e, complice il graduale invecchiamento della popolazione, diventeranno 82 milioni nel 2030 per poi triplicare a 152 milioni nel 2050. E il tutto avrà un costo per il sistema che raddoppierà, nel 2030, a 2mila miliardi di dollari. Sono questi alcuni dei principali numeri contenuti nel World Alzheimer Report 2018 che acquisiscono ancora più significato proprio in questi giorni, visto che il 21 settembre 2019 si celebra in tutto il mondo la XXVI Giornata Mondiale dell’Alzheimer, malattia neurodegenerativa per la quale non è stata ancora trovata una cura: assieme ad altre forme di demenza è la settima causa di morte a livello globale.

Non solo, il decorso di queste patologie pone un enorme problema di assistenza del malato per le strutture ospedaliere e per le famiglie con il tema della Long Term Care che assume così sempre più rilevanza in ottica futura. L’emergenza è riconosciuta a livello globale se si pensa che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha lanciato il “Global action plan on the public health response to dementia 2017-2025”, invitando i Paesi membri ad agire e, a farlo nel più breve tempo possibile, con cinque obiettivi:

  • aumentare la consapevolezza del problema della demenza;
  • ridurre il rischio di questa patologia;
  • assicurare ai malati diagnosi, trattamento e assistenza sanitaria;
  • supportare le famiglie e le persone più vicine;
  • promuovere ricerca e innovazione.

Alzheimer, impatti sociali ed economici

Ma che cos’è esattamente l’Alzheimer? È una patologia neurodegenarativa a decorso progressivo e cronico. Rappresenta la causa più comune di demenza nella popolazione anziana dei Paesi sviluppati: ne è colpito infatti circa il 5% della fascia sopra i 65 anni e circa il 20% sopra gli 85 anni. In sostanza, la malattia causa un processo degenerativo che distrugge le cellule del cervello e, in questo modo, causa un deterioramento irreversibile fino alla non autosufficienza. Il tema, oltre che mondiale, è anche italiano: nel nostro Paese sono 600mila le persone che soffrono di Alzheimer nel contesto di una dinamica crescente che a sua volta coinvolge le famiglie. Secondo una recente indagine svolta da Censis e Aima (Associazione italiana malattia di Alzheimer) i costi diretti dell’assistenza superano 11 miliardi di euro, di cui il 73% a carico delle famiglie. L’equivalente di circa 70mila euro a paziente: un dato che tiene conto sia dei costi a carico del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) sia di quelli che ricadono sulle famiglie sia dei mancati redditi da lavoro percepiti dai pazienti sia infine degli oneri di assistenza dei cosiddetti “caregiver”. Tutto ciò, ovviamente, attenendosi al mero aspetto economico di un dramma prima di tutto umano che ogni giorno affligge centinaia di migliaia di famiglie italiane.

Il supporto garantito dalle prestazioni per la non autosufficienza – Long Term Care

Anche alla luce delle prospettive del fenomeno – con il graduale invecchiamento della popolazione l’attuale 1,2 milioni di italiani afflitti da forme di demenza potrebbe triplicare nel giro di 20 anni – appare dunque sempre più opportuna una forma di integrazione tra l’offerta pubblica, garantita dal Servizio Sanitario Nazionale, e quella privata, nella forma di assistenza integrativa, per mettere al riparo paziente e famigliari dalle conseguenze devastanti della non autosufficienza. Senza dimenticare che secondo recenti studi l’Italia è uno dei fanalini di coda europei in termini di Long Term Care. Nel 2030 Il nostro Paese potrebbe avere 5 milioni di anziani, una percentuale dei quali sarà non autosufficiente. Con l’attuale gestione della spesa sanitaria (di cui solo il 10% va in prestazioni per la non autosufficienza) le famiglie potrebbero trovarsi fortemente in crisi, dovendosi sobbarcare quasi totalmente la gestione dell’invecchiamento della popolazione.

Consapevole di tutto ciò Assidai si è sempre mosso in prima linea garantendo ai propri iscritti e alle loro famiglie coperture per la non autosufficienza. Negli ultimi anni ha migliorato, poi, le prestazioni offerte estendendo per esempio la copertura stessa al coniuge o al convivente more uxorio e ampliando la stessa nel caso di presenza di figli minori. Tutti i vantaggi della Long Term Care Assidai sono consultabili sul nostro sito, a conferma di un impegno che come Fondo di assistenza sanitaria consideriamo cruciale per il futuro della popolazione italiana e del nostro Paese.

Rapporto Eurostat sulla spesa sanitaria in Europa

Una spesa sanitaria pari all’8,9% del Prodotto Interno Lordo, leggermente sotto la media europea (pari al 9,9%) e caratterizzata da una fetta di “out of pocket”, cioè pagata direttamente dalle famiglie, pari al 22%, dato superiore rispetto alla media del Vecchio Continente. Questo è il principale risultato che emerge dall’ultima analisi della sanità italiana da parte di Eurostat, l’Istituto di Statistica dell’Unione Europea. Uno studio dettagliato diffuso proprio nei giorni scorsi che sostanzialmente conferma le principali caratteristiche del Sistema Sanitario Nazionale e, con esse, le azioni da mettere in campo per migliorare la sua sostenibilità nel medio e lungo periodo alla luce anche del trend d’invecchiamento della popolazione. Azioni che, come più volte sottolineato da Assidai, non devono assolutamente prescindere dalle caratteristiche che tutto il mondo invidia alla sanità pubblica – universalità, equità e anche efficienza (a maggior ragione con la razionalizzazione della spesa avvenuta negli ultimi anni) – e che allo stesso tempo devono vedere il privato in un’ottica di complementarietà e di supporto, e non di alternativa, al pilastro pubblico.

Entrando nel dettaglio dell’analisi di Eurostat e partendo dal dato relativo alla spesa sanitaria corrente, la Francia spicca con una percentuale pari all’ 11,5% in rapporto al prodotto interno lordo. A seguire ci sono Germania (11,1%) e Svezia (11,0%). Per guardare in coda alla classifica, invece, ben 12 Stati membri sono sotto il 7,5% con la Romania fanalino di coda che registra il rapporto più basso (5,0%). L’Italia come anticipato è all’8,9% a fronte di una media UE pari al 10% del Prodotto Interno Lordo, per la precisione il dato comunitario si attesta al 9,9%.

Bisognerebbe tenere conto dell’inflazione, ma va anche precisato che sia le spese sanitarie sia il Prodotto Interno Lordo (PIL) sono entrambi influenzati dalle variazioni dei prezzi e quindi, combinando i due indicatori in un unico indicatore, l’impatto dei prezzi stessi può considerarsi annullato. Guardando i valori assoluti, invece, la prima è la Germania con una spesa sanitaria corrente pari a 352 miliardi di euro, seguita da Francia (257 miliardi), Regno Unito (234 miliardi) e Italia (150 miliardi) mentre la Spagna si attesta a 100 miliardi.

Un altro elemento rilevante da analizzare è rappresentato dalle fonti di finanziamento dei sistemi sanitari: un dato che fa emergere chiaramente le forze e le debolezze dell’Italia rispetto alla media europea. Nell’Unione Europea a 28 Paesi, i Governi hanno finanziato in media il 36,7% delle spese sanitarie mentre i regimi obbligatori di assicurazione sanitaria contributiva e i conti di risparmio medico sono arrivati al 42,7%. Per quanto riguarda i finanziamenti pubblici il nostro Paese spicca con il 74,4% e davanti a noi ci sono soltanto i “giganti” welfare scandinavi come la Danimarca (84,1%), la Svezia (83,4%) e la Norvegia (74,3%), oltre alla Gran Bretagna (79,4%). Il rovescio della medaglia invece è rappresentato dalla cosiddetta “spesa out of pocket”, cioè dalle prestazioni non coperte dalla sanità pubblica e a cui i cittadini devono fare fronte attingendo direttamente alle proprie tasche. Qui, in realtà, il vero nodo è rappresentato dalla mancanza di “intermediazione” – attraverso forme di assistenza sanitaria integrativa – di queste spese. Numeri alla mano, la media nella UE a 28 (esclusa Malta) della spesa out of pocket è stata pari al 15,7% e in Italia è arrivata al 22,9%. Va detto che Lettonia, Cipro e Bulgaria hanno superato il 40%, Malta e Grecia oltre un terzo del dato complessivo, ma i nostri partner europei di riferimento sono stati ben al di sotto di questo valore: la Francia è la migliore con il 9,8% e la Germania si attesta al 12,7% mentre la Spagna ha un attitudine peggiore della nostra con il 23,8%. Non stupisce così che in Italia la spesa sanitaria coperta dal pilastro integrativo, sottoscritto in modo volontario e non obbligatorio, sia ridottissima e pari all’1,7% contro il 3,6% della media europea, il 6,7% della Francia e il 6,1% dell’Olanda, indicando così che c’è ancora molto da lavorare su questo fronte.

La conclusione del rapporto Eurostat è semplice: per quanto universale, il Servizio Sanitario Nazionale deve fare fronte a sfide impegnative, in primis le crescenti ristrettezze di bilancio del Governo centrale e l’invecchiamento della popolazione, che potrebbero mettere a rischio la sua sostenibilità e la qualità delle prestazioni offerte ai pazienti. Per questo il supporto offerto dal pilastro integrativo può rappresentare un valido strumento per la sanità pubblica e per evitare ai cittadini eventuali difficoltà finanziarie qualora costretti a ricorrere a prestazioni non coperte dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN).

Welfare aziendale, nasce il bollino di qualità

Un bollino di qualità per il welfare aziendale. A realizzarlo è stato l’Ente Italiano di Normazione, che ha appena pubblicato la cosiddetta Prassi di Riferimento UNI/PdR 58/2019 in materia appunto di qualità dei servizi di welfare. Il protocollo, in particolare, si è sviluppato grazie alla collaborazione tra UNI e il Gruppo Cooperativo Gino Mattarelli, nato nel 1987 per mettere in rete e valorizzare le cooperative sociali di tutta Italia (oggi conta 58 consorzi territoriali, 701 cooperative e imprese sociali e 42mila lavoratori). L’UNI, acronimo di Ente Nazionale Italiano di Unificazione, è invece un’associazione privata senza scopo di lucro riconosciuta dallo Stato e dall’Unione Europea che da quasi 100 anni elabora e pubblica norme tecniche volontarie – note appunto come norme UNI – in tutti i settori industriali, commerciali e del terziario. Sono soci di UNI le imprese, i professionisti, le associazioni, gli enti pubblici, i centri di ricerca, gli istituti scolastici e accademici, le rappresentanze dei consumatori e dei lavoratori, il terzo settore e le organizzazioni non governative, che insieme costituiscono una piattaforma multi-stakeholder di confronto tecnico unica a livello nazionale. Insomma, un’associazione autorevole che rappresenta l’Italia presso le organizzazioni di normazione europea e mondiale e organizza la partecipazione delle delegazioni nazionali ai lavori di normazione sovranazionale.

Alla luce di questa premessa, si capisce come il nuovo protocollo sul welfare aziendale sia da considerare un progetto molto interessante, che testimonia il trend di forte crescita del settore ma anche la necessità di mettervi ordine. Del resto, lo sviluppo del welfare aziendale da una parte dimostra l’evoluzione del rapporto tra datore di lavoro e dipendente (sempre più improntato alla collaborazione piuttosto che all’antagonismo puro e semplice) e dall’altra parte che il welfare pubblico può trovare un prezioso alleato, laddove le ristrettezze di bilancio o le dinamiche demografiche possono mettere a rischio la tenuta del sistema. Senza contare i potenziali effetti positivi del welfare aziendale sulla produttività dei singoli lavoratori, evidenziati dagli studi più recenti in materia.

Le linee guida della nuova Prassi UNI sul welfare aziendale

Nel dettaglio, la Prassi di Riferimento illustra le linee guida sui requisiti per la qualità dei fornitori dei servizi alla persona offerti ai lavoratori dai datori di lavoro attraverso piani di welfare aziendale gestiti direttamente o mediante il sostegno di altri operatori. Per questo, sono stati individuate non solo alcune prestazioni di welfare aziendale di natura sociale ma sono stati delimitati cinque diversi ambiti di attività riconducibili alla sfera familiare, del benessere e della salute, della qualità della vita, della casa e di intermediazione (cioè assistenza fiscale, servizi assicurativi e finanziari). Per tutto ciò la Prassi definisce alcuni requisiti per i fornitori in merito all’ambito giuridico-amministrativo (in cui devono essere conformi ai requisiti di legge e a quelli dettati dalla contrattazione collettiva) e a quello economico-finanziario. Per quest’ultimo, in particolare, i fornitori hanno l’obbligo di dimostrare la propria solidità economica e finanziaria rispetto al regolare svolgimento delle attività, attraverso la presentazione di idonea dichiarazione bancaria o per mezzo di una sintetica descrizione della situazione patrimoniale, economica e finanziaria.

Inoltre, la Prassi UNI ha individuato le autorizzazioni amministrative e le procedure essenziali per il rilevamento della qualità dei servizi offerti, nonché gli elementi tecnico-professionali per l’erogazione dei servizi. Per quanto riguarda la qualità dei servizi alla persona, infine, si stabilisce anche che i fornitori di servizi di natura sociale debbano essere in possesso di specifiche autorizzazioni e procedure per il rilevamento della qualità delle prestazioni offerte.

Assidai e welfare aziendale: un binomio di successo

Assidai, nel corso degli anni, è diventato un punto di riferimento di oltre 1.500 aziende che aderendo al nostro Fondo hanno dimostrato di credere nell’importanza del welfare aziendale e di uno dei benefit più rilevanti al suo interno, ovverosia l’assistenza sanitaria integrativa. Si tratta infatti di un importante strumento a disposizione di datori di lavoro e dei responsabili delle risorse umane per ricompensare, attrarre e trattenere talenti e collaboratori. Secondo molte indagini, il benessere individuale è la premessa per un buon clima aziendale e per il successo della propria azienda. Secondo una ricerca svolta da Gi Group e OD&M Consulting sui vantaggi del welfare aziendale, per esempio, sette aziende su dieci hanno cercato di ascoltare i bisogni dei lavoratori sul fronte dei servizi di welfare prima di approntarli proprio perché il welfare aziendale viene considerato come parte integrante di un nuovo patto tra azienda e lavoratore, basato non più sull’erogazione di denaro, ma anche su un supporto concreto che aiuti le persone ad accrescere il loro benessere nell’organizzazione. Nel contesto del welfare aziendale Assidai si pone come ulteriore valore aggiunto anche per tutta l’attenzione verso i familiari in tutti i momenti della loro vita; infatti, chi è iscritto al Fondo di assistenza sanitaria tutela anche il coniuge o convivente e i figli fino a 26 anni. Per i figli più grandi vi è poi a disposizione il Piano Sanitario Familiari.

Rischi e opportunità della Silver Economy

Circa 200 milioni di europei, cioè il 39% dell’intero Vecchio Continente, che nel 2025 arriveranno a 222 milioni, pari al 43%: è questa la fetta di popolazione europea di età superiore a 50 anni, fino agli ultracentenari, che rappresenta la cosiddetta “Silver Economy”. I numeri provengono da uno studio realizzato nei mesi scorsi dal gruppo Technopolis e da Oxford Economics su incarico della Commissione Europea e confermano come si tratti di un fenomeno ormai sempre più attuale e in costante crescita con importanti conseguenze per tutta l’economia europea: sempre secondo l’analisi, infatti, i consumi di questa fascia di popolazione oggi valgono 3.700 miliardi di euro e considerando l’indotto si superano facilmente i 4.200 miliardi.

Si tratta di un trend evidentemente guidato dalle dinamiche demografiche dei Paesi occidentali, in particolar modo dall’allungamento della vita media e dal calo della natalità, che determinano un graduale invecchiamento della popolazione. Quest’ultima, secondo gli esperti, determinerà a sua volta lo sviluppo di particolari settori dell’economia, tre in particolare: la sanità, la Long Term Care (ovverosia tutte le prestazioni per la non autosufficienza dall’assistenza alle residenze per anziani) e l’offerta di beni e servizi per la terza età. Senza contare l’industria farmaceutica, il mondo dei servizi culturali e ricreativi, i viaggi e il turismo, la domotica, l’alimentazione e tanti altri settori che potranno sfruttare anche il fatto che la popolazione anziana, sempre nei Paesi industrializzati, ha a disposizione fette di reddito significative.

I numeri della Silver Economy

Già oggi in tutto il mondo gli over 50 controllano il 70% del reddito disponibile, si prevede un potere di spesa sopra i 15mila miliardi di dollari entro il 2020 e, solamente negli Stati Uniti, la Silver Economy è attualmente stimata sui 7.100 miliardi di dollari. Anche il nostro Paese, nel suo piccolo, conferma questa lettura: l’italiano medio “over 60/65” ha una casa di proprietà, tempo a disposizione per viaggiare e praticare sport e coltiva spesso una vita sociale ricca. Sempre in Italia si stima che il 40% delle famiglie con componenti tra 55 e 64 anni dispone di una ricchezza netta superiore a 250mila euro, una percentuale che è superiore al 30% per le famiglie i cui componenti hanno da 65 anni in su. Inoltre, Assoprevidenza ha calcolato in 620 miliardi di euro l’impatto della Silver Economy in termini di prodotto interno lordo: quasi il 40% dell’intero Prodotto interno lordo (PIL).

L’impegno di Assidai sulla non autosufficienza

Se la Silver Economy è un’opportunità non vanno neppure dimenticate le possibili conseguenze legate all’invecchiamento della popolazione che potrebbe mettere a rischio non solo il settore sanitario, ma gli equilibri economici e sociali dell’intero Paese. A lanciare l’allarme, nei mesi scorsi, era stata anche la terza edizione degli Stati Generali dell’assistenza a lungo termine, organizzati da Italia Longeva, con la collaborazione, tra gli altri, del Ministero della Salute e dell’Istat.

L’appuntamento aveva messo ulteriormente a fuoco un tema, quello della copertura Long Term Care, cioè l’insieme dei servizi socio-sanitari forniti con continuità a persone che necessitano di assistenza permanente a causa di disabilità fisica o psichica, tema sul quale Assidai si è sempre mossa in prima linea e su cui invece l’Italia staziona nelle retrovie rispetto ai principali partner europei. Una situazione preoccupante se si pensa che nel nostro Paese, nei prossimi 10 anni, 8 milioni di anziani avranno almeno una malattia cronica grave, come ipertensione, diabete, demenza, malattie cardiovascolari e respiratorie. Assidai, dal canto suo, ha sempre lavorato a favore dei propri iscritti sulla copertura LTC.  Nel 2015, infatti, aveva impresso una prima svolta estendendo la copertura anche al coniuge o al convivente more uxorio dell’iscritto; l’anno scorso ha introdotto novità rilevanti sia per gli iscritti under 65 (allargata la copertura a tutto il nucleo familiare dell’iscritto con aumento del 30% della rendita in caso di presenza di un figlio minore e fino alla sua maggiore età, e raddoppio della rendita in presenza di un figlio già non autosufficiente) sia per gli iscritti over 65 (con il pacchetto garantito arricchito di ulteriori prestazioni); infine quest’anno ha ulteriormente potenziato le coperture per le due categorie di età. Non è un caso che anche il Presidente Tiziano Neviani abbia inserito la copertura Long Term Care tra i punti principali nel proprio programma per la rielezione per il triennio 2019-2021. A testimonianza di come si tratti di un tema di estrema attualità per il Paese e su cui Assidai è particolarmente attenta.

Work in progress per il Piano Nazionale della Prevenzione 2020-2025

Riduzione delle principali disuguaglianze sociali e geografiche che si osservano in Italia, definizione di indicatori omogenei, misurabili e robusti collegati al monitoraggio dei LEA e un’azione attiva mirata a intercettare i bisogni di salute. Sono queste alcune delle linee prioritarie per il nuovo Piano Nazionale della Prevenzione 2020-2025, che verrà messo a punto nei prossimi mesi di concerto tra lo Stato e le Regioni.

Ma che cosa rappresenta esattamente il Piano Nazionale per la Prevenzione (il cui acronimo è PNP ed è parte integrante del Piano Sanitario Nazionale) e qual è il suo ruolo nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale? Per spiegarlo bisogna partire dalla Legge Costituzionale n.3 del 2001, in cui l’assetto istituzionale in tema di tutela della salute è stato configurato in modo chiaro: stabiliti i principi fondamentali da parte dello Stato, le Regioni hanno competenza non solo in materia di organizzazione dei servizi, ma anche sulla legislazione per l’attuazione dei principi stessi, sulla programmazione, sulla regolamentazione e sulla realizzazione dei differenti obiettivi. In questo senso, lo strumento fondamentale di pianificazione del Ministero della Salute, messo in campo già dal 2005, è rappresentato appunto dal Piano Nazionale della Prevenzione: un documento di respiro strategico che a livello nazionale stabilisce gli obiettivi e gli strumenti che sono poi adottati a livello regionale.

Il Piano Nazionale della Prevenzione al 2018: focus sulle malattie croniche

L’attuale Piano 2014-2018, che ci sta traghettando direttamente verso quello con partenza nel 2020 attraverso una proroga in vigore quest’anno, ha delineato un sistema di azioni di promozione della salute e di prevenzione, che accompagnano il cittadino in tutte le fasi della vita, nei luoghi di vita e di lavoro. Una scelta strategica – sottolinea il Ministero della Salute – che va ricondotta alla convinzione, suffragata da numerosi elementi della letteratura scientifica di settore, che un investimento in interventi di prevenzione costituisce una scelta vincente, capace di contribuire a garantire, nel medio e lungo periodo, la sostenibilità del Sistema Sanitario Nazionale.

L’importanza della prevenzione è condivisa appieno da Assidai, che la reputa fondamentale e ogni anno promuove campagne di prevenzione gratuite per gli iscritti al Fondo sanitario e campagne di informazione sui corretti stili di vita. Ricordiamo, infatti, che ad oggi le malattie croniche (ad esempio le cardiopatie, l’ictus, il cancro, il diabete e le malattie respiratorie croniche) sono i principali killer a livello mondiale. Ampliando maggiormente il ragionamento in termini più prettamente economici, una buona prevenzione consente anche allo Stato di risparmiare le spese in termini di cure, ospedalizzazioni e assistenza nel lungo periodo che mettono a serio rischio la tenuta del sistema.

I Piani Regionali di Prevenzione

Approfondendo ulteriormente il Piano Nazionale per la Prevenzione al 2018 si evidenziano alcuni macro-obiettivi a elevata valenza strategica, perseguibili da tutte le Regioni e le Provincie Autonome, attraverso l’elaborazione di Piani Regionali di Prevenzione (PRP) che, partendo dagli specifici contesti locali, nonché puntando su un approccio il più possibile intersettoriale e sistematico, permettano di raggiungere i risultati attesi. Ecco gli obiettivi nel dettaglio:

  • ridurre il carico prevenibile ed evitabile di morbosità, mortalità e disabilità delle malattie non trasmissibili (cioè le patologie croniche);
  • prevenire le conseguenze dei disturbi neurosensoriali (ipovisione e cecità);
  • promuovere il benessere mentale nei bambini, adolescenti e giovani;
  • prevenire le dipendenze da sostanze e comportamenti, gli incidenti stradali (riducendo la gravità dei loro esiti) e quelli domestici, gli infortuni e le malattie professionali;
  • ridurre le esposizioni ambientali potenzialmente dannose per la salute e la frequenza di infezioni/malattie infettive prioritarie;
  • attuare il Piano Nazionale Integrato dei Controlli per la prevenzione in sicurezza alimentare e sanità pubblica veterinaria.

Il Piano Nazionale della Prevenzione per ridurre le disuguaglianze entro il 2025

Il nuovo Piano nazionale al 2025 avrà invece come priorità trasversale a tutti gli obiettivi la riduzione delle principali disuguaglianze sociali e geografiche che si osservano nel Paese, correlate, in gran parte, alla esposizione ai principali fattori di rischio affrontati dal Piano di Prevenzione stesso, in una prospettiva coerente con l’approccio di salute in tutte le politiche.

Le aree strategiche, invece, resteranno quelle della prevenzione delle malattie trasmissibili e delle malattie croniche non trasmissibili, anche attraverso la promozione di stili di vita sani e l’attenzione alle determinanti ambientali che impattano fortemente sulla salute e sulle disuguaglianze. Si punterà anche sull’approccio di genere con un investimento ulteriore sul benessere dell’infanzia e dell’età evolutiva, cercando di muoversi con un approccio multilivello della prevenzione che sia in grado cioè di promuovere una collaborazione tra Stato, Regioni, aziende e tutti i soggetti che concorrono al raggiungimento degli obiettivi di salute. Anche Assidai continuerà ad impegnarsi attivamente per rafforzare ancora di più il valore della prevenzione, con benefici per i propri iscritti, per il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), e in definitiva per il Paese.

Attuazione del Piano Nazionale di Prevenzione

Ma come viene implementato poi nel dettaglio il Piano di Prevenzione Nazionale e quali sono le azioni concrete svolte dalle istituzioni per metterlo in pratica? Per rispondere a questa domanda è necessario portare qualche esempio. Uno degli obiettivi del Piano di Prevenzione al 2018 era quello di ridurre l’incidenza delle malattie croniche: per centrarlo vengono perseguite strategie di comunità e sul singolo individuo. Le prime contemplano programmi di promozione della salute e, in particolare, di stili di vita e ambienti favorevoli alla salute della popolazione attraverso specifiche campagne che le Regioni si impegnano a sviluppare in tutte le sedi (scuola, ambiente di lavoro, comunità locali) con il pieno coinvolgimento degli stakeholder territoriali. Le strategie sul singolo individuo, invece, consistono per esempio nella possibile individuazione dei soggetti più a rischio, su cui viene stimolato o avviato un programma di screening da parte del Sistema Sanitario Nazionale. Altro esempio: prevenire l’utilizzo di sostanze stupefacenti. Anche in questo caso vengono utilizzate strategie integrate e interistituzionali (agendo in ambito scolastico e sanitario) per valorizzare e promuovere le capacità personali dei giovani, in termini di autostima, auto efficacia e resilienza, cercando al tempo stesso di prevenire e ridurre il disagio (sociale e familiare).

Valutazione e monitoraggio del PNP

Infine, come vengono valutati i risultati del Piano di Prevenzione? L’obiettivo, infatti, è anche mostrare al Paese come lo sforzo congiunto di Stato e Regioni produca esiti concreti nelle politiche di salute, ricavando al tempo stesso indicazioni preziose per gli orientamenti futuri. Ebbene, in quest’ottica – sottolinea il Ministero della Salute – la valutazione è stata concepita come una componente irrinunciabile del PNP con una duplice funzione: misurare l’impatto che produce nei processi, negli esiti di salute e nel sistema a livello centrale, regionale e locale; e garantire la coesione nazionale nel conseguimento degli obiettivi di salute nel rispetto degli equilibri di bilancio. Fermo restando un costante monitoraggio dell’attuazione del Piano Nazionale di Prevenzione, nel Documento di valutazione sono stati in particolare previsti oltre 130 indicatori centrali, i quali coprono tutti gli obiettivi del Piano, con relativi standard di risultato al 2018, cui le Regioni devono tendere attraverso i Piani Regionali di prevenzione, fissando i corrispondenti standard regionali, al fine di quantificare l’apporto locale al target nazionale, tenendo conto della situazione di partenza e delle proprie peculiarità. Il tutto implementato attraverso diversi step valutativi che consentono di procedere gradualmente alla formazione di un giudizio sull’efficacia del Piano Nazionale di prevenzione e sulla necessità di eventuali modifiche per i Piani di Prevenzione da sviluppare negli anni successivi.

Epatite C, scoprirla per batterla

La buona notizia è che l’Italia è tra i pochi Stati al mondo ad avere già raggiunto il primo target fissato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), cioè l’eliminazione del 65% delle morti collegate all’Epatite C, utilizzando terapie con farmaci ad azione diretta che eliminano completamente in virus in oltre il 96% dei pazienti trattati (anche su questo fronte siamo all’avanguardia a livello globale). La notizia meno buona è che oltre 200mila italiani non sanno di essere affetti da Epatite C e che il nostro Paese è tra quelli in Europa con il maggior numero di persone esposte al virus: per centrare dunque il secondo obiettivo fissato dall’OMS, l’eradicazione totale del virus entro il 2030, bisogna ancora lavorare parecchio. Proprio per questo l’Osservatorio Sanità e Salute – associazione che riunisce importanti esponenti del mondo della politica e della comunità scientifica, sindacale ed imprenditoriale che hanno dimostrato un continuo e proficuo impegno sui temi della salute e della sanità pubblica – ha individuato di recente quattro linee di azione per vincere definitivamente la battaglia contro l’Epatite C.

Epatite C: cause, screening e rischi

Ma che cosa è l’Epatite C e come si trasmette? È una malattia del fegato causata dal virus HCV e la via di trasmissione è quella del contatto diretto con il sangue di qualcuno già infettato dal virus. C’è un dato che differenzia l’Epatite C dalle altre tipologie di epatite: solo il 30% circa delle persone infettate da HCV sono in grado di debellare il virus attraverso il lavoro del proprio sistema immunitario, e ciò accade nel giro di circa sei mesi mentre il restante 70% non si libera del virus stesso e sviluppa un’infezione da HCV a lungo termine o cronica. Non solo, la maggior parte delle persone con epatite C acuta e cronica è asintomatica, così questa malattia può anche richiedere decenni prima di dare manifestazioni clinicamente rilevanti e quindi essere diagnosticata. A quel punto, però, rischia di essere troppo tardi: chi non segue adeguatamente le cure o non è a conoscenza di essere affetto da HCV rischia la degenerazione della patologia sino alla cirrosi epatica o al tumore al fegato, due delle principali complicazioni con conseguente aumento dei costi sanitari e sociali per il trattamento della patologia in stato avanzato. In Italia su questo fronte c’è ancora un margine d’azione importante, sottolineano gli esperti, se si pensa che oltre 200mila persone sono ignare di avere contratto il virus dell’Epatite C e potrebbero scoprirlo con un esame del sangue ad hoc.

La prevenzione, quindi, si conferma ancora una volta come fondamentale sia per preservare la salute dell’individuo sia per garantire una sostenibilità di lungo periodo al Servizio Sanitario Nazionale (SSN), che vede un incremento significativo dei propri costi quando è costretto a curare una malattia in fase conclamata invece che iniziale. La prevenzione, ovviamente, ha una doppia valenza: primaria, cioè legata a una serie di comportamenti e stili di vista che, statisticamente, rendono meno probabile l’insorgere di malattie croniche (tumori, patologie dell’apparato cardiocircolatorio e polmonari), e secondaria, intesa come una serie di screening ed esami che permettono di scoprire in anticipo una malattia o addirittura di individuare un rischio di contrarla più elevato della media.

Vanno in questa direzione le campagne di prevenzione offerte gratuitamente da Assidai ai propri iscritti, presso le strutture convenzionate aderenti all’iniziativa: per esempio, nel 2018 l’iniziativa “Healthy Manager”, prevedeva esami di prevenzione contro il rischio l’ictus attraverso l’esame ecocolordoppler dei tronchi sovraortici mentre quest’anno ha riguardato la prevenzione contro il rischio melanoma con una visita dermatologica e la mappatura dei nei, esami fondamentali in termini di prevenzione per evidenziare eventuali patologie o lesioni tumorali della pelle.

4 strategie per battere l’epatite C

Quali sono le possibili strategie per contrastare l’Epatite C? L’Osservatorio Sanità e Salute ha individuato quattro azioni da mettere in campo.

  1. Il proseguimento della sorveglianza dei pazienti che hanno risposto al trattamento antivirale ma con cirrosi, al fine di cogliere in fase del tutto iniziale l’eventuale evoluzione in carcinoma.
  2. Attività di prevenzione attraverso una sorveglianza stretta delle popolazioni a rischio di reinfezione (tossicodipendenti “attivi”, popolazione carceraria, pazienti già infetti con virus HIV).
  3. Proseguimento dello screening per la presenza dell’infezione.
  4. L’Emersione del sommerso, cioè l’identificazione dei soggetti portatori, anche inconsapevoli, del virus dell’Epatite C al fine di debellare completamente l’infezione.

Un obiettivo, quest’ultimo, certamente ambizioso, che per essere raggiunto necessita di investimenti importanti, ma i vantaggi, anche in termini economici, sarebbero enormi se si pensa ai costi dell’attuale assistenza a centinaia di migliaia di pazienti tra visite ambulatoriali, esami di laboratorio e strumentali, ricoveri, trattamento delle complicanze della cirrosi fino alla necessità di ricorrere al trapianto di fegato.

Una cura italiana contro la cirrosi epatica

Per concludere una buona notizia legata alla cura della cirrosi epatica, una delle possibili “degenerazioni” dell’Epatite C, grazie a uno studio tutto italiano (pubblicato su The Lancet) coordinato da un gruppo di ricercatori dell’Azienda ospedaliera-universitaria Policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna che ha valutato gli effetti di una terapia basata sulla somministrazione cronica di albumina. I risultati sono decisamente interessanti: una riduzione del rischio di mortalità a 18 mesi del 38% accompagnata da minori complicanze e, dunque, meno ospedalizzazioni. Va ricordato che la cirrosi causa ogni anno il decesso di circa 170mila persone in Europa (e circa 15mila solo in Italia) e rappresenta l’evoluzione di molte malattie croniche del fegato, le più frequenti causate da virus, uso inappropriato di alcol e problemi metabolici. Ora, grazie a questi risultati, potrebbe cambiare il percorso di cura dei pazienti. Con la somministrazione settimanale di albumina, al dosaggio di 40 grammi da effettuare in ambulatorio in circa 45-60 minuti, si avrebbe, infatti, oltre alla riduzione del rischio di mortalità a 18 mesi del 38%, anche una diminuzione della frequenza delle principali complicanze, tra cui insufficienza renale (-61%) e encefalopatia epatica (-52%). Con un vantaggio evidente sia per la qualità di vita del malato sia per i profili di costo del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), che potrà così convogliare maggiori risorse su altri fronti senza intaccare la propria sostenibilità nel lungo periodo.

OMS, copertura sanitaria per tutti nel 2030

Garantire a tutti gli individui e a tutte le comunità la possibilità di ricevere i servizi sanitari di cui hanno bisogno senza dover fronteggiare difficoltà economiche: questo è il significato della copertura sanitaria universale, un fronte su cui, da anni, l’Organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS) è impegnata in prima linea e che purtroppo è ancora lontano dall’essere raggiunto. In particolare, l’obiettivo è garantire da una parte l’erogazione e l’accesso a servizi sanitari di alta qualità e dall’altra la protezione dal rischio finanziario per le persone che hanno la necessità di ricorrere a tali cure.

L’espressione servizi sanitari si riferisce a un’ampia gamma di prestazioni che comprende metodi di promozione della salute, prevenzione, trattamento, riabilitazione e cure palliative, oltre all’assistenza sanitaria nelle comunità, nei centri sanitari e negli ospedali. La protezione dal rischio finanziario è parte integrante del pacchetto di misure mirate alla protezione sociale complessiva: è altrettanto importante, infatti, che una persona possa curarsi senza peggiorare in misura significativa la propria condizione economica.

Metà del pianeta senza copertura sanitaria completa

L’attuale situazione mondiale è ancora lontana dal pieno raggiungimento degli obiettivi. Dai dati analizzati, almeno la metà dei 7,3 miliardi di persone nel mondo non gode ancora di una copertura completa dei servizi sanitari essenziali (anche se si riscontra un trend in miglioramento dal 2000); oltre 100 milioni di persone ogni anno cadono in estrema povertà per fronteggiare spese sanitarie personali; il 12% della popolazione mondiale più ricca (Europa e America e alcuni Paesi dell’Asia) ogni anno destinano il 10% del budget famigliare a spese sanitarie personali, cioè “out of pocket”. Senza contare, fa notare ancora l’OMS, l’enorme somma che si potrebbe risparmiare in termini di spese mediche e di assistenza ai malati se davvero in tutto il mondo si potesse contare su una copertura sanitaria universale e su una adeguata “cultura” della prevenzione.

Il quadro, insomma, è chiaro e ci permette di ritrovare – su scala globale – tutti i temi e i principi su cui si regge il modello e la filosofia di Assidai. Ovvero: la necessaria presenza di un Servizio Sanitario pubblico e l’auspicabile sviluppo di un complementare pilastro integrativo che contribuisca alla sostenibilità della componente pubblica, riducendo al contempo le spese out of pocket (tallone d’Achille, tra i Paesi industrializzati, soprattutto dell’Italia).  In questo contesto, ad ogni modo, l’OMS ha fissato un obiettivo finale ambizioso: garantire la copertura sanitaria essenziale a tutta la popolazione mondiale entro il 2030 mentre il target più a breve termine, cioè entro il 2023, è estenderla ad almeno a un altro miliardo di persone nel mondo e dimezzare a 50 milioni il numero di coloro che finiscono in povertà estrema a causa delle spese sostenute per la propria salute.

Tre strade verso la copertura sanitaria

Come centrare questi obiettivi? La risposta dell’OMS è semplice e si articola su tre azioni principali.

Innanzitutto, bisogna lavorare sui sistemi sanitari nazionali, rafforzandone le strutture finanziarie, anche ricorrendo alla sanità integrativa. Laddove i cittadini pagano di tasca propria per ricevere cure, e più poveri sono addirittura costretti a rinunciarvi – sottolinea l’OMS – bisogna favorire lo sviluppo di fondi sanitari integrativi o di assicurazioni obbligatorie che consentano di diminuire il rischio finanziario legato a una malattia.

In secondo luogo, un ruolo cruciale spetta alla popolazione lavorativa sana che deve sottoporsi a screening e protocolli di prevenzione che aiutano a preservare la propria salute o a scoprire, con buon anticipo, malattie croniche dagli effetti potenzialmente devastanti.

Infine, c’è il tema della ricerca: quando gli Stati membri dell’OMS si sono impegnati a raggiungere la copertura sanitaria universale hanno lanciato anche un’agenda per accelerare quel processo che porta a trasformare le idee promettenti in soluzioni pratiche per il miglioramento dei servizi sanitari, e di conseguenza per il miglioramento della salute. La ricerca è stata e sarà sempre fondamentale per il miglioramento della salute umana.

In ogni caso, l’OMS ha messo a punto il portale “The Global Health Observatory” dedicato alla visualizzazione interattiva dei dati sulla copertura sanitaria universale al fine di tracciare i progressi fatti nel mondo verso il raggiungimento di questo obiettivo dove si possono consultare i passi avanti fatti nel pianeta.

L’Italia al top nella classifica dell’OMS

Come si valuta, nella sostanza, la presenza o meno della copertura sanitaria essenziale in un determinato Paese? L’OMS utilizza 16 servizi sanitari essenziali suddivisi in quattro categorie come indicatori del livello e della equità della copertura nei vari Stati.

Si parte dalla salute riproduttiva, materna, neonatale e infantile in cui si valutano, tra l’altro, l’assistenza prenatale e il parto e l’immunizzazione completa del bambino. In secondo luogo, c’è il tema delle malattie infettive, in particolare il trattamento di tubercolosi e HIV, la copertura di zanzariere trattate con insetticida per la prevenzione della malaria e servizi igienici adeguati. In terzo luogo, c’è il tema cruciale delle malattie non trasmissibili, di cui si valuta prevenzione e trattamento. Infine, viene analizzata la capacità di servizio e accesso agli ospedali e alle strutture sanitarie.

La buona notizia è che in base a questi parametri il Servizio Sanitario Nazionale italiano spicca in Europa e nel mondo. Si attesta infatti sui livelli di Francia, Gran Bretagna, Olanda, Giappone e Stati Uniti (tutti Paesi con un punteggio superiore a 80 punti su un totale massimo raggiungibile di 100), sopravanzando di un punto la Germania, che si ferma a 79. L’ennesima conferma del ruolo essenziale della sanità pubblica italiana, che tuttavia va difesa – nei suoi principi e nelle sue caratteristiche distintive – favorendo lo sviluppo di un secondo pilastro privato, che garantirà la sostenibilità del SSN alla luce delle dinamiche demografiche e delle ristrettezze di spesa pubblica.

Perché alcune persone si ammalano di cancro più di altre?

Un recente studio realizzato da un gruppo di scienziati dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO), pubblicato di recente sulla rivista scientifica Nature Genetics e finanziato dallo European Research Council (ERC), evidenzia che il 40% dei tumori si può prevenire con stili di vita adeguati. Cioè eliminando del tutto fattori esogeni ed evitabili come alcol, obesità, fumo, sedentarietà, esposizione al sole eccessiva o senza adeguata protezione, oppure diete ad alto contenuto di zuccheri e carni rosse e a basso contenuto di frutta, legumi e vegetali. Si tratta di una conclusione importante, che conferma e rafforza la posizione di Assidai su questo tema: la prevenzione primaria è il principale strumento a disposizione per diminuire l’incidenza delle malattie croniche, che nei Paesi industrializzati sono la principale causa dei decessi e delle situazioni di non autosufficienza. Patologie simili, peraltro, sono un dramma umano, per il malato e per le famiglie, ma anche un enorme spesa per lo Stato e prevenirle aiuta in misura significativa la sostenibilità dei conti del Servizio Sanitario Nazionale.

Lo studio di Vogelstein-Tomasetti e il ruolo del “caso”

Al momento, però, il vero tema su cui tutti gli studiosi del mondo si interrogano è l’interpretazione delle statistiche, che vedono purtroppo un acuirsi del cancro nel mondo. In particolare: perché nel corso della propria vita, un uomo su 2 e una donna su 3 si ammalano? O meglio: stabilito che un tumore si sviluppa quando una singola cellula accumula 6 o 7 alterazioni del Dna a carico di particolari geni, che cosa determina le alterazioni stesse?

Negli ultimi anni vi stato un forte dibattito all’interno della comunità scientifica a seguito della pubblicazione, avvenuta nel 2015 sulla rivista Science, di una ricerca firmata da Bert Vogelstein e Cristian Tomasetti, rispettivamente genetista e biostatistico della Johns Hopkins University di Baltimora, che stimava l’incidenza della trasformazione spontanea delle cellule normali in tumorali, sulla base del numero di cellule staminali presenti e della loro frequenza di riproduzione nei diversi organi. Lo studio tuttavia si è prestato a una lettura distorta, al di là delle intenzioni degli autori, che ha portato alla divulgazione di un messaggio fuorviante che associava lo sviluppo del cancro alla casualità. In realtà, a leggere bene la ricerca, Vogelstein e Tomasetti non assolvevano affatto fumo, raggi del sole e altri fattori di rischio legati agli stili di vita. Ecco perché due anni dopo, sempre su Science, i due studiosi hanno voluto chiarire alcuni concetti in base a nuove analisi, sottolineando – dati alla mano – come circa due terzi delle mutazioni genetiche (e non tutte) che danno vita al cancro dipendono da errori casuali. Tuttavia, hanno fatto notare, dire che il 66% delle mutazioni sono casuali non vuol dire che il 66% dei casi di cancro è dovuto alla sfortuna e quindi non è prevenibile.

Ad ogni modo, il concetto da cui sono partiti i ricercatori dello IEO per lo sviluppo del nuovo studio mette proprio in discussione la casualità delle traslocazioni cromosomiche, ovverosia uno dei due tipi di alterazioni genetiche trovate nei tumori, ed evidenzia come le alterazioni genetiche più frequenti per lo sviluppo del cancro non avvengono casualmente nel genoma, ma sono prevedibili e soprattutto provocate dall’ambiente esterno alla cellula.

La nuova frontiera della prevenzione del cancro

In sintesi, lo studio dei ricercatori dello IEO, guidati da Piergiuseppe Pelicci, Direttore della Ricerca IEO e professore di Patologia generale all’Università di Milano, e Gaetano Ivan Dellino, Ricercatore IEO e di Patologia generale dell’Università di Milano, in collaborazione con il gruppo diretto da Mario Nicodemi, Professore all’Università di Napoli Federico II, hanno dimostrato come le alterazioni geniche sono la conseguenza di un particolare tipo di danno a carico del DNA, ossia la rottura della doppia elica. Lo hanno fatto analizzando le cellule normali e tumorali del seno e scoprendo su queste cellule che né il danno al DNA né le alterazioni geniche avvengono casualmente. Il danno si verifica infatti all’interno di geni con particolari caratteristiche e in momenti precisi della loro attività. Si tratta di geni più lunghi della media e che, pur essendo “spenti”, sono perfettamente attrezzati per “accendersi”. La rottura del DNA avviene nel momento in cui arriva un segnale che li fa accendere. È proprio studiando queste caratteristiche che, sostiene il team di ricercatori, si possono prevedere quali geni si romperanno con una precisione superiore all’85%. Insomma, un’ulteriore frontiera della prevenzione – in questo caso con una sorta di screening preventivo – che in futuro potrebbe aiutare a diminuire la diffusione della malattia più temuta degli ultimi decenni.

Ricerca che conferma le parole del Direttore del Programma di Senologia e della Divisione di Senologia Chirurgica presso l’Istituto Europeo di Oncologia, Professor Paolo Veronesi, in un’intervista concessa qualche mese fa alla rivista Welfare 24 di Assidai: un giorno, grazie al miglioramento delle cure e anche alla prevenzione primaria, il cancro verrà sconfitto.