Welfare aziendale, il report del Ministero del Lavoro

Negli ultimi anni, in Italia, il welfare aziendale ha vissuto uno sviluppo importante. Grazie a diversi interventi legislativi da parte del Governo, quell’insieme di benefit e servizi forniti da un’azienda ai propri dipendenti (e talvolta anche ai loro familiari) come forma integrativa della normale retribuzione monetaria, è diventato ormai un punto fermo anche per il nostro Paese. Al riguardo, va precisato, ci sono diverse indagini che periodicamente scattano una fotografia dello stato dell’arte del settore, ma è ormai consolidato il fatto che il welfare aziendale sia diffuso in più di un’azienda su due.

Un punto di osservazione privilegiato del fenomeno, che ovviamente ha visto una fortissima accelerazione dal 2016 (quando il Governo, attraverso la Legge di Bilancio, ha inaugurato una serie di agevolazioni fiscali) è il report periodico del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sul deposito telematico dei contratti aziendali e territoriali che prevedono la detassazione dei premi o, in alternativa, l’erogazione di servizi di welfare aziendale. E anche questo documento conferma la significativa espansione del welfare stesso.

Il quadro normativo del welfare aziendale

Per inquadrare meglio la situazione è necessario fare il punto sull’attuale normativa. A seguito del Decreto Interministeriale del 25 marzo 2016, che disciplina l’erogazione dei premi di risultato, la partecipazione agli utili di impresa con tassazione agevolata e prevede misure di welfare aziendale, dal 29 aprile 2016 il deposito dei contratti aziendali e territoriali di secondo livello deve avvenire esclusivamente in modalità telematica, senza recarsi cioè presso gli Uffici Territoriali del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. L’obiettivo? Monitorare le prassi attuate dalle singole imprese o a livello locale, verificandone la conformità alle norme di legge. Il regolare deposito, infatti, sarà necessario per poter usufruire della detassazione poiché i contratti aziendali e territoriali rappresentano uno strumento fondamentale per favorire nelle aziende gli incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione.

Altro caposaldo della normativa introdotta dalle Leggi di Stabilità 2016 e 2017 è stato il regime di tassazione zero per i dipendenti che scelgono di convertire i premi di risultato del settore privato di ammontare variabile in benefit compresi nell’universo del welfare aziendale stesso (con il perimetro di quest’ultimo che è stato via via esteso con ulteriori interventi legislativi allargandolo per esempio all’educazione, all’istruzione e alla copertura per la non autosufficienza – Long Term Care). In alternativa, come già previsto, i benefit saranno soggetti a un’imposta sostitutiva dell’IRPEF e delle addizionali regionali e comunali pari al 10 per cento.

I numeri: la crescita del welfare aziendale

Detto ciò, i numeri forniti dal Ministero del Lavoro danno uno spaccato interessante del fenomeno e dimostrano la diffusione sempre più significativa del welfare aziendale. Allo scorso 14 gennaio, infatti, 10.272 dichiarazioni di conformità si riferivano a contratti tuttora attivi: di queste 7.653 erano attinenti a contratti aziendali e 2.619 a contratti territoriali. Oltre la metà, inoltre, per l’esattezza 5.843 prevedevano misure di welfare aziendale, 7.901 si proponevano di raggiungere obiettivi di produttività, 6.075 di redditività, 4.705 di qualità e 1.222 contemplavano un piano di partecipazione. Ancora più significativa, tuttavia, è la scomposizione tra coloro che hanno scelto di vedersi corrispondere un premio di produttività (che già in passato prevedeva una tassazione agevolata del 10%) e chi invece ha scelto il welfare aziendale a tassazione zero. Ebbene, complessivamente hanno scelto la prima strada 1.719.346 lavoratori contro 1.673.307 che hanno optato per la seconda, di fatto percorribile solo da qualche anno. Il valore annuo medio del premio è stato di 1.293 euro per la prima categoria e di 1.342 euro per la seconda.

In generale, prendendo invece come riferimento tutti i 10.272 contratti tuttora attivi, la distribuzione geografica era per l’80% al Nord, per il 14% al centro e per il 6% al Sud. Inoltre, il 53% di essi era relativo ai servizi, il 46% all’industria e solo l’1% all’agricoltura. Infine, per quanto riguarda la dimensione aziendale, il 55% delle imprese aveva meno di 50 dipendenti, il 32% oltre 100 e il 13% tra 50 e 99.

Assidai e il welfare aziendale: un binomio vincente

L’ultimo studio presentato dall’ISTAT evidenzia come all’interno delle aziende il benessere personale e un corretto bilanciamento tra vita lavorativa e vita privata rappresentano fattori positivi sia per i manager sia per i dipendenti in generale, perché accrescono il benessere organizzativo generale all’interno dell’azienda stessa e aumentano il livello di energia e motivazione dei singoli. E, di conseguenza, incrementano la produttività, aiutando anche ad affrontare i cambiamenti organizzativi necessari per tenere il passo della competitività. Dai dati emersi da numerose indagini di mercato sul tema del welfare aziendale, si evidenzia come l’assistenza sanitaria integrativa sia uno dei benefit maggiormente richiesti all’interno delle aziende.

In tale contesto, Assidai, Fondo di assistenza sanitaria integrativa, eroga i propri servizi in favore di manager, quadri e professionisti e delle loro famiglie mettendo loro a disposizione i migliori Piani Sanitari per le persone e utilizzando tecnologie avanzate per consentire l’accesso alla propria area riservata in assoluta sicurezza. Inoltre, il servizio di Customer Care Assidai è a completa disposizione degli iscritti dal lunedì al venerdì, dalle ore 8.00 alle ore 18.00, e risponde alle domande e richieste di supporto.

I Piani Sanitari Assidai riservati alle aziende sono diversi e i vantaggi sia per le aziende stesse che per i lavoratori sono numerosi. Inoltre, i decision maker delle aziende industriali possono valutare direttamente con Assidai la costruzione di Piani Sanitari ad hoc, personalizzabili proprio sulla base delle esigenze presentate al Fondo di assistenza sanitaria dalle aziende e dai lavoratori.

Conciliazione vita-lavoro e sgravi contributivi

Per il biennio 2017-2018, era stata avviata anche una sperimentazione per favorire la conciliazione dei tempi di vita e lavoro all’interno delle aziende: è lo sgravio contributivo previsto dall’articolo 25 del Decreto Legislativo n. 80/2015 e attuato secondo le modalità del Decreto Interministeriale del 12 settembre 2017.

L’agevolazione riguardava i contratti aziendali sottoscritti dal 1° gennaio 2017 al 31 agosto 2018 che promuovevano misure di conciliazione per i dipendenti, migliorative rispetto alle previsioni di legge o del CCNL di riferimento. In generale, le linee di intervento individuate dal Decreto erano tre: il sostegno alla genitorialità, la flessibilità organizzativa e l’erogazione di servizi di welfare aziendale a favore dei lavoratori.

I datori di lavoro che intendevano usufruire della decontribuzione dovevano inviare un’apposita istanza sul portale INPS e, preventivamente, effettuare il deposito telematico del contratto aziendale, anche qualora si trattasse del recepimento di un contratto territoriale di secondo livello.

Diamo anche in questo caso una breve scorsa ai numeri registrati. Allo scorso 14 gennaio erano state compilate 4.121 dichiarazioni di conformità, di cui 2.546 corrispondenti a depositi validi anche ai fini della detassazione e 1.575 solo a fini della decontribuzione. Inoltre, sono 1.706 le dichiarazioni che si riferiscono a contratti tuttora attivi.

Obesità e cambiamenti climatici: quale futuro per il mondo?

La malnutrizione non è più solo carenza di cibo, ma eccesso del cosiddetto “junk food”, cioè cibo di bassa qualità: il numero di bambini e adolescenti obesi nel mondo è così passato dagli 11 milioni del 1975 ai 124 milioni del 2016, vale a dire un aumento di 11 volte in circa 40 anni. A denunciarlo è un rapporto pubblicato proprio in questi giorni e realizzato da UNICEF, Organizzazione Mondiale della Sanità e Lancet – il suo titolo è “A Future for the World’s Children?” – che più in generale lancia un allarme ancora più forte: il mondo sta fallendo nel fornire ai bambini una vita sana e un clima adatto al loro futuro. L’obesità, peraltro, oltre a essere causa di forte sofferenza per chi ne è affetto, è legata a doppio filo a un altro concetto chiave in ottica prospettica: la sostenibilità e, più in generale, il futuro del pianeta. Un altro recente studio, pubblicato dalla rivista Obesity, sottolinea, infatti, come a livello globale l’obesità contribuisce a un eccesso di 700 mega-tonnellate (una mega tonnellata è un miliardo di chili) di emissioni di anidride carbonica l’anno, pari a circa l’1,6% di tutte le emissioni prodotte dall’uomo.

L’allarme di Lancet: il futuro dei bambini a rischio

Partiamo dall’analisi di Lancet, secondo cui inquinamento, cambiamenti climatici, obesità e strategie aziendali tese solo al raggiungimento del profitto “minacciano da vicino la salute e il futuro di ogni bambino e adolescente nel mondo” e 250 milioni sotto i 5 anni rischiano di non raggiungere il loro potenziale di sviluppo. Secondo Helen Clark, ex premier della Nuova Zelanda e copresidente della Commissione di esperti che ha redatto il rapporto il momento è cruciale: la salute dei bambini e degli adolescenti è migliorata negli ultimi 20 anni, ma i progressi si sono fermati, e sono addirittura destinati a tornare indietro. Il motivo? Circa 250 milioni di bambini sotto i cinque anni nei Paesi a medio e basso reddito rischiano di non raggiungere il loro potenziale di sviluppo. Inoltre, più di 2 miliardi di persone vivono in Paesi in cui lo sviluppo stesso è ostacolato da crisi umanitarie, conflitti, disastri naturali, tutti problemi sempre più legati al cambiamento climatico.

Poi c’è sicuramente il tema dell’obesità e della cattiva alimentazione: in alcuni Stati – sottolineano gli esperti – i bambini vedono fino a 30mila annunci pubblicitari in televisione ogni anno. Una delle responsabilità è legata a comunicazioni “aggressive” che spingono i piccoli da subito verso i cibi somministrati da fast food e incentivano l’uso di bevande zuccherate.

La classifica “sostenibile” di 180 Paesi

Alla luce di questa situazione, lo studio ha lanciato un nuovo indice globale di 180 Paesi, che valuta il benessere dei più piccoli in termine di salute, istruzione e nutrizione, con l’indice della sostenibilità, ovvero una misurazione indicativa delle emissioni di gas serra e i divari di reddito.

In questa speciale classifica l’Italia assicura una qualità di vita relativamente buona ai bambini e agli adolescenti, ma non pensa al loro futuro, visto che scivola nelle retrovie per la sostenibilità. Il nostro Paese si colloca infatti al 26esimo posto per l’indice di sopravvivenza e del benessere dei più piccoli mentre è solo al 134esimo posto per quanto riguarda le emissioni di anidride carbonica pro-capite. I cinque Paesi che assicurano ai bambini le migliori condizioni sono Norvegia, Repubblica coreana, Paesi Bassi, Francia e Irlanda mentre in coda alla classifica ci sono Repubblica Centrafricana, Ciad, Somalia, Niger e Mali. Inoltre, per quanto riguarda le emissioni di anidride carbonica pro-capite, gli Stati Uniti, l’Australia e l’Arabia Saudita sono tra i dieci Paesi con i dati peggiori.

Meno obesità e meno emissioni

Il tema delle emissioni viene collegato in maniera ancora più diretta all’obesità da un altro studio “The Environmental Foodprint of Obesity”, pubblicato su Obesity – l’organo ufficiale di The Obesity Society (TOS) – da esperti dell’Università di Copenaghen, dell’Alabama e dell’ateneo di Auckland in Nuova Zelanda. La loro tesi?

“Le dimensioni corporee medie degli esseri umani sono in aumento e insieme alla crescita della popolazione globale potrebbero ostacolare ulteriormente i tentativi di ridurre le emissioni di gas serra”.

Si sottolinea, infatti, come “tutti gli organismi dipendenti dall’ossigeno sul pianeta producono anidride carbonica a causa dei processi metabolici necessari per sostenere la vita. Quindi, la produzione totale di anidride carbonica di qualsiasi specie è collegata al tasso metabolico medio, alla dimensione corporea media e al numero totale di individui della specie”.

È logico dunque pensare, secondo i ricercatori, che le persone obese producono più anidride carbonica da metabolismo ossidativo rispetto agli individui con peso normale. Inoltre, per mantenere un fisico più pesante è necessario produrre e trasportare più alimenti e bevande per i consumatori e dunque si aumenta il consumo di combustibili fossili. Tradotto in numeri, a livello globale l’obesità contribuisce a un eccesso di 700 mega-tonnellate (una mega tonnellata è un miliardo di chili) di emissioni di CO2 l’anno, pari a circa l’1,6% di tutte le emissioni prodotte dall’uomo. Complessivamente l’obesità è risultata associata a un 20% in più di emissioni di gas serra se confrontata con le emissioni di persone normopeso. Ecco perché, secondo gli autori, questi dati non devono spingere a stigmatizzare le persone sovrappeso (“che soffrono già di atteggiamenti e discriminazioni negative”) ma piuttosto offrire ai Governi nazionali un motivo in più per sviluppare, finanziare e attuare strategie preventive e terapeutiche nella lotta all’obesità: il vantaggio oltre che in termini di salute e di risparmio sui costi sanitari sarebbe infatti anche per l’ambiente.

Obesità, un problema anche per l’Italia

Anche in Italia, il Paese che ha inventato la dieta mediterranea, il tema dell’obesità e degli individui in sovrappeso non è purtroppo da sottovalutare. Anzi, Assidai lo ha sempre evidenziato e descritto con approfondimenti e interviste sul proprio sito e nelle comunicazioni agli iscritti. Stando agli ultimi dati, nel nostro Paese è in sovrappeso oltre una persona su tre (il 36%, con preponderanza dei maschi, che arrivano al 45,5% contro il 26,8% tra le donne), obesa 1 su 10 (10%) e diabetica più di 1 su 20 (il 5,5% per l’esattezza). Una situazione preoccupante, alla quale se ne aggiunge una specifica che riguarda i più piccoli: in Italia la percentuale di bambini e adolescenti obesi è aumentata di quasi tre volte nel 2016 rispetto al 1975.

Lottare contro l’obesità significa anche diffondere una corretta educazione alimentare – è da preferire una dieta mediterranea che privilegia verdure e pesce riducendo al minimo grassi, zuccheri e alcol – ed evitare in tutti i modi la sedentarietà, puntando invece su un’attività fisica, anche moderata, da svolgere più volte a settimana. Tutti temi su cui Assidai ha da tempo preso posizione così come sul fatto che l’obesità possa rappresentare un fattore di rischio per la tenuta del nostro Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Le istituzioni più autorevoli stimano infatti che in Italia l’obesità colpisca 6 milioni di persone (22 milioni di persone nel nostro Paese sono da considerarsi sovrappeso) per un costo annuo stimato in 9 miliardi di euro che gravano sulla sanità pubblica, già provata dai noti trend demografici sfavorevoli. Ecco perché una lotta consapevole all’obesità può aiutare anche il nostro Servizio Sanitario Nazionale a conservare, con il supporto dei fondi sanitari integrativi, le proprie caratteristiche uniche di equità e universalità.

Decade Nutrizione ONU e impegno dell’Italia

Al proposito, va sottolineato, come il nostro Paese – attraverso il Ministero della Salute – ha adottato precisi impegni a livello nazionale e internazionale per raggiungere gli obiettivi ONU e garantire alla popolazione l’accesso a diete sane ed equilibrate. Questo tema è stato presentato da Assidai su un recente numero di Welfare 24, newsletter del Fondo di assistenza sanitaria integrativa realizzata in collaborazione con Il Sole 24 Ore, in un articolo dedicato alla Decade di azione sulla Nutrizione delle Nazioni Unite. L’Italia si è mossa nell’ambito di due documenti chiave “globali” in quanto approvati dalle Nazioni Unite. Stiamo parlando degli obiettivi dell’Agenda 2030 per uno sviluppo sostenibile, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2015, e della risoluzione “United Nations Decade of Action on Nutrition”, più nota come “Decade Nutrizione”. Quest’ultima è stata promossa nel 2016 e ha avviato azioni importanti per porre fine alla fame e alla malnutrizione a livello mondiale, assicurando l’accesso universale a regimi alimentari più sani e sostenibili, per tutte le persone, indistintamente e ovunque esse vivano.

In questo contesto l’Italia si è impegnata con i propri partner a seguire determinate linee d’azione. Tra queste c’è stato il lancio di campagne di promozione dell’allattamento al seno, che costituisce – secondo l’opinione di molti esperti – l’alimentazione migliore e più naturale per neonati e bambini, ma anche l’implementazione di azioni specifiche a tutela delle donne, spesso più vulnerabili alle carenze nutrizionali rispetto agli uomini. Inoltre, sono state avviate iniziative per la prevenzione del sovrappeso e dell’obesità infantili, su cui sono già stati stretti accordi con l’industria del settore alimentare per la riformulazione degli alimenti (soprattutto per i bambini) e il miglioramento delle loro caratteristiche nutrizionali; infine è stato dato il via a programmi di educazione alimentare all’interno delle scuole e delle comunità locali con interventi e studi pilota.

Rapporto CENSIS: welfare alla prova demografica

Le dinamiche demografiche, in particolare il graduale invecchiamento della popolazione, mettono a rischio il sistema di welfare italiano, soprattutto per quanto riguarda gli anziani non autosufficienti. Non solo: la sanità pubblica italiana resta un pilastro e un punto di riferimento ma viene sempre più “combinata” con quella privata. Sono questi alcuni dei principali messaggi contenuti nel 53esimo Rapporto CENSIS sulla situazione sociale del Paese vista attraverso la lente degli indicatori demografici. Va ricordato che questo corposo studio, diffuso di recente, è uno dei documenti di indagine più accreditati sui significativi fenomeni socio-economici del nostro Paese, che da un decennio vive peraltro una forte trasformazione. Per questo il CENSIS affronta a 360 gradi il cruciale tema del “sentiment” dell’Italia, a partire dalla fiducia nel presente e nel futuro e dalla soddisfazione per la propria condizione economica e sociale, per arrivare poi alla formazione, al lavoro, alla rappresentanza, alla cittadinanza, al territorio, alle reti e appunto a welfare e sanità.

La flessione demografica: sempre più anziani

Partiamo dal nodo demografico, confermato di recente anche dall’ISTAT, che determinata una serie di effetti a catena rilevanti. Dal 2015, anno di inizio della prima flessione demografica, in Italia ci sono 436.066 cittadini in meno nonostante l’incremento di 241.066 stranieri residenti.

Nel 2018 – rilevano dal CENSIS – i nuovi nati sono stati 439.747, cioè 18.404 in meno rispetto al 2017 e sempre nello stesso anno anche i figli nati da genitori stranieri sono stati 12.261 in meno rispetto a cinque anni fa. Gli effetti della caduta delle nascite si combinano con quelli dell’invecchiamento demografico, determinato dall’allungamento della vita media, fenomeno a sua volta legato al miglioramento delle cure e alle caratteristiche uniche di equità e universalità della nostra sanità pubblica. Non è un caso che l’Italia si contenda il primato di Paese europeo più longevo insieme con la Spagna. Vediamo i numeri, allargando la prospettiva al passato e al futuro: nel 1959 gli under 35 erano 27,9 milioni (il 56,3% della popolazione complessiva) e gli over 64 erano 4,5 milioni (il 9,1%). Tra vent’anni, su una popolazione ridotta a 59,7 milioni di abitanti, gli under 35 saranno 18,6 milioni (il 31,2%) e gli over 64 saranno 18,8 milioni (il 31,6%). Sul calo della popolazione giovanile, peraltro, hanno pesato anche le emigrazioni verso l’estero: in un decennio più di 400mila cittadini italiani 18-39enni hanno abbandonato l’Italia, cui si sommano gli oltre 138mila giovani con meno di 18 anni.

Il rapporto degli italiani con la sanità

Il rapporto degli italiani con la sanità, secondo il Censis, è sempre più improntato a una logica combinatoria: per avere ciò di cui hanno bisogno per la propria salute, si rivolgono sia al Servizio Sanitario Nazionale, sia a operatori e strutture private a pagamento. Nel 2018, il 62% degli italiani che ha svolto almeno una prestazione nel pubblico ne ha fatta anche almeno una nella sanità a pagamento: il 56,7% di chi ha un reddito basso e il 68,9% di chi ha un reddito di oltre 50mila euro annui. Insomma, il Servizio Sanitario Nazionale resta sempre il punto di riferimento ma a volte – soprattutto per abbreviare i tempi, sottolinea il CENSIS – ci si rivolge al di fuori di esso. La riprova? Sempre nel 2018, secondo il CENSIS, su 100 prestazioni rientranti nei Livelli Essenziali di Assistenza che i cittadini hanno provato a prenotare nel pubblico, 27,9 sono transitate nella sanità a pagamento.

Ovviamente il fattore demografico, con l’aumento dell’età media e delle necessità di assistenza di soggetti anziani, rischia di aumentare la pressione sulla sanità pubblica. Questa dinamica determina la necessità di un’integrazione tra sanità pubblica e fondi integrativi mantenendo tuttavia alcuni punti fermi: la prima resta e deve restare il pilastro a livello nazionale e la seconda è chiamata a svolgere un ruolo complementare. Tutti questi sono temi da sempre sostenuti da Assidai. Così facendo infatti il Servizio Sanitario Nazionale potrà preservare in ottica futura le proprie prerogative, a vantaggio di tutta la popolazione, tenendo ferme le caratteristiche di universalità ed equità della sanità pubblica.

Il nodo della non autosufficienza

Infine, c’è il tema della non autosufficienza – Long Term Care che il CENSIS abbina al vocabolo “solitudine”. Il motivo? Oggi in Italia le persone non autosufficienti sono 3.510.000 (+25% dal 2008), in grande maggioranza anziani: l’80,8% ha più di 65 anni; il generale il 20,8% degli anziani non è autosufficiente e l’80,4% è affetto da almeno una malattia cronica. Secondo l’indagine le risposte pubbliche a questo fenomeno, destinato a crescere alla luce dell’invecchiamento della popolazione, sono insufficienti e inadeguate: solo il 3,2% degli anziani in situazione di parziale o totale non autosufficienza è assistito dalla rete pubblica. Il 56% degli italiani dichiara infatti di non essere soddisfatto dei principali servizi socio-sanitari per i non autosufficienti presenti nella propria regione. Inevitabilmente, l’onere dell’assistenza ricade direttamente sulle famiglie, chiamate a contare sulle proprie forze economiche e di cura. Per il 33,6% delle persone con un componente non autosufficiente in famiglia le spese di welfare pesano molto sul bilancio familiare, contro il 22,4% rilevato sul totale della popolazione. Forte è la richiesta delle famiglie di un supporto anche economico: il 75,6% degli italiani è favorevole ad aumentare le agevolazioni fiscali per le famiglie che assumono badanti.

Come detto, le dinamiche demografiche rischiano di spostare ulteriormente gli equilibri. L’aspettativa di vita alla nascita, nel 2018, era di 85,2 anni per le donne e 80,8 per gli uomini ma le previsioni al 2041 salgono rispettivamente a 88,1 e 83,9 anni. Oggi gli over 80 rappresentano già il 27,7% del totale degli over 64 e saranno il 32,4% nel 2041. Non solo, aggiunge il CENSIS, la moltitudine dei cosiddetti “caregiver” rischia di assottigliarsi perché la composizione familiare è da tempo in rapida trasformazione: aumentano i nuclei unipersonali e le famiglie monogenitoriali mentre si riducono le famiglie con figli, così come il numero medio di componenti familiari.

L’offerta Assidai per la Long Term Care

Anche sul tema della non autosufficienza Assidai si è sempre mosso con tempismo mettendo a disposizione dei propri iscritti e delle loro famiglie ampie coperture per la Long Term Care. Negli ultimi cinque anni, infatti, ha migliorato per tre volte le prestazioni offerte estendendo per esempio la copertura stessa al coniuge o al convivente more uxorio oppure ampliando la stessa nel caso di presenza di figli minori.

Tutti i vantaggi della Long Term Care Assidai sono consultabili sul nostro sito, a conferma di un impegno che come Fondo di assistenza sanitaria consideriamo fondamentale per il futuro della popolazione italiana e del nostro Paese.

Al via il nuovo Patto per la Salute 2019-2021

Un aumento dei finanziamenti al Servizio Sanitario Nazionale per 3,5 miliardi di euro, un potenziamento dei LEA (i Livelli Essenziali di Assistenza), una ulteriore spinta sulla prevenzione e un ammodernamento della normativa dei fondi sanitari integrativi. Sono questi alcuni dei capisaldi del “Patto per la Salute 2019-2021” approvato definitivamente dalla Conferenza Stato-Regioni lo scorso dicembre.

Un documento che rafforza la centralità e il ruolo della sanità pubblica italiana, nota in tutto il mondo per le caratteristiche di equità e universalità nell’accesso alle cure, che tuttavia oggi e soprattutto domani dovrà affrontare sfide cruciali, a partire dall’invecchiamento della popolazione, comuni a tutti i principali partner europei.

“Il Paese è più unito e vuole investire nuovamente, con tutta l’energia possibile, nel comparto salute”, ha dichiarato – commentando l’accordo – il Ministro della Salute, Roberto Speranza, sottolineando come l’obiettivo da qui alla fine della legislatura, annunciato insieme al Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, sia quello di dedicare altri 10 miliardi in più alla sanità.

“Proveremo ogni giorno a migliorare il nostro Servizio Sanitario Nazionale (SSN) – ha aggiunto il Ministro –. Questa approvazione del Patto per la Salute è un fatto positivo e rilevante, ma è anch’esso un punto di partenza per costruire una sanità più in grado di rispondere alle domande dei cittadini”.

Più investimenti e spinta sui LEA

Vediamo allora che cosa prevede nel dettaglio il nuovo Patto per la Salute. A partire da un aumento delle risorse pubbliche destinate al SSN per il triennio 2019-2021: dai 114.474.000.000 euro del 2019 si passerà infatti ai 116.474.000.000 euro per il 2020 e ai 117.974.000.000 euro per il 2021. Complessivamente si tratta di 3,5 miliardi in più che verranno dunque investiti sulla sanità pubblica.

Un altro elemento cruciale riguarda i Livelli Essenziali di Assistenza (i cosiddetti LEA), cioè le prestazioni e i servizi che il Servizio Sanitario Nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket), con le risorse pubbliche raccolte attraverso la fiscalità generale (tasse). Su questo punto – si legge nel Patto per la Salute – Governo e Regioni convengono sulla necessità di completare al più presto il percorso di attuazione del Decreto del gennaio 2017, che fissava appunto i nuovi LEA, attraverso l’approvazione di un decreto che individui le tariffe per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale e di assistenza protesica, consentendo così l’entrata in vigore dei relativi Nomenclatori sull’intero territorio nazionale.

Non solo, Governo e Regioni – si aggiunge – “convengono sulla necessità di consolidare gli importanti risultati fino ad oggi ottenuti dalle politiche di risanamento economico finanziario perseguite negli anni passati considerando prioritario il rafforzamento della funzione universalistica e di garanzia dell’equità del Servizio Sanitario Nazionale”. Ciò verrà fatto “indirizzando le azioni e le politiche verso il recupero delle differenze che ancora oggi persistono tra le Regioni e all’interno delle Regioni stesse”.

Il ruolo chiave della prevenzione

Il nuovo Patto per la Salute punta anche sullo sviluppo dei servizi di tutela e di prevenzione della salute, che Assidai, nella propria attività, persegue con costanza e convinzione offrendo gratuitamente ai propri iscritti ogni anno un protocollo di prevenzione (l’ultimo è stato quello contro il melanoma). Recita il documento:

“Il mutato contesto socio-epidemiologico, l’allungamento medio della durata della vita e il progressivo invecchiamento della popolazione, con il costante incremento di situazioni di fragilità sanitaria e sociale, l’aumento della cronicità e la sempre più frequente insorgenza di multi-patologie sul singolo paziente, impongono una riorganizzazione dell’assistenza territoriale”.

Essa – si evidenzia nel documento pubblicato sul sito del Ministero della Salute – dovrà promuovere, attraverso modelli organizzativi integrati, attività di prevenzione e promozione della salute e percorsi di presa in carico della cronicità per favorire gli investimenti sull’assistenza socio-sanitaria e sanitaria domiciliare, lo sviluppo e l’innovazione dell’assistenza semiresidenziale e residenziale, in particolare per i soggetti non autosufficienti”.

Più in concreto, Governo e Regioni vogliono puntare, tra l’altro su “interventi basati su evidenze di costo, efficacia, equità e sostenibilità, finalizzati alla promozione di stili di vita sani e alla rimozione dei fattori di rischio correlati alle malattie croniche non trasmissibili”, che oggi sono i principali killer a livello mondiale, in particolare nei Paesi occidentali. Per scendere ancor più nello specifico, si concorda, per lo screening mammografico “sulla necessità di ampliare le fasce di età interessate nell’ambito delle risorse programmate per il Servizio Sanitario Nazionale” mentre le malattie croniche vanno contrastate attraverso “promozione della salute, diagnosi precoce e presa in carico, secondo un approccio integrato tra prevenzione e cura”.

Fondi sanitari integrativi, verso una revisione normativa

Un altro argomento chiave affrontato dal nuovo Patto per la Salute è quello dei fondi sanitari integrativi. Governo e Regioni convengono di “istituire un gruppo di lavoro con una rappresentanza paritetica delle Regioni rispetto a quella dei Ministeri, che, entro sei mesi dalla sottoscrizione del patto, concluda una proposta di provvedimento volta all’ammodernamento e alla revisione della normativa sui fondi sanitari ai sensi dell’articolo 9 del Dlgs 502/1992, e sugli altri enti e fondi aventi finalità assistenziali”. Ciò al fine di “tutelare l’appropriatezza dell’offerta assistenziale in coerenza con la normativa nazionale, di favorire la trasparenza del settore, di potenziare il sistema di vigilanza, con l‘obiettivo di aumentare l’efficienza complessiva del settore a beneficio dell’intera della popolazione e garantire un’effettiva integrazione dei fondi con il Servizio sanitario nazionale”, procedendo al contempo ad “un’analisi degli oneri a carico della finanza pubblica”.

La necessità di un’integrazione tra sanità pubblica e fondi integrativi, con la prima che resta il pilastro a livello nazionale e la seconda che svolge un ruolo complementare, così come la necessità di un’adeguata vigilanza, sono temi da sempre sostenuti da Assidai; in questo modo, il Servizio Sanitario Nazionale potrà conservare intatte in futuro le proprie prerogative, a vantaggio di tutta la popolazione, tenendo ferme le caratteristiche di universalità ed equità della sanità pubblica.

Legge di Bilancio 2020: restano gli incentivi per il welfare aziendale

La Legge di Bilancio 2020 non ha modificato gli attuali incentivi e agevolazioni fiscali in termini di welfare aziendale. Anche in quella del 2019 il Governo, dopo tre anni consecutivi di riforme con cui è stato creato un “ecosistema” normativo certamente favorevole, aveva deciso di lasciare in essere l’attuale struttura legislativa, introducendo con il Bonus famiglia soltanto alcune agevolazioni legate al welfare in senso lato.

Dunque, il quadro normativo resta valido e permetterà certamente un ulteriore sviluppo del welfare aziendale nei prossimi mesi, dopo i significativi risultati già ottenuti nell’ultimo triennio. È anche vero, tuttavia, che l’attuale trend demografico (l’Italia sarà il secondo Paese più vecchio del mondo nel 2050) e la dinamica della spesa sanitaria privata impongono riflessioni sulla necessità di fornire un supporto integrativo privato alle strutture pubbliche. E con esse l’opportunità di rafforzare ulteriormente le agevolazioni per il welfare aziendale, diventato ormai – con particolare riferimento alla sua componente sanitaria – una componente rilevante delle relazioni industriali, rafforzando al tempo stesso il suo ruolo di integrazione e complementarietà rispetto alle misure più classiche di welfare.

Le attuali agevolazioni fiscali per il welfare

È utile riepilogare, nel dettaglio, quali sono le attuali agevolazioni fiscali, che hanno comunque permesso al welfare aziendale di diffondersi a macchia d’olio (circa in un’azienda su due) con una forte preponderanza del ramo salute, consentendo al contempo all’Italia di avvicinarsi significativamente ai principali partner europei in questo settore. È utile partire da un concetto molto chiaro, che fa intuire l’importanza di questo strumento in un’ottica di cuneo fiscale: 100 euro investiti in welfare aziendale corrispondono a una spesa di 100 euro netti per l’azienda e a 100 euro spendibili per il dipendente.

La Manovra 2017, come quella del 2016, era intervenuta con misure ad hoc lavorando su due punti. Innanzitutto, aveva allargato il perimetro del welfare aziendale che non concorre al calcolo dell’Irpef. Aveva incluso infatti servizi come l’educazione, l’istruzione e ulteriori benefit, sempre erogati dal datore di lavoro, per poter fruire di servizi di assistenza destinati a familiari anziani o comunque non autosufficienti. In secondo luogo, aveva allargato, nei numeri, l’area della tassazione zero per i dipendenti che scelgono di convertire i premi di risultato del settore privato di ammontare variabile in benefit compresi nell’universo del welfare aziendale. In alternativa i benefit saranno soggetti a un’imposta sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali regionali e comunali pari al 10 per cento. Nel dettaglio, il tetto massimo di reddito di lavoro dipendente che consente l’accesso alla tassazione agevolata è di 80mila euro, mentre gli importi dei premi erogabili sono di 3mila euro nella generalità dei casi e di 4mila euro per le aziende che coinvolgono pariteticamente i lavoratori nell’organizzazione del lavoro. Infine, la sanità integrativa può andare oltre il limite di deducibilità previsto dalle norme fiscali utilizzando il premio di produttività.

Le novità 2020 nel welfare aziendale: buoni pasto e auto aziendali

Quanto illustrato fin qui resta valido anche nel 2020. L’ultima Manovra ha introdotto – sempre riguardo al welfare aziendale e affini – solo alcune piccole revisioni riguardanti l’articolo 51 del TUIR, la normativa che definisce la composizione del reddito da lavoro dipendente e il suo trattamento fiscale, agendo in particolare sulle auto a uso promiscuo (cioè i veicoli aziendali) e sui buoni pasto. Per quest’ultimi è stato deciso infatti un aumento del limite di esenzione fiscale del ticket elettronico da 7 a 8 euro e una contestuale riduzione della deducibilità del cartaceo (da 5,29 a 4 euro). Per quanto riguarda invece le cosiddette auto aziendali è stata introdotta una tassazione correlata e proporzionale ai valori di emissione di anidride carbonica. Va precisato, tuttavia, che le nuove regole si applicheranno dal primo luglio 2020 e solo ai veicoli di nuova immatricolazione.

Welfare aziendale, prospettive e margini di crescita

Quali sono invece oggi le prospettive per il welfare aziendale e su quali aspetti bisognerebbe incidere maggiormente per potenziarlo? Queste misure di agevolazione fiscale sono state utilizzate in maniera crescente per favorire la creazione di uno spazio complementare che affiancasse i tradizionali istituti del welfare. Per esempio, sullo sviluppo della previdenza e della sanità integrativa che interessano oggi milioni di lavoratori, allargando spesso i benefici anche ai familiari. È chiaro che le attuali dinamiche demografiche e di spesa pubblica rendono ancora più urgente questo processo, a maggior ragione per salvaguardare le caratteristiche uniche al mondo del nostro Servizio Sanitario Nazionale.

Ma c’è un altro aspetto: il welfare aziendale è il “ponte” che ha permesso di costruire negli anni un nuovo rapporto, non più antagonista, tra dipendente e datore di lavoro, laddove il dipendente può usufruire di alcuni benefit che lo mettono in condizioni migliori (fisiche e psicologiche) per offrire il proprio contributo all’azienda. Un ragionamento che vale anche per i manager: in quest’ottica i pacchetti di welfare, soprattutto sanitario, rappresentano per i responsabili del personale uno strumento in più per remunerare i dirigenti più meritevoli o per trattenere i talenti più richiesti sul mercato a costi più contenuti – grazie al cuneo fiscale – per ambo le parti. È ormai opinione condivisa che il benessere personale e un corretto bilanciamento tra vita lavorativa e privata generano benefici per i dipendenti, perché accrescono il benessere organizzativo generale all’interno di un’azienda e il livello di energia, di motivazione e di produttività dei singoli.

La posizione di Assidai

In quest’ottica Assidai ha sempre sostenuto il welfare aziendale come strumento da mettere a disposizione dei lavoratori e, in particolare, dei propri manager, quadri e professionisti iscritti che, alla luce dei gravosi impegni lavorativi e della scarsità di tempo libero a disposizione, dimostrano sempre più di apprezzare una struttura flessibile ed efficiente come quella del nostro Fondo di assistenza sanitaria integrativa. I Piani Sanitari Assidai riservati alle aziende sono vari e i vantaggi sia per aziende che per i lavoratori sono numerosi; inoltre, i decision maker possono valutare con Assidai la costruzione di Piani Sanitari ad hoc, personalizzati proprio sulla base delle caratteristiche richieste dalle aziende e dai lavoratori.

Quarto rapporto Secondo welfare: serve un sostegno per il Paese

Il mondo sta cambiando. Non solo in Italia ma in diversi Paesi europei la stagnazione economica, il persistere di una generale condizione di austerità, l’instabilità politica e un sistema pubblico che fatica nel rispondere adeguatamente a rischi e bisogni sociali dei cittadini stanno iniziando a intaccare la struttura del cosiddetto welfare statale. Al contempo, tuttavia, cresce e si rinforza la schiera degli attori privati – sia profit che non profit – che, spesso lavorando insieme attraverso alleanze inedite, intervengono sussidiariamente nelle aree di bisogno lasciate anche parzialmente scoperte dal pubblico: è il mondo del cosiddetto Secondo Welfare.

Ad analizzarlo, in un lungo e approfondito studio diffuso di recente, è stato il “Quarto Rapporto sul secondo welfare in Italia”, documento biennale realizzato da Percorsi di secondo welfare, Laboratorio afferente al Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi di Torino e realizzato in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano, che analizza le principali dinamiche sociali in atto in Italia ponendo particolare attenzione a esperienze innovative messe in atto da imprese, parti sociali, enti del Terzo Settore e gruppi di cittadini.

Le difficoltà del welfare statale

Una sintesi perfetta dello spirito dello studio la offre nella sua introduzione Maurizio Ferrera, Scientific Supervisor di Percorsi di secondo welfare e docente dell’Università degli Studi di Milano.

“Almeno per la maggioranza dei cittadini, il primo welfare fornisce ancora tutele nei confronti di alcuni bisogni essenziali, come malattia, infortunio, disabilità, disoccupazione o indigenza estrema. Anche se in forme meno generose di un tempo, i sistemi pensionistici continuano a sussidiare lunghi periodi di inattività a partire da una certa età, che oggi non coincide più necessariamente con la “vecchiaia” biologica. – sottolinea l’esperto – Ma la scarsità di tutele e servizi a fronte delle nuove e sempre più intense vulnerabilità produce inedite diseguaglianze e nuove povertà. Dunque, osserva, “la sfida per il futuro è chiara: occorre orchestrare il secondo welfare, dare un ordine alla nuova costellazione di rischi e opportunità e ricreare su nuove basi il circolo virtuoso fra mercato e welfare”.

È questa, da tempo, la posizione di Assidai, che in varie occasioni, anche istituzionali, ha sottolineato come il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), avendo caratteristiche uniche per equità e qualità rispetto al resto del mondo, può fruire del supporto, in ottica complementare e non sostitutiva, di fondi di assistenza sanitaria integrativa come il nostro Fondo.

La crescita del Secondo Welfare: i numeri

I numeri snocciolati dal rapporto confermano la crescita del Secondo Welfare. A partire, per esempio, dal welfare occupazionale, in cui si collocano quegli interventi privati di protezione sociale ricevuti dagli individui in ragione della loro condizione lavorativa. Stiamo parlando delle varie forme di welfare contrattuale e welfare aziendale con la sempre maggior diffusione dei fondi sanitari integrativi, come Assidai, e previdenziali.

Ad oggi i fondi sanitari integrativi sono 322, contano 10,6 milioni di iscritti e nel 2018 hanno coperto prestazione per circa 2,3 miliardi; i 33 fondi previdenziali negoziali, invece, contano circa 3 milioni di iscritti per un patrimonio complessivo di 51,7 miliardi. Anche il welfare contrattuale ha numeri importanti: tra il 27,2% e il 32% dei Contratti Collettivi Nazionali garantiscono forme di protezione sociale messe in campo dalle imprese per i lavoratori. Non solo, ben il 53% dei contratti che prevedono premi di risultato permettono la conversione in welfare aziendale.

Ricordiamo per esempio che nel nuovo CCNL dei Dirigenti Industriali sono stati migliorai tutti gli aspetti chiave del rapporto di lavoro con particolare focus sul welfare. Inoltre, per la prima volta, nel contratto stesso è comparso Assidai, in un’ottica di reciproca collaborazione con il Fasi che rafforza il ruolo di entrambi nel panorama della sanità integrativa e contribuisce a salvaguardare il patto intergenerazionale tra dirigenti in servizio e pensionati.

Il primato della sanità nel Secondo Welfare

Ma quali sono gli ambiti maggiormente coperti dal welfare aziendale? Tra le prestazioni più diffuse – anche grazie alla loro vasta presenza nei contratti collettivi di categoria – vi sono l’assistenza sanitaria integrativa (44%) e la previdenza complementare (27%); seguono quelli per l’infanzia e l’istruzione (6%), quelli relativi alla cultura e al tempo libero (5%), gli strumenti di scontistica e il cosiddetto “carrello della spesa” (7%). Sembrano essere marginali invece le forme di assistenza ai familiari anziani o non autosufficienti (3%) e i servizi di trasporto collettivo (2%).

L’attenzione per l’assistenza sanitaria integrativa non stupisce. Al proposito, infatti, il rapporto di Secondo Welfare sottolinea come il peso delle politiche sanitarie in Italia sulla cosiddetta spesa sociale pubblica si sia ridotto nel tempo: dal 26,2% del 2008 al 23,1% del 2016 e 2017. Si osserva anche come il Servizio Sanitario Nazionale, per quanto resti tra i più equi del mondo, sia il comparto che ha subìto gli effetti più negativi delle politiche di austerità adottate a partire dal 2009. Non solo, incrociando le stime fra platea di anziani non autosufficienti con quelle relative all’offerta di servizi disponibili, lo studio conclude che il tasso di copertura pubblica si attesterebbe nel 2016 al 37% per i servizi sociosanitari (residenziali e domiciliari) e al 14,3% per quelli sociali, con livelli di intensità assistenziale nel complesso molto bassi.

Inoltre, c’è anche il tema del trend crescente della spesa sanitaria privata out-of-pocket (cioè a carico diretto dei cittadini), lievitata – nel decennio 2009-2018 – dal 21,7 al 25,8% della spesa sanitaria totale secondo i dati dell’OCSE.

“Una consistente spesa privata out-of-pocket rischia di produrre effetti regressivi sulla distribuzione del reddito e sulle condizioni di salute dei cittadini: in assenza di un soggetto terzo (pubblico o privato) che funga da intermediario fra erogatore e pagatore della spesa sanitaria privata, non si realizza infatti alcuna forma di redistribuzione del rischio, determinando così un aggravio dei costi, soprattutto a carico dei soggetti più svantaggiati dal punto di vista delle condizioni di salute e del reddito disponibile”, conclude lo studio.

L’invecchiamento della popolazione e il ruolo della sanità integrativa

Ecco perché lo sviluppo della sanità integrativa, che può essere “veicolata” attraverso il prezioso strumento del welfare aziendale, non va vissuto come un percorso alternativo alla sanità pubblica, che deve restare e resterà assolutamente centrale in Italia. Piuttosto, il secondo pilastro è il mezzo per preservare la qualità, l’efficienza, l’equità e le risorse del nostro Servizio Sanitario Nazionale, che sarà messo sempre più a dura prova dalle dinamiche demografiche. Nel 2018, fa notare al proposito lo studio di Secondo Welfare, la speranza di vita alla nascita era pari a 85,2 anni per le donne e 80,9 per gli uomini. Si prevede che nel 2050 la quota delle persone con 65 anni o più sul totale della popolazione, attualmente al 22,6%, sfiorerà il 34% e quella degli over 85, oggi intorno al 3,5%, supererà la quota del 7%.

Conciliare vita e lavoro col welfare aziendale

La conciliazione vita-lavoro è un tema cruciale per qualsiasi società moderna e, a tal proposito, alla fine dello scorso anno, l’Istat ha presentato i principali risultati di un approfondimento tematico sulla conciliazione tra lavoro e famiglia, realizzato sulla base dei dati del modulo ad hoc europeo “Reconciliation between work and family life” inserito nella Rilevazione sulle forze di Lavoro nel 2018.

Il report dal titolo “Conciliazione tra lavoro e famiglia”, ha affrontato, quindi, queste tematiche evidenziando che, nel nostro Paese, nell’anno 2018, 12,74 milioni di adulti (persone tra i 18 e i 64 anni), si sono presi cura dei figli minori di 15 anni o di parenti malati, disabili o anziani. Stiamo parlando del 34,6% di tutta la popolazione: oltre un italiano su tre. E tra questi, quasi 650mila persone si sono trovate in una condizione di ulteriore disagio, dovendo occuparsi contemporaneamente sia dei figli minori sia di altri familiari.

Il tema della “cura genitoriale” ha visto secondo l’Istat oltre 10,5 milioni di persone prendersi cura di figli minori di 15 anni e, tra i genitori occupati, il 35,9% delle madri e il 34,6% dei padri hanno rilevato problemi di conciliazione tra il lavoro e la famiglia e poco meno di un terzo dei nuclei familiari con figli minori ha fatto uso di servizi pubblici o privati (a partire dagli asili) perché i servizi stessi sono o senza posti o troppo costosi, mentre il 38% ha potuto contare sull’aiuto di familiari, soprattutto di nonni oppure di amici.

Numeri emblematici di un quadro italiano ancora critico e in cui il rafforzamento del welfare aziendale, che nelle sue svariate forme si concretizza anche sotto forma di supporto al dipendente per la gestione dei bambini o per l’assistenza ai cari purtroppo non più autosufficienti, può sicuramente migliorare la situazione. Del resto, stare alla scrivania con uno spirito più sereno e senza il pensiero di rientrare a casa per rimediare alle emergenze familiari più varie, consente di lavorare con maggiore qualità ed efficienza con vantaggi sia per l’azienda sia per il dipendente: è questo, proprio lo spirito del welfare aziendale. Assidai, per esempio, nella proposta dei propri Piani Sanitari offre una serenità agli iscritti sul tema della salute e prevede la copertura per la non autosufficienza – LTC Long Term Care (migliorata peraltro per tre volte negli ultimi anni) tanto che l’offerta risulta molto valida sia per i singoli Dirigenti, Quadri o Consulenti sia per le aziende che scelgono l’assistenza sanitaria di un Fondo di assistenza sanitaria come Assidai come benefit per i propri dipendenti per offrire loro uno strumento concreto per una reale conciliazione tra il lavoro e le esigenze (o emergenze) familiari.

L’Italia e l’emergenza sulla non autosufficienza

Lo studio dell’Istat dedica una parte specifica al confronto dell’Italia con i partner dell’Unione Europea sul tema della “Responsabilità di cura”: circa 106 milioni di persone di età compresa tra i 18 e i 64 anni hanno dichiarato di avere tali responsabilità; l’Irlanda è il Paese dove la quota di individui è più alta, quasi il 45% della popolazione, le percentuali più basse (circa il 28%) sono invece in Germania e Bulgaria. La media europea si attesta al 34,4% della popolazione e questo è un dato in linea con l’Italia ma solo in apparenza. Questo perché il nostro Paese rispetta la media solo per quanto riguarda la responsabilità di cura nei confronti dei figli minori di 15 anni (26,9%) mentre è addirittura al quarto posto in Europa per la percentuale di persone di 18-64 anni coinvolte esclusivamente nella cura di familiari di 15 anni e non più autosufficienti (quasi il 6%), dopo Grecia (8%), Paesi Bassi (7,7%) e Croazia (6,5%). È il delicato tema della Long Term Care, dove un sostegno privato al pubblico è essenziale per garantire in futuro la sostenibilità del sistema, anche alla luce del trend demografico italiano con stime che ci indicano, nel medio termine, come il Paese più vecchio del mondo dopo il Giappone.

Conciliazione lavoro e famiglia: il ruolo delle madri e dei padri

C’è poi il delicato tema del ruolo svolto dalle madri e dai padri nell’assistenza ai figli o di donne e uomini in generale nella cura dei familiari non più autosufficienti. Qualche numero? Nella fascia di età tra i 45 e i 64 anni, in sei casi su dieci sono proprio le donne (un milione e 343 mila) ad avere questo tipo di responsabilità: tra queste una su due è occupata (49,7%). Dal confronto con le donne che non hanno questo tipo di responsabilità emerge un divario tra i tassi di occupazione pari a quasi 4 punti percentuali mentre il possesso di un titolo di studio pari o superiore alla laurea, invece, riduce la differenza tra le donne con e senza responsabilità a soli 1,9 punti.

Ma ci sono altri numeri rilevanti: l’11,1% di donne con almeno un figlio non ha mai lavorato per prendersi cura dei figli contro il 3,7% della media europea; il 38,3% di donne occupate, tra 18 e 64 anni, con figli sotto i 15 anni, è stata costretta a modificare alcuni aspetti professionali per conciliare lavoro e famiglia mentre per i padri con le stesse caratteristiche il valore è pari all’11,9%.

Inoltre, tra gli occupati, quasi il 40% dei 18-64enni svolge attività di cura. Essere impegnati in un’attività lavorativa e allo stesso tempo doversi occupare di figli piccoli o parenti non autosufficienti comporta ovviamente una modulazione dei tempi da dedicare al lavoro e alla famiglia che può riflettersi sulla partecipazione degli individui al mercato del lavoro, soprattutto delle donne, le quali hanno un maggiore carico di tali responsabilità. Ciò si riflette ancora una volta nei numeri forniti dall’Istat: il tasso di occupazione dei padri di 25-54 anni, classe di età in cui è più alta la presenza in famiglia di figli di 0-14 anni, è l’89,3% mentre per gli uomini senza figli coabitanti è pari all’83,6%. Situazione diversa per le donne, che risultano più penalizzate: il tasso di occupazione delle madri di 25-54 anni è al 57%, quello delle donne senza figli coabitanti è al 72,1%. I tassi di occupazione più bassi si registrano in particolare tra le madri di bambini in età prescolare: 53% per le donne con figli di 0-2 anni e 55,7% per quelle con figli di 3-5 anni.

Difficoltà e compromessi nella conciliazione vita-lavoro

La conciliazione dei tempi di lavoro con quelli della vita familiare risulta difficoltosa per più di un terzo degli occupati (35,1%) con responsabilità di cura nei confronti di figli. Quasi la stessa proporzione di padri e madri di bambini sotto i 15 anni ha dichiarato infatti che c’è almeno un aspetto nell’attuale lavoro che rende difficile conciliare la vita familiare e quella professionale (34,6% e 35,9%, rispettivamente), in particolare quando i figli sono più di uno o in età prescolare.

Le principali difficoltà? Orario di lavoro lungo, eventuali turni serali o durante il fine settimana e la natura stessa del lavoro, ritenuto impegnativo o faticoso. Logico quindi che si debba scendere a dei compromessi, in cui gioca un ruolo preponderante la riduzione dell’orario (24% delle madri e 3,2% dei padri), seguita dalla modifica dell’orario stesso senza una sua riduzione. Quest’ultimo aspetto merita un’ulteriore analisi. Nel 2018, il 22,5% degli occupati con figli di 0-14 anni ha dichiarato di aver apportato un cambiamento nel lavoro attuale – leggi “compromesso” – per prendersi cura dei figli (cambiamento o riduzione dell’orario, cambiamento di lavoro o altra modifica). Ma se è vero che padri e madri riportano problemi di conciliazione in ugual misura, sono soprattutto le donne ad aver modificato qualche aspetto della propria attività lavorativa per meglio combinare il lavoro con le esigenze di cura dei figli: il 38,3% delle madri occupate, oltre 1 milione, ha dichiarato di aver apportato un cambiamento, contro poco più di mezzo milione di padri (11,9%). Del resto, la possibilità di modificare l’orario di inizio o di fine della giornata lavorativa e di assentarsi un’intera giornata per motivi familiari senza dover ricorrere a giornate di ferie – secondo l’analisi dell’Istat – rappresentano importanti strumenti di conciliazione dei tempi vita-lavoro per i dipendenti con responsabilità di cura. Nel 2018 quasi il 39% dei dipendenti tra i 18 e i 64 anni (6 milioni e 862 mila) ha dichiarato di occuparsi di figli con meno di 15 anni o di prendersi regolarmente cura di parenti non autosufficienti di 15 anni e più; tra questi un terzo ha affermato di poter modificare l’orario di inizio o fine della giornata lavorativa ogni volta se ne presenti la necessità.

I servizi pubblici e privati: a volte assenti o troppo cari

C’è poi il tema dei servizi a cui le famiglie possono ricorrere per essere supportati nell’assistenza. Secondo l’indagine dell’Istat, il 31% dei nuclei familiari con figli coabitanti di 0-14 anni si avvale regolarmente per almeno uno dei figli di servizi pubblici o privati, come asili nido, scuole materne, pre o post scuola, ludoteche, baby-sitter o altro. La percentuale è più alta al Nord (34,5%) e al Centro (33,3%) e più bassa nel Mezzogiorno (24,9%).

Perché invece a volte non ci si avvale dei servizi pubblici o privati? Tra le madri di figli di 0-14 anni che dichiarano di non utilizzare i servizi circa il 15% ne avrebbe bisogno; tale quota sale al 23,2% per chi ha figli tra 0 e 5 anni, a 19,1% tra le non occupate e al 17,5% per le residenti nel Mezzogiorno. Le motivazioni per le quali non si ricorre all’utilizzo dei servizi sono perché troppo costosi (9,6%) oppure assenti o senza posti disponibili (4,4%).

È chiaro come, a fronte di questa situazione, il welfare aziendale può rappresentare una valida soluzione, sia per gli individui sia per le aziende, per migliorare la conciliazione tra famiglia e lavoro e per tendere verso un completo annullamento di differenze di genere.

conciliazione vita-lavoro - istat 2019

Fonte: Istat

 

Ad Assidai il prestigioso riconoscimento 100 Eccellenze italiane

Il 6 dicembre 2019, presso la Sala della Protomoteca in Campidoglio a Roma, Assidai è stato insignito del prestigioso riconoscimento “100 Eccellenze Italiane”. Ha ritirato il Premio il Presidente, Dott. Tiziano Neviani.

Siamo lieti del prestigioso riconoscimento che ci è stato assegnato dall’Osservatorio delle eccellenze italiane e con il patrocinio della Presidenza del Consiglio. Assidai da 29 anni si prende cura di oltre 120.000 persone garantendo loro assistenza sanitaria integrativa e protezione ogni giorno e soprattutto nei momenti più delicati della loro vita, ha sottolineato Neviani.

Premiare i protagonisti e le aziende della migliore Italia, in virtù del prezioso contributo fornito da ciascuno di essi alla crescita del nostro Paese e raccontare attraverso la storia di 100 Eccellenze Italiane il volto di chi, con il Suo impegno quotidiano, contribuisce a valorizzare l’Italia. Sono queste le finalità del Premio “100 Eccellenze italiane” giunto alla Sua quinta edizione e ideato dall’editore Riccardo Dell’Anna.

“Essere stati premiati insieme ad altre importanti aziende italiane e professionisti di grande spessore ci riempie di orgoglio. Questo riconoscimento è simbolico ma rappresenta per Assidai la conferma di anni di impegno concreto per migliorare le prestazioni garantite in favore degli iscritti e per rendere i processi sempre più efficaci, senza dimenticare mai i valori distintivi che guidano il nostro Fondo a partire dai principi di mutualità e solidarietà.”, ha aggiunto Neviani.

Il riconoscimento è stato dato alla presenza delle massime autorità tra cui il dott. Aldo Carosi, Vicepresidente Vicario della Corte Costituzionale, Prefetto Emanuela Garroni, ViceCapo di Gabinetto Vicario del Ministero degli Interni, Cons. Elena Lorenzini, Vicecapo di Gabinetto del Ministero Sviluppo Economico, Ambasciatore Giorgio Marrapodi, Direttore Generale della Cooperazione al Ministero degli Esteri, Prefetto Silvana Riccio, Segretario Generale del Ministero dell’Ambiente, il dott. Silvestro Scotti, Segretario Gen. Nazionale della FIMMG Federazione italiana medici di medicina generale, Avv. Carlo Sica, Avvocato Generale Aggiunto dello Stato e l’Avv. Bernadette Veca, Direttore Generale del Ministero Infrastrutture e Trasporti.

Modificati 2 articoli del Regolamento Assidai

L’Assemblea Ordinaria di Assidai, riunitasi in data 6 dicembre 2019, conformemente a quanto previsto dall’articolo 6 dello Statuto del Fondo, ha deliberato modifiche al Regolamento proposte dal Consiglio di Amministrazione del Fondo. Di seguito diamo evidenza dei soli punti oggetto delle modifiche stesse.

Art.7 – Contributi

comma 2: Fermo restando il carattere annuale del contributo interamente dovuto all’atto dell’iscrizione e dei successivi rinnovi (di seguito il “Contributo Annuale”), per le adesioni in forma individuale è ammesso il pagamento del Contributo Annuale in quattro rate trimestrali, mediante domiciliazione bancaria (SEPA). In caso di mancato e/o ritardato pagamento anche di una sola delle rate trimestrali, sarà facoltà del Fondo disporre, fermo il diritto al pagamento del Contributo Annuale e agli interessi di mora nella misura del 5%, la cessazione dell’iscrizione con efficacia retroattiva dal 1° gennaio e con conseguente diritto alla ripetizione delle prestazioni erogate successivamente alla predetta data.

comma 6: In caso di decesso in corso d’anno e di pagamento rateizzato del Contributo Annuale, quest’ultimo dovrà comunque essere corrisposto al Fondo nella Sua interezza stante quanto stabilito al precedente comma 2.

comma 8: Per gli iscritti in forma collettiva, in caso di cessazione in corso d’anno del rapporto di lavoro, il contributo annuale versato non potrà essere restituito; al dirigente/quadro/consulente, interessato dalla variazione, verrà garantita la copertura sanitaria fino al 31 dicembre dell’anno in cui la variazione si verifica, con il piano sanitario originariamente prescelto.

Art.9 – Prestazioni

Paragrafo Esclusioni – Sub 2 – B.3
Eliminazione Lettera f

Clicca qui per visualizzare a scaricare il regolamento completo.

Rapporto Oasi 2019: la sanità pubblica è a una svolta

Nei giorni scorsi è stato presentato il Rapporto OASI 2019 (Osservatorio sulle aziende e sul sistema sanitario italiano) a cura degli studiosi del Cergas SDA Bocconi, coordinati da Francesco Longo e Alberto Ricci. Ciò che si evidenzia all’interno del volume è che il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) conferma di avere messo in sicurezza i propri conti, anche se emergono alcune difficoltà nel tenere il passo con l’espansione del più ampio settore sanitario; è importante, quindi, che il Sistema stesso vada a ridefinire la propria missione. L’espansione e la diversificazione della sanità, infatti, si scontrano con la contrazione delle fonti di finanziamento: il tutto produce un tasso di copertura del Sistema Sanitario Nazionale sulla spesa sanitaria, già oggi al 74%, e che molto probabilmente è destinato a diminuire. Insomma, oggi la sanità pubblica italiana – che si distingue ancora in tutto il mondo per equità e universalità del servizio offerto – riesce ancora a camminare sulle proprie gambe: a dirlo sono i dati del 2018 con 119,1 miliardi di spesa e soli 149 milioni di disavanzo. Il tema vero è: in futuro, a fronte delle sfide rappresentate dall’invecchiamento della popolazione e dalla graduale contrazione della spesa pubblica, riuscirà a fare lo stesso?

Secondo Francesco Longo, Direttore di Oasi, ricercatore del Cergas Bocconi (di cui è stato Direttore dal 2006 al 2012) e Professore Associato del Dipartimento di Analisi delle Politiche e Management Pubblico presso l’Università Bocconi, proprio alla luce di questi ragionamenti è “cruciale chiarire la missione del SSN”. Le strade sono tre:

“Una focalizzazione sui soli servizi finanziati dal settore pubblico; una regia della filiera produttiva che preveda anche la regolazione del mercato a pagamento e il governo dell’integrazione tra i due ambiti; oppure un’interpretazione olistica, orientata alla tutela della salute, con l’ambizione di influenzare l’intero settore e gli stili di vita”.

Senza dimenticare il ruolo cruciale della sanità integrativa, che può supportare il pubblico e aiutarlo a mantenere le proprie caratteristiche distintive.

I numeri della sanità italiana

Qualche numero offre un quadro più completo della situazione. La spesa sanitaria pubblica pro-capite in Italia è pari a 1.900 euro, ovvero l’80% di quella inglese, il 66% di quella francese e il 55% di quella tedesca. Inoltre, secondo i ricercatori della Bocconi, alla luce di una delle più alte aspettative di vita al mondo (83 anni), accompagnata da uno dei più bassi indici di natalità (1,32 figli) e dalla previsione Istat di un rapporto di 1 a 2 tra pensionati e popolazione in età di lavoro entro il 2040, il Servizio Sanitario Nazionale non sembra essere in grado di tenere il passo con la crescita dei bisogni. Ciò lo si deduce anche guardando al passato. Tra il 2000 e il 2018 gli occupati nella sanità sono aumentati del 18% a 1,4 milioni (nello stesso periodo, i residenti sono cresciuti del 6% e l’occupazione in generale del 10%), ma a questo incremento ha contribuito prevalentemente il settore privato, anche se in tutto ciò la buona notizia è che nel 2018, per la prima volta dal 2009, è tornato a crescere (di 384 unità) il numero di medici del SSN. Anche in termini di spesa, tra il 2012 e il 2018, il privato ha superato il pubblico, con una crescita del 16% rispetto a un Servizio Sanitario Nazionale che riesce appena a coprire la crescita dell’inflazione. La componente principale della spesa privata, con 35,7 miliardi, rimane quella out of pocket delle famiglie, ancora troppo poco “intermediata” dalla sanità integrativa che nel 2018 ha coperto 4,2 miliardi (dato comunque in crescita del 31% dal 2012).

Le possibili soluzioni e il ruolo della sanità integrativa

Come uscire da questa situazione di futuro impasse per il Servizio Sanitario Nazionale? Come detto, gli esperti della Bocconi paventano tre possibili scenari, ma sottolineano anche il possibile ruolo del settore privato nell’intermediazione della spesa out of pocket. Al proposito, fanno notare che “il ruolo della compartecipazione potrebbe assumere particolare rilevanza nei Paesi in cui la spesa pubblica è sempre più soggetta a vincoli di budget e dove, come tendenza generalizzata, si è ridotta la copertura pubblica negli ultimi anni”.

In quest’ottica la compartecipazione “può evolvere concettualmente da semplice sostituto della spesa pubblica a contributo per un upgrade qualitativo dei servizi” e dunque “invece che rappresentare uno strumento iniquo che porta alla rinuncia alle cure, la compartecipazione potrebbe rappresentare uno dei primi driver della diffusione di nuovi servizi e tecnologie, liberando così risorse pubbliche per i servizi essenziali e prioritari”. Del resto, aggiungono gli esperti, il calo della ricchezza generata e delle risorse pubbliche a disposizione e il contemporaneo aumento dei bisogni di salute e assistenza, rischiano di imporre “scelte collettive inevitabilmente più conflittuali tra le generazioni e tra i diversi cluster sociali maggiormente coinvolti nelle dinamiche redistributive”.

È questa anche la posizione di Assidai, che da Fondo sanitario integrativo imperniato sui concetti di mutualità e solidarietà riconosce il ruolo cruciale, primario e insostituibile del Servizio Sanitario Nazionale come spina dorsale del sistema, e da sempre sostiene il ruolo complementare dei fondi rispetto alla sanità pubblica, in modo che quest’ultima possa continuare ancora per molto tempo a giocare il proprio ruolo cruciale per il Paese.