Allarme demenza nel mondo: casi triplicati nel 2050

Nei prossimi 30 anni i casi di demenza (o di malattie associate ad essa) sono destinati a triplicare nel mondo. È l’allarme lanciato da un nuovo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica inglese “The Lancet”, secondo cui il numero di persone affette da demenza aumenterà drasticamente, passando dai 57 milioni di casi del 2019 a oltre 153 milioni di casi nel 2050.

Lo studio nel dettaglio

La ricerca è stata condotta dagli scienziati dell’Institute for Health Metrics and Evaluation (IHME), che hanno valutato i possibili casi di demenza in 195 paesi e territori in varie parti del globo, sottolineando che attualmente essa rappresenta la settima causa di morte in tutto il mondo e una delle principali ragioni di disabilità e dipendenza tra le persone anziane, con costi globali che, secondo le stime, per il 2019 ammontavano a oltre 1000 miliardi di euro. Da che cosa è causata? L’aumento previsto è in gran parte dovuto all’invecchiamento e alla crescita della popolazione, ma anche a stili di vita non salutari e a un basso grado di istruzione.

Secondo i ricercatori, i fattori di rischio che devono essere affrontati con urgenza e che rappresentano oltre sei milioni di casi dell’aumento previsto includono alti tassi di fumo, obesità e diabete. Insomma, ancora una volta parliamo di stili di vita salutari che, come sappiamo, rappresentano il principale strumento a nostra disposizione per diminuire l’incidenza delle malattie croniche, prima causa di decessi a livello mondiale. Un concetto, questo, che Assidai non manca di sottolineare ai propri iscritti, anche con iniziative di divulgazione ad hoc, perché si tratta di uno dei punti di partenza fondamentali per condurre un’esistenza in buona salute.

L’aumento maggiore sarà in Africa, Europa +74%

Analizziamo la situazione a livello geografico. Il modello previsionale utilizzato dai ricercatori stima che l’aumento più significativo si verificherà nell’Africa subsahariana orientale, dove si prevede un aumento del 357% dei casi di demenza, che passeranno da circa 660 mila nel 2019 a oltre 3 milioni nel 2050. L’incremento più contenuto, invece, si stima nell’Asia del Pacifico ad alto reddito, dove si pronostica che il numero di casi crescerà del 53%, da 4,8 milioni registrati nel 2019 a 7,4 milioni tra meno di 30 anni. Infine, nell’Europa occidentale gli studiosi hanno calcolato una crescita del 74% per i valori associati all’insorgenza della demenza con incrementi relativamente contenuti in Grecia (45%), Italia (56%), Finlandia (58%). Come detto, i ricercatori ipotizzano che l’invecchiamento della popolazione possa giocare un ruolo fondamentale in questi valori. Tuttavia, c’è anche una potenziale buona notizia: un maggiore accesso all’istruzione, se effettivamente realizzato, potrebbe tuttavia ridurre di 6 milioni il numero di casi di demenza entro il 2050.

Le donne più “esposte” rispetto agli uomini

Un altro elemento notato dai ricercatori è che il sesso femminile è più colpito dalla demenza, con circa 40% di casi in più rispetto agli uomini, e questo andamento rimarrà probabilmente stabile anche nei prossimi decenni. La differenza non è soltanto dovuta al fatto che le donne sono in media più longeve, ma ci sarebbero evidenze che i meccanismi biologici alla base della malattia cambino a seconda del sesso. In particolare, un’ipotesi è che l’Alzheimer si diffonda diversamente nel cervello di uomini e donne e numerosi fattori di rischio genetici sono collegati al sesso.

I rimedi per invertire il trend crescente

Alla luce di questa situazione come agire per frenare il trend di crescita esponenziale previsto per la demenza a livello globale? “Il nostro lavoro – ha dichiarato la leader del team di ricerca, Emma Nichols – offre previsioni accurate sulla demenza a livello mondiale. Speriamo che i dati che abbiamo ottenuto siano utili per lo sviluppo di trattamenti efficaci, ma anche per i responsabili politici e gli esperti di salute pubblica. Le informazioni che abbiamo ottenuto potrebbero guidare scelte e decisioni più consapevoli in materia di prevenzione e contrasto della demenza”.

Il presupposto è che attualmente non abbiamo cure risolutive contro l’Alzheimer e le altre forme di demenza, patologie complesse e multifattoriali, studiate approfonditamente soltanto negli ultimi 35-40 anni. Certo, la ricerca sta compiendo passi in avanti su vari fronti e agendo su diversi possibili meccanismi sottostanti. Tuttavia, a fronte di una diffusione sempre maggiore del problema e di un carico molto gravoso, per il singolo e i suoi familiari, ma anche per i sistemi sanitari, la prevenzione resta uno strumento essenziale.

A tal proposito, gli autori dello studio richiamano l’attenzione sulla necessità urgente di politiche che mettano in primo piano buone abitudini relativi allo stile di vita, alla sana alimentazione e all’attività fisica fino all’aumento dei tassi di scolarizzazione; senza sottovalutare una cattiva gestione del diabete di tipo 2, della pressione e del colesterolo che potrebbero avere un ruolo, come anche l’insonnia. Infine, alcuni elementi che potrebbero rinforzare le abilità riguardano non solo l’esercizio fisico, ma anche quello mentale, con test e giochi cognitivi, e probabilmente anche un maggiore coinvolgimento sociale.

L’alimentazione contro la demenza: una ricerca giapponese

A proposito di stili di vita e di alimentazione e del loro influsso sulla demenza, va ricordato un altro recente studio condotto dall’Università giapponese di Tsukuba, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica “Nutritional Neuroscience”. Secondo i ricercatori una dieta ricca di fibre può rappresentare un alleato importante anche contro questa patologia. Per dimostrare la propria tesi, gli studiosi giapponesi hanno coinvolto 3.739 soggetti adulti a cui è stato chiesto di completare una serie di questionari che ne hanno analizzato i regimi alimentari tra il 1985 ed il 1999. Nel complesso, i partecipanti erano persone generalmente sane e di età compresa tra 40 e 64 anni che, in seguito, sono state monitorate tra il 1999 ed il 2020, per verificare se avessero sviluppato una qualche forma di demenza. I risultati hanno fatto emergere che coloro che si collocavano nel gruppo di partecipanti con il più alto consumo di fibre nella propria dieta personale, avevano manifestato un rischio inferiore di sviluppare forme di demenza.

Valvole cardiache biologiche ingegnerizzate, una scoperta tutta italiana

Nuove valvole biologiche cardiache: una scoperta eccezionale che potrebbe cambiare la vita di circa 400.000 pazienti nel mondo, persone che purtroppo ogni anno hanno bisogno della sostituzione di una valvola cardiaca. L’importante notizia arriva da una ricerca internazionale guidata dall’Italia, con l’Università di Padova, pubblicata sulla prestigiosa rivista “Nature Medicine”, e coordinata dall’immunologo clinico Dott. Emanuele Cozzi, docente del dipartimento di Scienze cardio-toraco-vascolari e Sanità pubblica dell’ateneo veneto.

Le valvole cardiache e le possibili patologie

Ma andiamo con ordine. Che cosa sono le valvole cardiache? La loro funzione è regolare nel modo corretto il flusso di sangue nel cuore. “Il cuore è dotato di quattro valvole, strutture che funzionano come una porta a due o a tre battenti, – spiega un articolo del Ministero della Salute – due si trovano tra gli atri (le camere superiori del cuore) e i ventricoli (le camere inferiori del cuore) e sono la valvola mitrale (tra atrio sinistro e ventricolo sinistro) e la valvola tricuspide (tra atrio destro e ventricolo destro). Le restanti due valvole regolano l’efflusso del sangue tra ventricolo sinistro ed aorta (valvola aortica) e tra ventricolo destro e arteria polmonare (valvola polmonare)”. Quando le valvole, a seguito di qualche patologia, si restringono (stenosi), il sangue passa con più difficoltà dall’atrio al ventricolo (stenosi mitralica, stenosi tricuspidale) oppure dal ventricolo alla circolazione sistemica o polmonare (stenosi aortica, stenosi polmonare). Viceversa, quando le valvole si sfiancano o non chiudono più bene, il sangue refluisce all’indietro, ad esempio dal ventricolo all’atrio (insufficienza mitralica, insufficienza tricuspidale) oppure dall’aorta al ventricolo sinistro (insufficienza aortica) o dall’arteria polmonare al ventricolo destro (insufficienza polmonare). È evidente come, a fronte di queste patologie, si rende necessaria la sostituzione di alcune valvole cardiache e qui entra in gioco la scoperta dell’Università di Padova.

I vantaggi delle nuove valvole biologiche

Le nuove valvole biologiche cardiache, scoperte dai ricercatori dell’Università di Padova, sono ottenute da animali ingegnerizzati – attraverso l’ausilio dell’ingegneria genetica – e sono in grado di evitare il fenomeno della degenerazione. Ma perché le valvole biologiche cardiache ottenute da animali ingegnerizzati hanno diversi vantaggi, potenzialmente rivoluzionari? Le valvole biologiche “normali”, infatti, usate per circa il 60% delle sostituzioni, presentano alcuni inconvenienti, derivanti soprattutto dal fatto che contengono degli antigeni zuccherini che invece non sono presenti nelle valvole umane. Antigeni che – spiegano i ricercatori – inducono una risposta immunitaria che aggredisce il tessuto delle valvole stesse e ne causa un precoce deterioramento, soprattutto in soggetti giovani con un sistema immunitario efficiente. Il rimedio? I pazienti giovani ricevono valvole meccaniche, che però hanno anch’esse un rovescio della medaglia: necessitano di una terapia anticoagulante – tema peraltro a cui recentemente Assidai ha dedicato uno specifico approfondimento, che impone al paziente stili di vita e di lavoro con notevoli limitazioni, evitando quello che può causare traumi e conseguenti emorragie difficilmente contenibili. Tutto ciò – ha dimostrato la ricerca pubblicata su “Nature Medicine” – non avviene per le valvole cardiache biologiche ottenute da animali ingegnerizzati.

I numeri e i risultati della ricerca

Analizziamo i numeri e i risultati della ricerca. Essa è stata condotta per cinque anni su 1.668 pazienti che hanno ricevuto valvole biologiche presso i centri di cardiochirurgia dell’Ospedale Bellvitge di Barcellona, dell’Ospedale Universitario Vall d’Hebron di Barcellona, dell’Ospedale Universitario di Manitoba, dell’Ospedale Universitario di Nantes e dell’Azienda Ospedale-Università di Padova. L’obiettivo era chiarire se la risposta anticorpale diretta contro le molecole di zuccheri presenti sulle valvole di derivazione animale potesse portare a un deterioramento valvolare precoce attraverso un processo di calcificazione. Il risultato? In generale, dal primo mese successivo all’impianto di valvole biologiche, il livello degli anticorpi diretti contro le molecole zuccherine aumenta significativamente. In un modello animale la presenza di questi anticorpi è in grado in un mese di causare depositi di calcio nelle valvole biologiche e quindi di determinarne il deterioramento. Al contrario, se si impiantano valvole provenienti da animali ingegnerizzati in modo da non produrre le molecole zuccherine, gli anticorpi non “aggrediscono” la valvola e non inducono la calcificazione dei tessuti.

La possibile prevenzione

Premesso che le malattie valvolari possono essere presenti dalla nascita (valvulopatie congenite) oppure svilupparsi nel corso della vita a seguito di diverse malattie, l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) sottolinea che per esse purtroppo “non esiste una vera e propria prevenzione” .

In generale, tuttavia, come per le altre malattie cardiovascolari, è consigliabile mantenere il peso forma, non fumare, svolgere attività fisica in modo regolare, mantenere la pressione del sangue sotto i livelli normali e seguire una dieta sana ed equilibrata”. Insomma, si tratta di praticare quotidianamente la cosiddetta prevenzione primaria, che Assidai sostiene da tempo per evitare il più possibile l’insorgere di malattie croniche (tumori, diabete, patologie cardiocircolatorie), responsabili a loro volta della maggior parte dei decessi a livello mondiale.

In conclusione, sia per le valvulopatie presenti alla nascita (congenite) sia per la maggior parte di quelle acquisite non è possibile attuare misure di prevenzione specifiche neanche per rallentarne il deterioramento nel tempo; per questo è fondamentale, una volta scoperta la malattia, seguire i controlli pianificati dagli specialisti e intervenire tempestivamente con misure chirurgiche adeguate, appena le condizioni lo richiedono, al fine di evitare ulteriori complicazioni.

Curare il cancro a tavola, un’alimentazione corretta potenzia le cure

Una restrizione calorica molto severa durante le cure oncologiche crea uno choc metabolico che può aiutare a contrastare il cancro? È questa la domanda a cui hanno risposto i ricercatori dell’Istituto nazionale dei tumori (Int) e dell’Istituto Fondazione FIRC di Oncologia Molecolare (Ifom) di Milano, che hanno condotto uno studio, finanziato dalla Fondazione Airc, su 101 pazienti in cura contro la malattia più temuta. Del resto, come affermato da diversi studi in materia, i regimi alimentari molto restrittivi sono da considerarsi buone armi contro i tumori.

Il vero tema piuttosto è un altro: quanto sono tollerabili da chi è in cura, nei giorni non certo facili in cui viene somministrata la chemioterapia o l’immunoterapia? Si tratta di un quesito cruciale: il cancro, insieme con le patologie cardiocircolatorie e il diabete, rappresenta una delle principali cronicità a livello globale. Il primo passo – come ricorda sempre Assidai nelle informative ai propri iscritti – è prevenire queste patologie con stili di vita e di alimentazione adeguati. È altrettanto evidente che, nella sfortunata ipotesi in cui ci si trovi ad affrontare l’insorgenza di un tumore, diventa cruciale individuare delle tecniche di cura il più possibili efficaci. Tra queste ci potrebbe appunto essere una “dieta-terapia” con uno choc metabolico da accoppiare alle cure più classiche. In sostanza si tratta di “affamare il cancro”: in futuro, sostengono alcuni ricercatori, per combatterlo bisognerà combinare terapie standard, come l’immunoterapia o la terapia ormonale, a terapie nutrizionali in cui viene rivoluzionata la disponibilità di nutrienti sia durante sia dopo la terapia.

Tollerabilità, effetti collaterali ed efficacia

Vediamo ora nel dettaglio i risultati dello studio che è stato condotto. La dieta testata, ipoglicemizzante, prevedeva una restrizione calorica molto severa, di cinque giorni, da adottare ciclicamente ogni tre-quattro settimane durante la chemioterapia o l’immunoterapia, ovviamente sotto supervisione medica. Numeri alla mano, con circa 400-600 calorie il primo giorno e meno di 400 calorie i successivi, la dieta era composta principalmente da verdure, olio, , frutta, frutta secca e, soltanto una volta, pane integrale.

Tre gli elementi che sono stati valutati a fondo. Innanzitutto, la cosiddetta tollerabilità, su cui non si sono verificati particolari problemi. Lo studio pubblicato sulla rivista specialistica “Cancer Discovery” ha rivelato che su 101 pazienti sottoposti alla dieta-terapia solo quattro sono passati dalla condizione di normopeso a quella di sottopeso, e non in modo grave. Inoltre, il 99% dei pazienti è riuscito a fare almeno un ciclo di cure e di questi il 76% ne ha svolti almeno tre. Secondo punto chiave: gli effetti collaterali. Circa quattro persone hanno accusato astenia, cioè fatica, mentre altre cinque hanno subìto un episodio di ipoglicemia; sono state inoltre registrate altre piccole reazioni avverse come nausea o sensazione di confusione. Infine, ma non meno importante, ecco il termo elemento di valutazione: qual è stata l’efficacia della dieta-terapia nel contrastare la malattia? Il presupposto dello studio è che le cellule tumorali approfittano dell’alto livello di zuccheri nel sangue per svilupparsi. Dunque, riducendo il più possibile il glucosio nei giorni di terapia è come se si colpisse il nemico su due fronti: con la dieta e con i farmaci. Allo stesso tempo, – ha rivelato lo studio – lo choc metabolico ha avuto effetto anche sul sistema immunitario, dove riduce il numero e l’attività di cellule “cattive”, che inibiscono la risposta immunitaria, e aumenta la quantità di quelle “buone”, potenzialmente in grado di riconoscere e uccidere le cellule tumorali. In sostanza la dieta-terapia aiuta a rendere più efficace il sistema immunitario dei pazienti.

Su quali tipi di tumore questo approccio è più efficace? In questo caso la risposta è ancora incerta. Lo studio in questione comprendeva soprattutto pazienti con cancro al seno, colon e polmone, ma poiché si trattava di soggetti che si sono offerti volontariamente non si è potuta elaborare una campionatura precisa. Nuove ricerche, nel futuro prossimo, potranno approfondire anche questo aspetto.

Alimentazione durante le cure: i consigli della Fondazione Veronesi

In ogni caso, quando si effettuano delle cure oncologiche, l’alimentazione rappresenta un elemento chiave. A ricordarlo è la Fondazione Veronesi che sottolinea come l’obiettivo è aiutare a prevenire la nausea e a combattere gli effetti collaterali della terapia, rappresentati soprattutto da infiammazioni della mucosa e vomito. Per questo valgono due suggerimenti in linea generale: si deve masticare molto bene e lentamente e non bisogna preoccuparsi se dopo la terapia si avverte nausea e non si ha fame poiché l’appetito tornerà nel giro di pochi giorni.

Quali sono gli alimenti da privilegiare?

Cereali in chicco integrali ben cotti o pasta di semola di grano duro, meglio se integrale; creme di legumi o legumi ben cotti (scegliendo quelli decorticati o utilizzando il passaverdure); pesce, meglio se azzurro, per l’elevato contenuto di grassi omega-3 ad azione anti-infiammatoria; verdure di stagione; pane di semola di grano duro.

Quali cibi vanno invece evitati?

Carni rosse e carni lavorate (salumi, insaccati); formaggi a elevato contenuto di grassi; latte vaccino; zuccheri e cibi a base di farine raffinate o altri amidi ad alto indice glicemico, quali patate e mais; fibre di cereali, specie se indurite dalla cottura al forno (pane integrale e pizza, alimenti grezzi.

Anticoagulanti orali e prevenzione, come contrastare le malattie cardiocircolatorie

I farmaci TAO (Terapia Anticoagulante Orale) sono in grado di modificare la capacità di coagulare del sangue, riducendo il rischio della formazione di trombi in pazienti che, per la loro patologia, vanno incontro a questo rischio. In particolare, hanno il compito di rendere il sangue più fluido impedendo alle piastrine di aggregarsi e quindi di provocare coaguli. Questi farmaci – i più utilizzati sono l’acido acetilsalicilico (lo stesso dell’aspirina) e la ticlopidina – sono in particolare molto efficaci nel curare e prevenire le trombosi delle arterie a seguito di infarto del miocardio, ictus cerebrale, arteriopatie periferiche e quindi comunemente prescritti dopo un infarto del miocardio, in presenza di angina pectoris, dopo un intervento di bypass aorto-coronarico, dopo un ictus cerebrale ischemico e, frequentemente, nei pazienti anziani con fattori di rischio aterotrombotico (fumo, sedentarietà, diabete, ipertensione).

Il “percorso educazionale” dell’Istituto Maugeri

Un tema, insomma, di stretta attualità considerato che le patologie dell’apparato cardiocircolatorio sono la principale causa di decesso a livello globale e che rappresentano una delle cronicità purtroppo più diffuse. Anche per questo la Fondazione Onda – l’Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere, costituito a Milano nel 2005 per volere di alcuni professionisti già impegnati a vario titolo sul fronte della salute femminile e della medicina di genere – ha approfondito il tema dei farmaci TAO pubblicando un decalogo tanto schematico quanto chiaro ed esauriente, curato dall’Istituto Maugeri IRCSS Milano Camaldoli: un “percorso educazionale” intitolato “Terapia anticoagulante: se la conosci, vivi meglio”. Lo stesso parte da un presupposto: “Gli antiaggreganti e gli anticoagulanti sono dei veri e propri salvavita in quanto proteggono dalla formazione di trombi e di emboli che potrebbero dar luogo a sindromi potenzialmente mortali e/o fortemente invalidanti quali l’ictus e l’infarto miocardico”.

Lo studio si concentra in particolare su “una delle situazioni cliniche che più frequentemente necessitano di terapia anticoagulante cronica, costituita da un disturbo del ritmo cardiaco chiamato fibrillazione atriale. Un’altra situazione abbastanza frequente è quella conseguente alle trombosi venose e alla tromboembolia polmonare”. Dunque, in entrambi i casi, è utile conoscere meglio di cosa si tratta, le terapie utili e a chi rivolgersi per la migliore gestione possibile.

La fibrillazione atriale: come e perché usare i farmaci anticoagulanti

Partiamo dalla fibrillazione atriale, che può dipendere da diversi fattori ed essere legata a patologie diverse sia cardiache sia di altri apparati. É un disturbo molto frequente soprattutto quando l’età avanza e va seguita con molta attenzione. Ma di che cosa si tratta esattamente? È una frequente anomalia dell’attività elettrica del cuore, un’aritmia spesso sintomatica (percepita come palpitazioni, mancanza di respiro, vertigini, dolore al petto), ma a volte anche asintomatica. Essa può comportare complicazioni pericolose come altri disturbi cardiaci, ictus cerebrale o embolia di altri organi. Il rimedio? È necessario provare a ripristinare il ritmo normale oppure controllare la frequenza cardiaca scegliendo la fibrillazione come nuovo “ritmo”; in un caso o nell’altra bisogna sempre prevenire la formazione di coaguli nel sangue per evitare che vadano a occludere arterie creando danni anche molto gravi. E qui entrano in gioco i farmaci anticoagulanti. Questa tipologia determina una condizione di rischio cardioembolico – ricorda il percorso educazionale – ed è responsabile della formazione di trombi all’interno dell’atrio sinistro, i quali possono migrare verso le arterie, se occludono un’arteria cerebrale causano l’evento più temibile, l’ictus cerebrale. Qualsiasi altro organo può essere danneggiato con conseguenze più o meno gravi. La prevenzione più efficace si ottiene appunto con gli anticoagulanti orali. Fino a qualche anno fa questo tipo di terapia disponeva solo di farmaci antagonisti della vitamina K, ma dal 2009 si sono resi disponibili anticoagulanti orali di nuova generazione, denominati anticoagulanti orali ad azione diretta, il cui uso pratico è più semplice e sicuro. Infatti, a differenza degli antagonisti della vitamina K, non hanno tutte le limitazioni relative all’alimentazione e alle interazioni farmacologiche e non richiedono il controllo periodico della coagulazione.

Per concludere il capitolo sulla fibrillazione atriale ecco le indicazioni “salvavita” presenti nel decalogo:

  • prendersi cura delle problematiche cardiologiche con le terapie specifiche individuate dal medico in base al profilo di rischio e alle caratteristiche del singolo paziente;
  • curare con altrettanta cura le malattie concomitanti;
  • adottare uno stile di vita sano, controllando i fattori di rischio della cardiopatia (ipertensione arteriosa, diabete, dislipidemia, obesità, fumo di sigaretta, sedentarietà).

La trombosi venosa: come curarla

L’altra patologia che viene analizzata all’interno dello studio è la trombosi venosa, una patologia che colpisce le vene occludendole. Anche questa condizione è piuttosto comune, – si spiega – la forma più temibile è quella che colpisce le vene profonde, da qui il trombo (coagulo) può migrare fino al polmone e determinare l’embolia polmonare, la complicanza più grave della trombosi venosa profonda, che è solitamente preceduta da affanno inspiegabile, respirazione veloce, dolore acuto al torace, aumento della frequenza cardiaca e leggero stordimento o sincope. La trombosi venosa profonda è spesso asintomatica, non riconosciuta e di conseguenza diagnosticata e trattata in un numero inferiore rispetto ai casi reali. Il 50% circa dei soggetti colpiti da una trombosi venosa non manifesta alcun sintomo. Se presenti, invece, le manifestazioni più frequenti sono: dolore al polpaccio, gonfiore (prevalentemente alla caviglia o ai piedi), rossore o perdita di colorito della pelle (discromia), calore della zona interessata.

Come si cura? Anche in questo caso il rispetto di un adeguato stile di vita è fondamentale. Si possono poi usare i farmaci antitrombotici, che riducono la capacità delle piastrine di aggregarsi (antiaggreganti che agiscono sulle piastrine) oppure ostacolano la coagulazione (anticoagulanti che bloccano i fattori della coagulazione). Anche in questo caso la terapia è fatta su misura, da una sarta o un sarto molti bravi, “i tuoi medici del cuore”. Con un caveat: gli anticoagulanti hanno per definizione un rischio emorragico, ovvero possono essere causa di sanguinamenti sia di lieve entità (lividi cutanei, sanguinamento gengivale), sia, se pur raramente, di entità tale da dover necessitare dell’intervento medico. Dunque, a maggior ragione, il medico, quando prescrive una terapia antiaggregante o anticoagulante, valuta attentamente sia il rischio trombotico, sia quello emorragico del singolo paziente e quindi prescrive i farmaci in modo da ottenere il massimo beneficio con il minimo rischio emorragico.

Prevenzione primaria e aderenza al farmaco

Inoltre, nel decalogo si sottolinea l’importanza di adottare stili di vita corretti: la cosiddetta prevenzione primaria, elemento cruciale per contrastare l’insorgenza delle malattie croniche, la cui importanza è stata sempre ribadita da Assidai nelle proprie informative agli iscritti. In sintesi: non fumare, fare esercizio fisico regolare adatto all’età e alle condizioni cliniche, seguire una dieta corretta, dormire bene (e in caso contrario chiedere aiuto al medico e al cardiologo), prendersi cura di tutte le proprie malattie.

Infine, altro aspetto chiave è l’aderenza terapeutica che si realizza “quando il comportamento di una persona – nell’assumere i farmaci, nel seguire una dieta e/o nell’apportare cambiamenti al proprio stile di vita – corrisponde alle raccomandazioni concordate con l’operatore sanitario”. L’aderenza non comporta un atteggiamento “passivo”, al contrario dipende da un coinvolgimento “attivo e collaborativo”: chi riceve la prescrizione deve partecipare alla pianificazione e all’attuazione del progetto terapeutico, esprimendo un consenso basato sull’accordo.

In sostanza “essere aderenti alla terapia” significa: non ritardare il suo inizio, non effettuare omissioni o aggiunte non prescritte e non interrompere anzitempo il trattamento per decisione propria. Non essere aderenti alla terapia anticoagulante orale – conclude lo studio – comporta rischi per la salute anche molto gravi. Omettere l’assunzione del farmaco, anche solo di una dose, espone al rischio di trombosi che può culminare in un ictus; viceversa assumere più farmaco di quello che è stato prescritto espone al rischio di avere emorragie, alcune delle quali possono essere gravi e richiedere l’intervento medico in emergenza. Inoltre, non rispettare l’orario o gli orari giornalieri di assunzione non garantisce tutti i benefici che il farmaco può dare.

Latte e derivati, il decalogo del Ministero della Salute

In Italia si stima che, negli ultimi anni, il consumo giornaliero di latte e yogurt si sia notevolmente ridotto, in diverse fasce di età e sia basso e lontano dalle raccomandazioni per la maggior parte della popolazione. A lanciare l’allarme è il Ministero della Salute che sottolinea come “un adeguato consumo invece è importante per il corretto apporto quotidiano di calcio, indispensabile per la crescita ossea dei bambini, ma soprattutto per la prevenzione dell’osteoporosi negli adulti e anziani”.

Il trend in questione, inoltre, ha spinto il Tavolo Tecnico sulla Sicurezza Nutrizionale, che fa sempre capo al Ministero della Salute, a elaborare un decalogo per il corretto consumo di latte e yogurt nell’alimentazione quotidiana, al fine di favorirne il giusto apporto. Decalogo che parte dal presupposto che questi alimenti – come dimostrato da diversi e autorevoli studi svolti a livello internazionale – contribuiscono a diminuire il rischio, oltre che dell’osteoporosi, di diverse cronicità come malattie cardiovascolari, ictus, cancro del colon-retto, obesità e morbo di Alzheimer. Stili di vita corretti – principalmente un’alimentazione varia ed equilibrata, lo stop al consumo di tabacco e di alcol e un’attività fisica quotidiana – rappresentano come sappiamo i pilastri della cosiddetta prevenzione primaria, la principale arma a nostra disposizione per diminuire l’insorgenza delle malattie croniche, responsabili della maggior parte dei decessi a livello europeo e mondiale. Un concetto, questo, di cui Assidai è sempre stato convinto sostenitore, mettendo a disposizione dei propri iscritti costanti campagne informative.

Il calo del consumo di latte in Italia

Partiamo dai numeri del report del Ministero della Salute. Tra il 1998 e il 2020 si stima che il consumo giornaliero di latte si sia notevolmente ridotto passando dal 62,2% (ovvero la fetta della popolazione, con età dai tre anni in su, che lo beve almeno una volta al giorno) al 48,1%. Tale calo si è tradotto da una parte in un aumento del consumo non giornaliero e più occasionale, che è passato dal 18% al 28,7%, e dall’altra in un aumento della prevalenza dei non consumatori dal 17,2% al 22,2%. Altra tendenza preoccupante: la diminuzione del consumo giornaliero di latte e il conseguente slittamento verso consumi più ridotti o nulli, si è osservata maggiormente nella fascia di età dei bambini, ragazzi e giovani di 6-24 anni, con punte di riduzione che si attestano in queste fasce di età intorno a circa il 20%. L’area geografica con numeri più eclatanti è il Nord, sceso addirittura dal 61,3% del 1998 al 45,6% del 2020.

Il latte è l’alimento tipico della colazione. Non stupisce così che in parallelo si siano modificate anche le abitudini legate al primo pasto della giornata. Sebbene la quota di persone di 3 anni e più che dichiarano di non fare la colazione si sia mantenuta pressoché stabile tra il 1998 e il 2020 (rispettivamente 7,9% nel 1998 e 7,5% nel 2020), si è osservato nel tempo, specialmente fino al 2019, un aumento di tale abitudine nella popolazione dei bambini, ragazzi e fino a 24 anni. Al contempo, si è verificato, sempre nello stesso arco temporale, un calo rilevante del consumo di latte a colazione che passa dal 56,6% al 45,6%, con punte di riduzione di circa 20 punti percentuale tra i bambini di 3-10 anni. In cosa si è tradotto tutto ciò? Nell’aumento della quota di coloro che pur non bevendo il latte mangiano comunque qualcosa come biscotti, fette biscottate o brioche, con o senza bevande come il the o il caffè (+10%), oppure che fanno altri tipi di colazione a base ad esempio di yogurt, cereali e succhi di frutta (+5,4%).

I benefici di latte e yogurt: gli studi internazionali

Che cosa dicono i principali studi sui benefici del consumo di latte e yogurt? Il Ministero della Salute sottolinea come due recenti revisioni di metanalisi (una tecnica clinico-statistica quantitativa che permette di combinare i dati di più studi condotti su uno stesso argomento) svolti a livello internazionale concludono “che il consumo di latte è più frequentemente associato ad effetti positivi che eventuali effetti sfavorevoli sulla salute”. In particolare, “l’analisi dose-risposta indica che un incremento di 200 ml (circa 1 tazza) di latte al giorno era associato a un minor rischio di malattie cardiovascolari, ictus, ipertensione, cancro del colon-retto, sindrome metabolica, obesità e osteoporosi”. Associazioni benefiche sono state trovate anche per il diabete mellito di tipo 2 e il morbo di Alzheimer. Altri studi evidenziano l’effetto favorevole del consumo di latte e yogurt sulle malattie cardio-cerebrovascolari e a un minor rischio di iperglicemia e pressione arteriosa elevata. Inoltre, un aumento di una porzione al giorno di latte sarebbe correlato a un rischio inferiore del 12% di obesità addominale e un incremento di una porzione al giorno di yogurt a un rischio di iperglicemia inferiore del 16%.

Le porzioni raccomandate

A livello più pratico quanto latte e quanto yogurt andrebbero consumati al giorno per godere dei loro effetti benefici? Il Tavolo Tecnico sulla Sicurezza Nutrizionale del Ministero della Salute sottolinea come “a livello mondiale, tutte le linee guida per una sana alimentazione indicano che il consumo di latte/yogurt si associa al mantenimento di un buono stato di salute e ne raccomandano un consumo quotidiano. Le linee guida italiane per una sana alimentazione raccomandano il consumo di 3 porzioni di latte al giorno, pari a un quantitativo di 375 ml, mentre a livello nazionale un recente documento di consenso messo a punto dalla Società Italiana di Nutrizione Umana (SINU) e dalla Società Italiana di Scienze dell’Alimentazione (SISA) caldeggia il consumo di latte e yogurt tra gli esempi di una prima colazione adeguata dal punto di vista nutrizionale”.

Il Decalogo del Ministero della Salute

Infine, il Decalogo per il corretto consumo di latte e yogurt nell’alimentazione quotidiana del Ministero della Salute che evidenzia pregi e caratteristiche di questi alimenti.

  • Consuma ogni giorno 3 porzioni tra latte e yogurt. Una porzione corrisponde a 125 grammi cioè un bicchiere piccolo oppure 1/2 tazza o un vasetto di yogurt.
  • Il latte e lo yogurt sono alimenti per iniziare bene la giornata. Con una tazza intera di latte (2 porzioni) a colazione e uno yogurt come spuntino si raggiungono le 3 porzioni raccomandate.
  • Il latte e lo yogurt sono fonti di calcio, inoltre contengono vitamina A, vitamine del gruppo B e altri sali minerali come fosforo, magnesio, zinco e selenio.
  • Il latte e lo yogurt bianco senza zuccheri aggiunti sono molto simili dal punto di vista nutrizionale. Lo yogurt, grazie ai fermenti lattici, favorisce l’equilibrio della flora intestinale.
  • Puoi scegliere tra latte fresco pastorizzato, fresco pastorizzato di alta qualità, pastorizzato, microfiltrato e a lunga conservazione (UHT).
  • Lo yogurt si ottiene per fermentazione del latte ad opera di specifici microrganismi. Quando la fermentazione del latte non è dovuta all’azione dei microrganismi dello yogurt, si ottengono latti fermentati.
  • Latte e yogurt possono essere interi, scremati o parzialmente scremati in base alla percentuale di grassi. Il latte e lo yogurt scremati o parzialmente scremati hanno un ridotto contenuto di grassi e di calorie senza alcuna riduzione di calcio e proteine.
  • Il latte può essere bevuto ad ogni età. Nell’intestino umano è presente la lattasi, enzima necessario per la digestione del lattosio (zucchero del latte). Ciò rende il latte un alimento adeguato per bambini, adulti e anziani, ad eccezione degli intolleranti al lattosio.
  • Lo yogurt è ben tollerato dalla maggior parte di coloro che soffrono di intolleranza al lattosio.
  • Il calcio e il fosforo presenti nel latte e nello yogurt sono facilmente assorbiti dall’organismo. Il loro consumo contribuisce a diminuire il rischio di insorgenza di osteoporosi.

Donazioni e trapianti nel 2021, l’Italia torna ai livelli pre-Covid

Donazioni e trapianti di organi, tessuti e cellule sono tornati ai livelli pre-Covid 19. Ad annunciarlo è il recente report, relativo all’anno 2021, del Centro nazionale trapianti (Cnt), che – sottolinea il Ministero della Salute – traccia un bilancio estremamente positivo dell’anno appena trascorso. Dopo la brusca frenata del 2020, quando l’impatto della prima ondata del Covid aveva portato a un calo complessivo del 10%, nel 2021 la Rete trapianti è infatti riuscita a riorganizzare la propria attività nel nuovo contesto emergenziale e a recuperare completamente, segnando un +12,1% sul fronte delle donazioni di organi e del 9,9% su quello dei trapianti.

Emblematiche, a tal proposito, le parole del Ministro della Salute, Roberto Speranza: “Gli ultimi dati dell’attività di donazione e trapianto sono un’ulteriore conferma della straordinaria capacità di reazione che il Servizio Sanitario Nazionale ha dimostrato in questi due anni di pandemia”. “Dobbiamo continuare a investire su un’eccellenza come la rete trapiantologica, – ha aggiunto – sia sul fronte organizzativo sia in termini di promozione dell’informazione, per convincere sempre più cittadini a dire sì alla donazione”.

Insomma, anche in questo campo emerge l’alto profilo della sanità pubblica italiana, che spicca nel mondo per le caratteristiche uniche di equità e universalità, e continua a mostrare segnali di importante tenuta nonostante le difficoltà recenti e le sfide del futuro, in primis l’invecchiamento della popolazione (con il conseguente aumento delle cronicità) e le ristrettezze del bilancio pubblico. Una situazione più volte evidenziata da Assidai, che ha sempre ribadito da una parte l’assoluta centralità del Servizio Sanitario Nazionale e dall’altra parte la necessità di sostenerlo, in un’ottica complementare e mai sostitutiva.

Più prelievi di organi, meno “opposizioni”

Vediamo i numeri. Nonostante le terapie intensive siano finite spesso sotto pressione durante l’anno (e infatti le segnalazioni di potenziali donazioni in rianimazione sono cresciute, ma solo del 4,8% sul 2020, attestandosi a 2.528 contro le 2.766 del 2019), il numero dei prelievi di organi è tornato sopra quota 1.700, come prima del Covid-19. Complessivamente le donazioni nel 2021 sono state infatti 1.725 contro le 1.539 del 2020 (+12,1%), di cui 1.363 da donatori deceduti (+10,4%) e 362 da viventi (+19,1%). In parallelo il tasso di donazione è risalito a 22,9 donatori per milione di abitanti: meglio del 2020 (20,5) ma anche del 2019 (22,8).

Quali sono le regioni più “virtuose”? Valle d’Aosta, Toscana ed Emilia-Romagna si confermano sul podio con un tasso rispettivamente di 64, 47,7 e 37,4 donatori per milione. Le regioni del Centro-Sud restano ancora invece molto indietro rispetto a quelle settentrionali, ma sono tutte in recupero: in particolare è molto positivo il bilancio della Basilicata (che sale da 5,3 a 18,1 donatori per milione di abitanti), dell’Abruzzo (+8,6) e di Puglia e Sicilia (+5,4).

A fare aumentare l’attività di trapianto è anche il calo delle opposizioni al prelievo degli organi rilevate nelle rianimazioni: nel 2021 i “no” si sono fermati al 28,6%, contro il 30,2% dell’anno precedente e il 31,1% del 2019. Il miglior risultato? In Veneto (tasso di opposizione del 18,8%, -4,4 punti percentuale rispetto al 2020), e anche nelle regioni meridionali la situazione è in netto miglioramento: per la prima volta la Campania ottiene un risultato più positivo della media nazionale (27,8% di “no”, un anno prima l’opposizione era al 37,7%).

Balzano i trapianti: +9,9% sul 2020

Capitolo trapianti. Nel 2021 quelli eseguiti sono stati 3.778 che significa non solo 341 in più rispetto al 2020 (+9,9%), ma anche il terzo miglior risultato di sempre nel nostro Paese dopo i 3.183 del 2019 e i 3.950 del 2017.  Va osservato che il 90,4% dei trapianti dell’anno scorso sono stati realizzati grazie agli organi di donatori deceduti.

In generale, l’aumento più significativo è stato riscontrato nei trapianti di fegato (1.376, +14,5% sul 2020), ma sono cresciuti anche quelli di pancreas (passati dai 41 del 2020 ai 55 del 2021). Più 7,6% per i trapianti di rene, che sono sempre quelli più numerosi (2.051, oltre la metà del totale), in salita anche quelli di cuore (251, +5,5%), mentre rimane più contenuta l’attività relativa al polmone: 115 interventi eseguiti, lo stesso numero di 12 mesi prima. La regione nella quale sono stati effettuati più trapianti si conferma la Lombardia (686), seguita da Veneto (523) ed Emilia-Romagna (486), che ha fatto registrare anche la crescita maggiore dei volumi di intervento: +24,3% rispetto al 2020.

Discorso a parte merita il midollo. Ancora una volta l’attività di donazione e trapianto di cellule staminali emopoietiche ha registrato una crescita, circostanza che era avvenuta anche nel 2020, nonostante la pandemia. I trapianti da donatori non consanguinei sono stati ben 931 (+6,4%), mentre le donazioni effettive sono arrivate a quota 300 (+4,2%) di cui ormai quasi il 90% prelevate da sangue periferico (più semplice e rapido), mentre diminuisce ancora la donazione “tradizionale” da midollo osseo vero e proprio.

Infine, le dichiarazioni di volontà, che sono poi in caso di assenso la pre-condizione per la donazione di organi e quindi per i trapianti. Il 2021 – sottolinea il Centro nazionale trapianti – è stato un anno di ripresa non solo sul fronte dell’attività clinica, ma anche su quello della cultura della donazione. Negli ultimi 12 mesi sono state recepite 3.201.540 dichiarazioni di volontà, di cui 2.204.318 consensi alla donazione (68,8%) e 997.222 opposizioni (31,2%): la percentuale di “sì” è la più alta mai raccolta in un anno da quando la registrazione dell’opinione dei cittadini maggiorenni in materia avviene prevalentemente all’anagrafe comunale al momento del rinnovo della carta d’identità. Un risultato positivo considerato che nel 2020 le opposizioni erano state il 33,6%, due punti e mezzo in più.

Recuperato il divario da inizio pandemia

Le conclusioni spettano al direttore del Centro nazionale trapianti, Massimo Cardillo, che sottolinea: “Avere recuperato in un solo anno il gap accumulato all’inizio della pandemia è un grande risultato il cui merito va all’intera rete trapiantologica che ha dimostrato di essere solida e resiliente, dal Nord al Sud del Paese”. Le prospettive e il futuro sono altrettanto cruciali: “Ora dobbiamo cogliere le opportunità che arriveranno dal Recovery Fund e dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) per offrire una presa in carico ancora più capillare a tutti i pazienti trapiantati e in attesa di trapianto”, ha concluso. Il PNRR, del resto, è una grande occasione per tutto il Paese e, tra gli altri, anche per il Servizio Sanitario Nazionale che dovrà sfruttare questa straordinaria disponibilità di fondi per investire sul presente e soprattutto in ottica futura.

Combattere l’anemia falciforme con la terapia genica, la nuova frontiera della medicina

La nuova frontiera dell’innovazione nella sanità è costituita dalle terapie geniche. Oggi è un trend ancora in fase iniziale, ma domani potrebbe davvero rappresentare una rivoluzione copernicana per il settore della salute, con ricadute positive anche in termini di risparmio di costi per i servizi sanitari nazionali.

In realtà, alcuni importanti risultati concreti sono già stati raggiunti. Tra questi c’è una possibile cura contro l’anemia falciforme, la fin troppo nota malattia genetica del sangue caratterizzata dall’aspetto anomalo dei globuli rossi (appunto a forma di falce) che causa dolore acuto e danni agli organi. L’Istituto Superiore di Sanità (ISS) specifica in modo approfondito che “l’anemia falciforme è una malattia ereditaria che colpisce i globuli rossi ed è causata dalla presenza, al loro interno, di anomalie dell’emoglobina, proteina che trasporta l’ossigeno dai polmoni a tutti i tessuti dell’organismo. Normalmente i globuli rossi hanno una forma simile ad un disco, sono flessibili e scorrono facilmente anche attraverso i vasi sanguigni più piccoli. Nelle persone con anemia falciforme, invece, i globuli rossi hanno una forma insolita, a falce o a mezzaluna, sono appiccicosi e rigidi e, di conseguenza, rimangono intrappolati nei piccoli vasi sanguigni impedendo così al sangue di raggiungere tutte le parti del corpo. Ciò causa danni, anche gravi, ai tessuti che non ricevono più ossigeno e può anche provocare dolore. I globuli rossi delle persone malate di anemia falciforme sono più fragili di quelli delle persone sane, vivono di meno e questo determina una grave anemia. Colpisce soprattutto le popolazioni dell’area mediterranea, del Medio Oriente, dei Caraibi e dell’Asia. In Italia è presente nelle zone meridionali, in particolare Sicilia e Calabria, dove può raggiungere una frequenza compresa tra il 2% ed il 13%. Negli ultimi 15-20 anni, gli spostamenti delle popolazioni (flussi migratori) hanno diffuso la malattia in tutte le regioni italiane, in particolare quelle del Nord e Centro”.

Ebbene, ora una terapia genica sperimentale – chiamata LentiGlobin – promette una cura: in particolare, restituisce ai globuli rossi la forma “giusta” permettendogli di scorrere facilmente nei vasi sanguigni. Risultato: vengono eliminati tutti i sintomi e le complicazioni della malattia per almeno tre anni. Detto in termini più scientifici, in fase sperimentale si è verificata una riduzione quasi completa (99,5%) delle crisi vaso-occlusive e della sindrome toracica acuta.

È importante ricordare che, ad oggi, l’unica cura possibile a questa malattia consiste nel trapianto di midollo osseo, una procedura complessa che richiede la compatibilità tra donatore e ricevente e che non sempre va a buon fine per l’elevato rischio di rigetto. Inoltre, l’aspettativa di vita per una persona con anemia falciforme è in media di 40 anni.

I risultati sperimentali della nuova terapia

La nuova terapia genica consiste come detto nel prelievo delle cellule staminali emopoietiche (che danno origine alle cellule del sangue) dal paziente e in una loro modifica in laboratorio. Attraverso un lentivirus innocuo utilizzato come mezzo di trasporto viene così collocata nelle cellule staminali la copia corretta del gene beta-globina. Una volta reinfuse nei pazienti, le cellule staminali si stabiliscono nel midollo osseo e iniziano a produrre nuovi globuli rossi dalla forma corretta.

Su che campione è stata testata LentiGlobin? È stata messa alla prova in una sperimentazione di fase 1-2 su 35 pazienti adulti e adolescenti con anemia falciforme e nessuno di loro ha avuto dolori nei 38 mesi successivi. I risultati, pubblicati sul New England Journal of Medicine, dimostrano insomma che l’intervento genetico è riuscito a modificare la forma dei globuli rossi eliminando gli episodi di dolore acuto scatenati dai globuli rossi anomali che raggruppandosi bloccano i vasi sanguigni. C’è un ulteriore elemento da sottolineare: LentiGlobin utilizza le cellule staminali del paziente è dunque non vi è il rischio di rigetto, una complicanza purtroppo comune dei trapianti di midollo osseo convenzionali.

Lo studio, va anche fatto notare, porta la firma di ben 12 autorevoli scienziati del settore. Tra loro Markus Y. Mapara, professore di medicina presso la Columbia University Vagelos College of Physicians and Surgeons, che ha chiarito: “Non c’è il rischio di sopravvalutare il potenziale impatto di questa nuova terapia. Le persone con anemia falciforme vivono nella paura della prossima crisi di dolore. Questo trattamento potrebbe restituire la vita a chi soffre di questa malattia.”

Il parere del “guru” Naldini intervistato da Assidai su Welfare 24

La terapia genica, dunque, come straordinario strumento per battere alcune malattie rare e in futuro, forse, anche alcune cronicità. Un argomento di grande attualità al quale Assidai aveva dedicato un numero di Welfare 24 con un’intervista esclusiva al Professor Luigi Naldini, Direttore dell’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica e Professore all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Naldini è stato pioniere nello sviluppo e nell’applicazione di vettori lentivirali per terapia genica e proprio per il suo straordinario lavoro in questo campo, nel 2019, si è aggiudicato il premio Louis-Jeantet, promosso dall’omonima Fondazione svizzera: un riconoscimento di altissimo livello e che rappresenta spesso l’anticamera del Nobel.

Secondo lo scienziato, la terapia genica “rappresenta una svolta epocale per la medicina perché va alla radice genetica di alcune malattie rare e agisce in modo risolutivo”. Con un potenziale impatto positivo anche sul Servizio Sanitario Nazionale: “Oggi parliamo di cure molto costose ma in futuro, una volta messe a punto cellule donatrici universali e realizzate economie di scala, si potrebbe consentire un risparmio dei costi legati al trattamento di patologie diffuse come i tumori”, ha fatto notare Naldini. Una prospettiva straordinaria che aiuterebbe il nostro Servizio Sanitario Nazionale a mantenere le caratteristiche di universalità ed equità che gli vengono riconosciute in tutto il mondo.

Dal Ministero della Salute il Programma nazionale della ricerca sanitaria 2022

Nelle ultime settimane il Ministero della Salute ha elaborato ufficialmente, d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, il Programma nazionale della ricerca sanitaria (PNRS)  valevole per il triennio 2020-2022. Un Programma – si legge nel sito del Ministero stesso – che si inserisce nel contesto delle politiche della ricerca del Paese e come tale costituisce la declinazione, per il Servizio Sanitario Nazionale, delle linee generali stabilite dal Programma nazionale della ricerca, elaborato e adottato dal Ministero dell’Università e della Ricerca. Inoltre, nel PNRS – si aggiunge – vengono indicate le finalità in ambito di ricerca sanitaria correlate con quelle del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), sottolineando in particolare l’importanza della ricerca biomedica e sanitaria nell’attuale periodo di emergenza pandemica da Covid-19.

Approfondiamo quale è l’obiettivo ultimo del PNRS 2020-2022: da una parte rispondere alle richieste di ricerca per il Servizio Sanitario Nazionale, chiarendo chi sono i suoi attori e come sono strutturati, quali sono i programmi di sviluppo e le relazioni con gli altri progetti nazionali; dall’altra parte migliorare l’integrazione multi professionale per il supporto alla prevenzione, al governo clinico, alla continuità assistenziale e al mantenimento dell’avanguardia nella diagnostica e nella comunicazione con i cittadini.

Tutti aspetti, questi, condivisi da Assidai attraverso specifiche campagne di screening o di approfondita informazione a favore dei propri iscritti, nella ferma convinzione che il Servizio Sanitario Nazionale sia e debba restare la spina dorsale del nostro Paese e che i fondi sanitari integrativi, nel presente e nel futuro, possano svolgere una valida funzione di sostegno e di supporto.

La ricerca come pilastro del Servizio Sanitario Nazionale

Il Programma nazionale della ricerca sanitaria si basa su un assunto chiave, in coerenza con la legge 502 del 1992, che aveva introdotto una prima importante riforma alla sanità pubblica: “La ricerca sanitaria, intesa come parte integrante tra le attività del Servizio Sanitario Nazionale, è elemento fondamentale per garantire ai cittadini una sanità efficiente e rispondente ai reali bisogni di assistenza e cura del Paese”. Per ricerca sanitaria, si aggiunge, “si deve intendere un ampio spettro di attività che includono sia la ricerca che persegue lo scopo di far avanzare in modo significativo le nostre conoscenze su aspetti importanti delle diverse condizioni patologiche e/o di promuovere lo sviluppo di opzioni (di diagnosi o trattamento) innovative, sia quella invece più orientata a fornire, se possibile, soluzioni a problemi specifici e concreti, e a produrre informazioni utili per indirizzare positivamente le scelte dei diversi decisori”.

A ciò si aggiunge, sottolinea il Ministero della Salute, un elemento di estrema attualità: la pandemia da Covid-19 che “ha imposto di riflettere sulla salute come bene non solo individuale ma appartenente a tutta la comunità, e pertanto ha forzato ad essere consapevoli delle conseguenze che il comportamento di ciascuno ha sulla salute degli altri”. Allo stesso tempo l’emergenza “ha evidenziato la necessità di ricercare nuovi livelli di programmazione e di riflettere su ciò che sarà il Servizio Sanitario Nazionale, con particolare attenzione alla presa in carico anche territoriale, alla necessità di ripensare i ruoli della sanità, alle lacune del sistema, al concetto di appropriatezza e tempestività di risposta ai problemi”. Quindi, “il nostro sistema sanitario, uno dei migliori al mondo, necessita di mettere a sistema l’insegnamento ricevuto, con una adeguata riflessione, su basi scientifiche, rispetto a cosa e come cambiare”.

Strategie e fonti di finanziamento

Quali dovrebbero essere secondo il Ministero della Salute gli elementi chiave della strategia sulla ricerca per il Servizio Sanitario Nazionale? Diversi. Innanzitutto, la governance della ricerca, cioè l’insieme delle regole che devono definire un programma, contribuire a monitorare il suo sviluppo e consentire la valutazione dei risultati ottenuti rispetto a quelli ipotizzati, oltre alla loro valorizzazione e diffusione. Ma vanno anche definite le priorità della ricerca stessa, focalizzandosi sulla sua interdisciplinarità e valutando l’impatto dei progetti e la divulgazione dei risultati.

Un altro aspetto che, secondo il Ministero, non va sottovalutato è quello del trasferimento delle conoscenze e delle tecnologie, con particolare attenzione al tema dei brevetti. C’è poi il tema delle fonti di finanziamento, non certo marginale. “In regime di scarsità di risorse economiche e di conseguente competizione per la loro acquisizione, è necessario conoscere, razionalizzare e disseminare le informazioni per i possibili finanziamenti”, fa notare il documento del Ministero della Salute. Serve dunque “una strategia per evitare il finanziamento di uno stesso progetto con più fonti diverse a meno che i diversi finanziamenti non si integrino per la realizzazione di un progetto molto articolato con differenti finalità”.

La ricerca sanitaria per rilanciare il Paese

In definitiva, “la ricerca sanitaria di qualità è un investimento che alimenta le conoscenze scientifiche ed operative a beneficio dello stato di salute dei cittadini, della qualità del servizio sanitario e dello sviluppo dell’intero sistema economico”. È questa la frase che, forse, meglio sintetizza le 49 pagine del Programma Nazionale della ricerca sanitaria 2020-2022, appena pubblicato dal Ministero della Salute.

Inoltre, si aggiunge, “dall’attuale emergenza sorge l’occasione per ragionare in un modo innovativo, riprogettare percorsi e provvedere ad una nuova organizzazione sanitaria” e dunque diventa “opportuno rivalutare con metodo scientifico non solo le domande cliniche di salute ma anche quelle di organizzazione sanitaria e, non ultime, le conseguenze economiche, sociali e ambientali che si ripercuotono sulla salute”.

Al seguente link è possibile visualizzare il Programma Nazionale della Ricerca Sanitaria PNRS 2020-2022.

Combattere le malattie croniche con la “Regola del Tre”

Un’alimentazione equilibrata, che non privilegi troppo le proteine di carne “rossa”, e un’attività fisica frequente, almeno tre volte alla settimana. Sono questi gli importanti consigli che arrivano da una serie di recenti e autorevoli studi, che vertono in sostanza sulla prevenzione primaria, cioè su tutti i comportamenti legati al nostro stile di vita e su come essi possano contribuire a prevenire l’insorgere delle malattie croniche (cancro, patologie dell’apparato cardiocircolatorio, diabete), responsabili oggi della maggior parte dei decessi a livello mondiale. Proveremo a illustrare questi concetti nel modo più semplice possibile: utilizzeremo una formula, che chiameremo “Regola del Tre”, che ci permetterà di ricordare facilmente sia come moderare (e in parte sostituire) il consumo di carne sia come praticare attività fisica in modo regolare, ma senza ossessioni.

Tutte queste riflessioni valgono a maggior ragione nel periodo natalizio, in cui talvolta gli eccessi a tavola non mancano e il clima freddo induce alla sedentarietà. Assidai, va ricordato, ha sempre considerato la prevenzione cruciale come un elemento fondamentale per la lotta alle cronicità, sia per tutelare la salute di tutti noi sia per contribuire alla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale e delle sue caratteristiche, uniche al mondo, di universalità ed equità. Per questo, il nostro Fondo si impegna in una costante attività di informazione verso tutti i propri stakeholder – in primis gli iscritti – su questi temi, in modo che possano adottare i comportamenti più virtuosi possibili in base alle nuove frontiere tracciate dalla scienza.

“La Regola del Tre” per limitare e sostituire la carne

Passiamo alla prima applicazione concreta della “Regola del Tre”, in questo caso al consumo di carne. Due anni fa una commissione, composta da 37 scienziati, della prestigiosa rivista Eat Lancet aveva lanciato la cosiddetta dieta universale, che si proponeva di individuare un regime alimentare salutare basato su criteri sostenibili per il nostro pianeta. Più precisamente, si consigliava di ridurre del 50% entro il 2050 il consumo di carne rossa e zucchero, aumentando invece quello di frutta, legumi, noccioline e verdura. Oggi diversi studi sottolineano che proprio questo tipo di dieta riduce il rischio di mortalità prematura di circa il 25%.

Sotto i riflettori è finita la carne: ne mangiamo in media 79 chilogrammi all’anno (ma dovrebbero essere 15), tra rossa, bianca e lavorata. Secondo la Società Italiana di Scienze dell’Alimentazione dovremmo consumare una porzione di carne rossa (100 grammi) e due di carne bianca (200 grammi) a settimana. Invece, siamo in media a cinque porzioni settimanali, una presenza eccessiva di proteine nel nostro piatto, a maggior ragione – aggiungono gli esperti – se si pensa che un consumo abbondante di carne rossa, soprattutto se ultra lavorata, come quelle in scatola e i salumi, aumenta il rischio di sviluppare malattie, prima fra tutte il cancro mentre per le carni bianche non ci sono evidenze.

Come risolvere il problema?

Qui, come anticipato sopra, entra in gioco la “Regola del Tre”. Numeri alla mano, in una settimana ci sono 14 secondi piatti, tra pranzi e cene. Assegnate alla carne le tre porzioni consigliate, ne restano 11-12 che si possono suddividere in tre porzioni di pesce, tre porzioni di legumi, tre porzioni di uova e tre porzioni di formaggi. Tutti questi, infatti, sono alimenti che permettono al nostro organismo di assimilare, con una buona dose di approssimazione, le proteine contenute dalla carne.

Qual è il nostro fabbisogno quotidiano di proteine?

Anche in questo caso possiamo utilizzare una regola molto semplice: circa 1 grammo per ogni kg di peso corporeo, chi pratica attività sportiva o intenso lavoro muscolare può arrivare a 1,4 grammi. Per fare un esempio concreto: un uomo di 75 kg ogni giorno può consumare al massimo 75 grammi di proteine giornaliere (il che ovviamente non significa una bistecca di 75 grammi) e se pratica sport può arrivare a 105 grammi di proteine giornaliere.

Combattere la sedentarietà“La Regola del Tre”

L’altra importante applicazione della “Regola del Tre” è invece legata alla lotta alla sedentarietà, ovvero alla necessità di mantenersi attivi. In questo caso, dal Congresso cardiologico Place (Policlinico Casilino), arriva un’altra indicazione molto chiara e semplice da memorizzare: bisogna camminare a passo sostenuto almeno tre volte alla settimana, percorrere almeno tre chilometri e riuscire a farlo in 33 minuti. Facendo tutto ciò regolarmente, fino a tarda età, si ottengono benefici dal punto di vista respiratorio, cardiologico, ortopedico e, non ultimo, psicologico. Gli stessi cardiologi, al contempo, hanno sottolineato la necessità di una dieta idonea come pilastro irrinunciabile nella strategia di prevenzione primaria.

Qualche consiglio? Il Direttore del Heart Rhythm Center presso la Sapporo Cardiovascular Clinic di Hokkaido, in Giappone, caldeggia una “dieta salva cuore” adottata dagli ultracentenari dell’isola giapponese di Okinawa, che prediligono spezie e aromi come origano, capperi, cipolla rossa, pepe, curry, zenzero, basilico, prezzemolo perché hanno un effetto potentissimo sulla longevità.

No a inutili allarmismi su cioccolato (meglio fondente) e caffè che secondo gli esperti dell’Unità operativa di Cardiologia e aritmologia del Policlinico Casilino di Roma ha un’azione benefica fino a un massimo di due tazzine al giorno, ma senza zucchero (al limite con una punta di zucchero di canna o con un po’ di miele). Dunque, alimentazione e attività fisica, ecco due dei principali strumenti per battere le cronicità.

Modificati 2 articoli del Regolamento Assidai

L’Assemblea Ordinaria di Assidai, tenutasi il 30 novembre 2021, conformemente a quanto previsto dall’articolo 6 dello Statuto del Fondo, ha deliberato modifiche al Regolamento proposte dal Consiglio di Amministrazione del Fondo. Di seguito diamo evidenza dei soli punti oggetto delle modifiche stesse.

Art.2 – Aventi diritto all’iscrizione

comma 1c. Il coniuge superstite o, in alternativa, il convivente more uxorio che lo abbia sostituito ai sensi dell’articolo 8, comma 1 del Regolamento, limitatamente ai piani sanitari individuali ai quali avrebbe potuto iscriversi il loro dante causa, sempreché il de cuius fosse iscritto ad Assidai all’atto del decesso, e la richiesta, a pena di decadenza, sia avanzata entro 90 giorni dal decesso, fermo restando che la copertura decorrerà dalla data di versamento del contributo.

comma 2. Gli iscritti ad Assidai che al momento del passaggio in quiescenza hanno un’anzianità di iscrizione al Fondo superiore o pari a 5 anni, potranno continuare ad essere iscritti al Fondo aderendo o mantenendo la propria iscrizione ad uno dei piani sanitari individuali disponibili. Coloro i quali hanno un’anzianità di iscrizione inferiore o comunque hanno aderito al Fondo solo dopo il pensionamento, potranno essere iscritti esclusivamente ai piani sanitari per essi approvati dal Consiglio di Amministrazione.

Art.8 – Assistiti

comma 8. In caso di decesso del dirigente, quadro o consulente, iscritto principale, gli assistiti potranno chiederne il mantenimento ad personam, a condizione che la richiesta sia avanzata entro il termine di 90 giorni dal decesso.

Clicca qui per visualizzare a scaricare il Regolamento completo del nostro Fondo.