Più potassio per un cuore in salute

Consumare alimenti ricchi di potassio, come banane, avocado e salmone, per ridurre la pressione sanguigna, e dunque i danni al cuore, contrastando al tempo stesso gli effetti negativi del sale nella dieta, in particolare nelle donne che ne consumano elevate quantità. È questa la strada tracciata da uno studio pubblicato sull’European Heart Journal, rivista della Società Europea di Cardiologia (associazione indipendente e non governativa che lavora per promuovere la prevenzione, la diagnosi e la gestione delle malattie del cuore), e coordinato dal professor Liffert Vogt dell’Amsterdam University Medical Centers. La tesi, dimostrata attraverso un’approfondita analisi empirica, è molto chiara: quando si consumano regolarmente alimenti ricchi in potassio le diete sono risultate associate ad una pressione media più bassa, con un impatto particolarmente significativo nelle donne con un’elevata assunzione di sale. Quest’ultima, come noto, aumenta il rischio di infarto e di ictus. Tuttavia, non sempre è possibile seguire i consigli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che suggerisce di non consumare più di 5 grammi di sale al giorno. La nostra dieta, infatti, a causa della vita frenetica e dei numerosi pasti consumati in velocità o fuori casa, comprende alimenti trasformati, ricchi appunto di sale. Il potassio – è la tesi dello studio – aiuta dunque l’organismo a espellere più sodio nelle urine e funziona da “antagonista” agli effetti negativi del nostro principale condimento. 

I numeri della ricerca

Vediamo nel dettaglio come è stata condotta la ricerca pubblicata sullo European Heart Journal. Essa ha preso in esame 24.963 partecipanti, 11.267 uomini e 13.696 donne, di età compresa tra i 40 e i 79 anni, reclutati tra il 1993 e il 1997 presso gli ambulatori generali di Norfolk, nel Regno Unito. Ai partecipanti è stato chiesto di compilare un questionario riguardo le loro abitudini alimentari. Inoltre, è stata misurata la pressione sanguigna ed è stato raccolto un campione di urine. 

Il sodio e il potassio urinari sono stati utilizzati per stimare l’apporto dietetico, in base al quale i partecipanti stessi sono stati suddivisi in tre gruppi in base all’assunzione bassa, media o alta di sodio e di potassio. Il passo successivo dei ricercatori è stato poi quello di analizzare l’associazione tra assunzione di potassio e pressione sanguigna. 

I risultati?

All’aumentare dell’assunzione di potassio, la pressione sanguigna è diminuita. Quando, però, l’associazione è stata analizzata in base all’assunzione di sodio, la relazione tra potassio e pressione sanguigna è stata osservata solo nelle donne con un’elevata assunzione di sodio, dove ogni aumento di 1 grammo di potassio giornaliero è stato associato a una riduzione di 2,4 mmHg della pressione sanguigna sistolica. Negli uomini, invece, non è stata riscontrata alcuna associazione tra potassio e pressione sanguigna. 

Un altro elemento chiave è stato verificare il cosiddetto follow up a 20 anni di distanza. Circa il 55% dei partecipanti sono stati ricoverati in ospedale o sono deceduti a causa di malattie cardiovascolari. Tuttavia – aspetto fondamentale ai fini della ricerca – i soggetti con più alto consumo di potassio sono risultati avere un rischio di eventi cardiovascolari inferiore del 13% rispetto a chi invece ne assumeva in quantità esigue. Analizzando separatamente uomini e donne, le riduzioni del rischio di eventi cardiovascolari erano del 7% per gli uomini e dell’11% per le donne. I risultati dello studio suggeriscono insomma che il potassio aiuti a preservare la salute del cuore, in particolare per le donne rispetto agli uomini. Il tutto, va detto considerando che la quantità di sale assunto con la dieta non ha interagito nella relazione tra potassio ed eventi cardiovascolari negli uomini o nelle donne. Come a dire che il potassio protegge a prescindere da quanto sale si consumi.

Le raccomandazioni dell’Oms sul consumo di potassio

Tutto ciò si traduce in raccomandazioni dal punto di vista degli alimenti da consumare e della dieta da adottare. A tal proposito, ricorda la Fondazione Veronesi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità auspica che gli adulti consumino almeno 3,5 grammi di potassio e meno di 2 grammi di sodio (ovvero 5 grammi di sale, l’equivalente di un cucchiaino da the), al giorno. Gli alimenti ad alto contenuto di potassio includono verdura, frutta, noci, fagioli, prodotti caseari e pesce. Ad esempio, una banana media di 115 grammi contiene 375 mg di potassio, 154 grammi di salmone cotto ne contengono 780 mg, una patata di 136 grammi ne contiene 500 mg e una tazza di latte ne contiene 375 mg. Una dieta sana per il cuore va oltre la limitazione del sale, ma deve dunque tenere conto anche di un incremento del consumo di potassio, che invece laddove è inadeguato aumenta la probabilità di incorrere in malattie croniche, a partire da quelle cardiocircolatorie, che, come sappiamo, sono la principale causa di decesso a livello mondiale. 

Ancora troppo sale per gli italiani

Assidai, attraverso costanti informative agli iscritti, è da sempre impegnata sul fronte della prevenzione primaria, che tra i propri capisaldi ha una dieta equilibrata che si poggia sul consumo di alimenti freschi (verdura, frutta e legumi) e non lavorati, anche perché ricchi di potassio e poveri di sale. Proprio di recente Assidai ha anche elaborato un quadro sul consumo di sale in Italia e nel mondo (https://www.assidai.it/cosumo-sale/), che vede dati purtroppo ancora non soddisfacenti. A livello globale, infatti, esso è in media il doppio del valore raccomandato dall’Oms. In Italia nel periodo 2018-2019 è stato riscontrato, attraverso la raccolta delle urine delle 24 ore in campioni di popolazione di età 35-74 anni residenti in 10 Regioni, un consumo medio giornaliero di sale pari a 9,5 grammi negli uomini e 7,2 grammi nelle donne, risultando inferiore a 5 grammi solo nel 9% degli uomini e nel 23% delle donne. Valori in miglioramento rispetto a quelli riscontrati nel periodo 2008-2012 (10,8 grammi negli uomini e 8,3 grammi nelle donne, con un consumo inferiore a 5 grammi al dì nel 4% degli uomini e nel 15% delle donne), anche per merito delle varie campagne di prevenzione messe in atto in questi anni dal Ministero della Salute.

Sindrome Pasc, le possibili conseguenze cardiovascolari del Covid

Dolore al petto, palpitazioni, alterazioni del battito, stanchezza e difficoltà respiratorie. Non sono pochi gli strascichi del post Covid, ovvero che si prolungano anche nel periodo successivo alla negativizzazione del paziente. Tuttavia, questa specifica sintomatologia, diventata un problema per il 10-30% dei pazienti contagiati anche quattro o più mesi dopo la risoluzione dell’infezione, è stata ormai classificata dagli esperti con un vero e proprio nome: il Long Covid solo cardiovascolare viene definito Pasc (sequele post-acute del Covid).

Lo studio pubblicato dal Journal of the American College of Cardiology

Il problema non è di poco conto se si pensa che per gestire questi pazienti nel modo più opportuno l’American College of Cardiology, associazione medica senza scopo di lucro fondata nel 1949 che riunisce qualcosa come 49mila esperti, ha da poco pubblicato sul Journal of the American College of Cardiology, un documento di consenso che indica la strada da percorrere per affrontare il long Covid quando, come spesso accade, coinvolge cuore e vasi. Il documento potrebbe e dovrebbe diventare una vera e propria guida a livello globale, almeno secondo la Società Italiana di Cardiologia (Sic), che richiama l’attenzione sulla necessità di sottoporsi a un corretto iter diagnostico in presenza di sintomi cardiovascolari dopo il Covid e anche l’importanza di utilizzare l’attività fisica corretta come metodo efficace per tornare a stare bene.

La parola d’ordine? Non trascurare segni e sintomi cardiovascolari che compaiano e/o perdurino dopo 4 o più settimane dalla guarigione da Covid-19: il virus ha effetti negativi su cuore e vasi ed è essenziale individuare subito un’eventuale “sofferenza” cardiovascolare per poter intervenire al meglio.

Le due casistiche del Long Covid Pasc

Le parole di Ciro Indolfi, presidente Sic e Ordinario di Cardiologia all’Università Magna Graecia di Catanzaro, sono molto efficaci nel rappresentare la situazione: “Il long Covid a livello cardiovascolare viene ormai identificato come Pasc: sono così numerosi i casi di pazienti con un interessamento cardiovascolare dopo l’infezione acuta che si è definita una nuova malattia”. Ovvero, continua l’esperto, “si parla di Pasc-Cvd quando dopo i test diagnostici si individua una vera e propria patologia cardiovascolare, oppure di sindrome Pasc cardiovascolare quando invece gli esami diagnostici standard non hanno identificato una malattia cardiovascolare specifica ma sono presenti sintomi tipici come tachicardia, intolleranza all’esercizio, dolore toracico e mancanza di respiro”. In presenza di queste manifestazioni persistenti – aggiunge – si raccomanda comunque una valutazione cardiologica di base: va eseguita precocemente per determinare se, per questi pazienti, siano necessarie ulteriori indagini o terapia medica specifica.

Qual è in ogni caso la procedura da seguire?

Il nuovo documento di consenso statunitense raccomanda una valutazione cardiopolmonare di base eseguita in anticipo per determinare se siano necessarie ulteriori cure specialistiche e terapia medica per questi pazienti. In caso di sintomi l’approccio dovrebbe prevedere test di laboratorio di base, tra cui la troponina cardiaca, un elettrocardiogramma, un ecocardiogramma, un monitoraggio del ritmo ambulatoriale, imaging del torace e/o test di funzionalità polmonare.

Contromisure e cure

Accertata la patologia quali possono essere le possibili contromisure? “La consulenza cardiologica è raccomandata per i pazienti con Pasc e risultati anormali dei test cardiaci, in chi ha malattie cardiovascolari note con sintomi nuovi o in peggioramento, se il paziente ha avuto complicanze cardiache documentate durante l’infezione da Sars CoV-2 e/o sintomi cardiopolmonari persistenti che non sono spiegati altrimenti “, sottolinea Indolfi. In presenza invece della sindrome Pasc, in cui quindi non c’è una patologia cardiologica, ma solo sintomi come tachicardia, intolleranza all’esercizio fisico, ovvero una riduzione della capacità di allenamento rispetto a prima del contagio, si raccomanda inizialmente l’esercizio in posizione sdraiata o semi-sdraiata, come ciclismo, nuoto o canottaggio, per poi passare anche all’esercizio in posizione eretta man mano che migliora la capacità di stare in piedi senza affanno. Anche la durata dell’esercizio dovrebbe essere inizialmente breve (da 5 a 10 minuti al giorno), con aumenti graduali man mano che la capacità funzionale migliora. Inoltre, nella sindrome Pasc può essere utile anche l’assunzione di sale e liquidi, per ridurre i sintomi come tachicardia e palpitazioni, ovviamente prescritti dal medico. L’importante è continuare a svolgere attività fisica, seppur con gradualità e cautela: “purtroppo – conclude Indolfi – sembra esistere una spirale discendente nel long Covid: la fatica e la ridotta capacità di esercizio portano a una diminuzione dell’attività e del riposo a letto, che comportano a loro volta un peggioramento dei sintomi e una qualità di vita ridotta”. Insomma, un circolo vizioso che va spezzato assolutamente.

La conferma dalla Lombardia: boom di esami

A contribuire a indagare le possibili conseguenze del Covid sul cuore c’è anche uno studio condotto in Lombardia su quasi 50mila persone e pubblicato sul Journal of Internal Medicine. Un’indagine che ha rivelato come, in una delle Regioni più colpite in Europa dalla pandemia, circa il 10% di pazienti ospedalizzati a distanza di tempo sono stati costretti a un nuovo ricovero. Non solo: più in generale, le visite mediche sono raddoppiate rispetto al pre-pandemia mentre le spirometrie (l’esame più comune per valutare la funzionalità respiratoria) si sono moltiplicate di 50 volte nelle persone che erano state in terapia intensiva. Gli elettrocardiogrammi si sono più che quintuplicati nei pazienti curati nelle rianimazioni e sono oltre che raddoppiati in quelli ricoverati nei reparti non intensivi. Il trend è simile per le Tac del torace, cresciute di 32 volte nei dimessi dai reparti più critici e di 5,5 volte in quelli ricoverati nei reparti di normale degenza. Anche gli esami del sangue sono aumentati moltissimo, in tutti i gruppi, anche in chi il Covid l’ha gestito a domicilio. A testimonianza che le conseguenze di questo virus, anche dopo la negativizzazione, non vanno assolutamente sottovalutati.

Giornata Nazionale contro le leucemie e nuove speranze di cura

Lo scorso 21 giugno, l’AIL (Associazione italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma) ha organizzato, come ogni anno, la Giornata Nazionale per la lotta contro le leucemie-linfomi e mieloma. Nel corso dell’iniziativa sono stati presentati i progressi della ricerca in ematologia ed è stato lanciato un messaggio importante a tutti i pazienti e ai loro familiari. Purtroppo, infatti, ogni anno in Italia circa 5.800 persone ricevono la diagnosi di mieloma multiplo: una malattia che fino a un paio di decenni fa non aveva possibilità di cura, mentre oggi esistono molte terapie e, anche nei casi più difficili, si può parlare di cronicizzazione. Una considerazione che si può fare per molte altre patologie onco-ematologiche. Un ruolo chiave, in questo senso, lo ha giocato e lo gioca la ricerca: uno dei principali mezzi a nostra disposizione – come ricordato sempre da Assidai nelle proprie informative agli iscritti – insieme con la prevenzione primaria, cioè l’adozione di stili di vita saluti, per ridurre l’incidenza delle malattie croniche.

L’origine delle leucemie e le possibili cure

Che cosa è esattamente la leucemia?

L’associazione AIL la definisce come un tumore del sangue causato dalla proliferazione incontrollata di cellule staminali ematopoietiche, cioè cellule immature che sviluppandosi daranno poi vita a globuli bianchi, globuli rossi e piastrine. Le cellule staminali del sangue si trovano nel midollo osseo, presente negli adulti soprattutto nelle ossa piatte (come bacino, sterno, cranio, coste, vertebre, scapole). Le cellule staminali possono seguire due linee di sviluppo: mieloide o linfoide. In uno stato normale, le cellule della linea mieloide daranno origine a gran parte dei globuli bianchi (in particolare il tipo detto “neutrofili” e il tipo detto “monociti”), ai precursori di piastrine e globuli rossi, mentre le cellule della linea linfoide diventeranno un tipo di globuli bianchi detti “linfociti”.

In seguito a mutazioni genetiche e meccanismi complessi, non sempre ancor oggi del tutto chiariti, le cellule staminali possono interrompere precocemente il processo di maturazione, non riuscendo a portare alla formazione di cellule del sangue normali. Inoltre, la cellula immatura può acquisire la capacità di replicarsi senza limite e diventare resistente ai meccanismi di morte cellulare programmata. Se tutto ciò avviene, i “cloni” – copie identiche della cellula originale – potranno invadere il midollo e il sangue, e talvolta anche linfonodi, milza e fegato. Così ha origine una leucemia. La velocità di progressione della malattia è ovviamente un fattore chiave nell’ulteriore classificazione della stessa. Si differenziano così le forme acute (evoluzione con tempistiche brevi o brevissime, che presentano inoltre un blocco di maturazione delle cellule) dalle forme croniche (evoluzione più lenta, in cui viene comunque mantenuta la capacità di maturare dei precursori del midollo, sebbene essa possa essere anormale).

E le cure?

Dipendono moltissimo dal sottotipo di leucemia. Nelle leucemie acute esse mirano, in generale, all’eradicazione delle cellule immature anormali, o “blasti”, nel tentativo di evitare che questi prendano il sopravvento sulla popolazione cellulare normale. Nelle forme croniche il trattamento è generalmente meno intensivo, e mirato spesso a controllare la proliferazione cellulare. Ogni tipologia di leucemia viene trattata seguendo una specifica strategia terapeutica. Oggi, la ricerca ha permesso di fare importanti passi in avanti. Per esempio, con il trapianto di cellule staminali, che sono state le prime ad aprire la strada alle cosiddette “terapie intelligenti” mirate e personalizzate. Infine, c’è la terapia genica che si può utilizzare nei pazienti eleggibili con cellule CAR-T e non solo. Le CAR-T, va ricordato, sono un tipo di cellule del sistema immunitario, i linfociti T, prelevate da una persona con tumore e modificate geneticamente in laboratorio in modo da renderle capaci di attaccare il tumore una volta re-infuse nella stessa persona da cui sono state prelevate.

I numeri delle leucemie in Italia

Ecco alcuni numeri delle leucemie in Italia. Sono 8.600 i nuovi casi diagnosticati in Italia ogni anno, di cui 5.000 uomini e 3.600 donne. Inoltre – stando ai dati del Ministero della Salute – 1.400 sono i bambini, da pochi mesi a 12 anni, e oltre 800 sono gli adolescenti che, sempre ogni anno, nel nostro Paese si ammalano di cancro (linfomi o tumori solidi). Grazie proprio ai progressi della ricerca e alle nuove strategie terapeutiche, nel nostro Paese sono 44mila le persone che hanno avuto un tumore da bambini o da adolescenti e la cui età media è attualmente attorno ai 30 anni. La maggior parte è in buona salute e ha una vita uguale a quella dei coetanei. Altro dato confortante: il tasso di sopravvivenza alla leucemia linfoblastica acuta è del 90%. Si tratta della neoplasia più diffusa tra i bambini, seguita dai linfomi, dai tumori maligni del sistema nervoso centrale e dai sarcomi. Infine, il 4-5% delle nuove diagnosi di tumore nella popolazione occidentale riguardano i linfomi e i mielomi, ormai la quinta forma di neoplasia diagnosticata negli uomini e la sesta nelle donne. Tuttavia, il 70% dei pazienti con tumori del sangue oggi sono vivi dopo dieci anni dalla diagnosi o sono considerati guariti. Il linfoma Hodgkin (che colpisce il sistema linfatico) ha una percentuale di guarigione dell’80-90%, il non-Hodgkin aggressivo del 60-70%.

La visita al Presidente Mattarella

In occasione della Giornata Nazionale per la lotta contro leucemie, linfomi e mieloma – va infine ricordato – una delegazione dell’AIL è stata ricevuta in udienza al Quirinale, dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Al Capo dello Stato è stata evidenziata l’importanza per la comunità scientifica di innovare e fare rete a livello nazionale e internazionale, e il valore delle ragioni del vivere insieme attraverso collaborazione, scambio, altruismo, coraggio e capacità di guardare al futuro con sempre rinnovata energia per il bene della comunità. “Siamo riconoscenti al Capo dello Stato, Sergio Mattarella, per averci ricevuto ancora una volta e aver ascoltato i nostri risultati ma anche i nostri bisogni”, ha commentato Pino Toro, Presidente nazionale AIL.

Un messaggio vocale per riconoscere il rischio di infarto o ictus

L’intelligenza artificiale al servizio della medicina, e in particolare della prevenzione contro le principali patologie cardiocircolatorie. Un algoritmo messo a punto dagli esperti dell’American College of Cardiology, associazione medica no profit composta da 49mila membri e specializzata appunto sulla cardiologia, permetterebbe di quantificare, in base al timbro di voce di una persona, il potenziale rischio che sia colpita da ictus o da infarto. Lo studio, intitolato “Speaking from the Heart: Could Your Voice Reveal Your Heart Health?” e presentato anche al Congresso americano, è nelle sue fasi iniziali, ma risulta a tutti gli effetti molto promettente: in un futuro prossimo, grazie alla tecnologia, anche chi si trova a distanza di un centro specializzato potrà essere monitorato nel tempo grazie ad una semplice applicazione che registra gli impulsi sonori e li invia ad un sistema di intelligenza artificiale. Quest’ultimo, come una sorta di “laboratorio”, prenderà in esame le caratteristiche della voce e potrà di conseguenza indicare quali soggetti correranno più pericoli di andare incontro ad ictus. Insomma, un concetto molto avanzato di screening – il paziente potrebbe inviare un semplice messaggio vocale attraverso il proprio smartphone – nell’ambito della cosiddetta telemedicina. Quest’ultimo è filone che avrà sempre più peso, in Italia e in Europa, nei prossimi anni e che ha acquisito grandissima importanza durante la pandemia da Covid; ad esso, inoltre, il recente Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha dedicato un budget importante.

Metodo e risultati della ricerca

Ma vediamo nel dettaglio la ricerca, che vede come autore principale Jaskanwal Deep Singh Sara della Mayo Clinic. Partiamo dal principale risultato: chi presenta uno specifico marcatore vocale elevato ha un rischio di 2,6 volte più elevato di andare incontro, in futuro, a patologie legate alle arterie coronariche e una probabilità tripla di ritrovarsi con un accumulo di placche lungo i vasi confermata con test clinici, ovviamente in confronto a chi non ha caratteristiche vocali “pericolose”. Facciamo ora un passo indietro.

Come è stato svolto questo esperimento?

Innanzitutto, va precisato che esso ha preso in esame 108 persone, tutte sottoposte ad un controllo delle arterie coronariche attraverso la coronarografia. In seguito, a tutti i soggetti è stato chiesto di registrare tre diversi messaggi vocali di circa mezzo minuto: nel primo si doveva leggere un testo breve, nel secondo e nel terzo si doveva raccontare un’esperienza positiva ed una negativa. Nella fase successiva è entrato in scena un algoritmo di intelligenza artificiale sviluppato in Israele sulla base di oltre 10.000 registrazioni. Infine, si è entrati nella fase di analisi vera e propria di un’ottantina di parametri vocali, dalla frequenza, fino all’ampiezza, al tono e alla cadenza. Partendo da una precedente analisi sperimentale, che aveva identificato sei marcatori correlati con la malattia coronarica, si è poi proceduto all’analisi in base ai punteggi ottenuti. Ebbene, nei due anni successivi al controllo, chi aveva numeri elevati di questo “punteggio” vocale in poco meno di sei casi su dieci (58,3%) è entrato in ospedale per dolore al torace o chiari segni di sindrome coronarica acuta, contro il 30,6% osservato nei soggetti con basso punteggio del biomarcatore vocale. 

Come spiegare tutto ciò?

Per il momento si possono formulare soltanto ipotesi. Per esempio si immagina un ruolo del sistema nervoso autonomo, che in qualche modo influisce sia sulla voce che su parametri di salute di cuore ed arterie, come la frequenza dei battiti o la pressione arteriosa. Questo legame potrebbe contribuire a spiegare l’utilità del controllo vocale a distanza nel monitoraggio dei soggetti a rischio di infarto. Il dato di fatto – ha sottolineato l’autrice della ricerca, Jaskanwal Deep Singh Sara – è che “la telemedicina non è invasiva, è economica ed efficiente ed è diventata sempre più importante durante la pandemia”. “Non stiamo dicendo che la tecnologia di analisi vocale sostituisce i medici o gli attuali sistemi di assistenza sanitaria, ma pensiamo che rappresenti un’enorme opportunità e ulteriore opportunità per agire in modo complementare ad essi. – ha aggiunto – Fornire un campione vocale è molto intuitivo e potrebbe diventare un sistema facilmente replicabile per migliorare la gestione dei pazienti”. Il tutto, ovviamente, senza lasciarsi travolgere dall’eccessivo ottimismo. “È sicuramente un campo di studi entusiasmante, ma c’è ancora molto lavoro da fare”, ha precisato la ricercatrice. “Dobbiamo conoscere i limiti dei dati che abbiamo e dobbiamo condurre più studi in popolazioni più diversificate, analisi più ampie e più prospettiche”.

Le prospettive dell’intelligenza artificiale in medicina

In generale, va ricordato, l’intelligenza artificiale viene vista come strumento per ridurre in prospettiva i costi del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e aumentarne così la sostenibilità futura, che sarà messa a dura prova dal graduale invecchiamento della popolazione. Gli studi più recenti indicano che oltre il 33% delle attività eseguite manualmente dai medici potrebbe essere automatizzato. Non solo: negli ultimi 20 anni, informatici e ricercatori hanno anche dimostrato con successo le applicazioni dell’intelligenza artificiale in diversi ambiti dell’assistenza sanitaria, a partire dalla diagnosi precoce, fino alla scoperta di farmaci e alla gestione dei dati dei pazienti. Solo negli Usa, per esempio, l’uso dei cosiddetti algoritmi che permettono di estrarre preziose informazioni da centinaia di milioni di dati, potrebbe consentire risparmi di oltre 150 miliardi di dollari.

A tal proposito vale la pena citare i dati di un recente studio internazionale presentato su Welfare 24, la newsletter di Assidai realizzata in collaborazione con Il Sole 24 Ore. Lo studio coordinato da Humanitas in collaborazione con l’Università di Oslo, che puntava a indagare il rapporto costi-benefici delle tecnologie di intelligenza artificiale nell’ambito della colonscopia. Nel dettaglio, l’analisi è stata coordinata da Alessandro Repici, direttore del dipartimento di Gastroenterologia di Humanitas e docente di Humanitas University e da Cesare Hassan, docente di Humanitas University. Ebbene, l’impiego dei software di intelligenza artificiale richiede alle strutture ospedaliere investimenti economici valutati pari a circa 19 dollari per paziente. Lo studio in questione, pubblicato su The Lancet Digital Health, ha dimostrato che, nell’arco di 30 anni, questi investimenti non solo vengono interamente ammortizzati, ma generano anche un risparmio se paragonati alle spese mediche per i pazienti con tumore del colon. 

Assidai e il supporto a screening e prevenzione

In quest’ottica andrebbe letto un uso più esteso, in futuro, dello screening vocale testato dell’American College of Cardiology per evidenziare i possibili rischi di patologie cardiocircolatorie. Assidai ha da sempre espresso il pieno supporto a qualsiasi forma di prevenzione contro l’insorgenza delle cronicità, principali cause di decesso a livello mondiale, tra cui spiccano infarto e ictus, tumori e diabete. Laddove per prevenzione si intende sia un intervento a livello “primario”, cioè attraverso l’adozione di stili di vita e abitudini alimentari corretti (evitando il consumo di alcolici e di tabacco in qualsiasi forma), sia a livello secondario, cioè svolgendo appositi screening periodici per scoprire i primi indizi di eventuali patologie ed affrontarle con il giusto anticipo. 

Progetto Orma, prevenzione e cura dei disturbi alimentari da Covid

“Emergenza sanitaria Covid-19. Modello di prevenzione sperimentale multidisciplinare integrato nei disturbi alimentari e disturbi da stress post-traumatici con orticoltura, interventi assistiti con gli animali e mindfulness”. Detto con un acronimo: Orma. È il progetto di ricerca, coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), finanziato dal Ministero della Salute e nato grazie alla collaborazione degli psichiatri dell’Università Cattolica nel campus di Roma e del Policlinico Gemelli Irccs. Si tratta, in particolare, di un modello per la prevenzione e la cura dei disturbi alimentari e dei disturbi da stress post-traumatici nati in particolare dopo la fase acuta della pandemia da Covid e i complicati periodi di lockdown. L’iniziativa è stata realizzata grazie alle attività condotte in collaborazione con Coldiretti e le Associazioni Nitrì, Nutrimenti e Amore per la vita attraverso la cosiddetta pet therapy.

Il significato del progetto è perfettamente riassunto dalle parole del Professor Lucio Rinaldi, docente di Psichiatria al Dipartimento di Neuroscienze dell’Università Cattolica, responsabile del Day Hospital di Psichiatria-Area adolescenza, psicopatologia perinatale e disturbi del comportamento alimentare dell’Unità Operativa Complessa di Psichiatria della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli, nonché Direttore del comitato tecnico-scientifico del progetto di ricerca. “Il progetto Orma – spiega l’esperto – è risultato particolarmente efficace nella prevenzione dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione che hanno subìto un notevole incremento proprio a seguito della pandemia e dei lockdown (secondo l’ISS di più del 40%), in particolar modo in adolescenti e giovani, ma anche negli adulti”.

Prevenzione, vale la pena sottolinearlo, è la parola chiave. Anche per Assidai, che l’ha sempre inserita tra i capisaldi della propria policy e della propria strategia, a beneficio degli iscritti. Del resto, è risaputo come proprio la prevenzione primaria, cioè l’adozione di stili di vita corretti, sia il principale strumento a nostra disposizione per limitare l’incidenza delle malattie croniche; contemporaneamente, la prevenzione secondaria – cioè eseguire screening ed esami periodici – è il miglior modo per scoprire in anticipo, e dunque con maggiore probabilità di cura, le cronicità stesse.

L’allarme dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) sulla salute mentale post pandemia

L’idea dell’ISS e dell’Università Cattolica risponde all’invito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che, a seguito dell’emergenza da coronavirus, ha invitato i governi nazionali ad affrontare con urgenza il problema della salute mentale, potenziando le azioni specifiche di assistenza sul territorio, ma anche i progetti di prevenzione. Da qui, anche sulla base di evidenze scientifiche, l’intuizione di intervenire con un approccio innovativo e transdisciplinare, costruendo un modello sperimentale integrato nei disturbi alimentari e nei disturbi da stress post-traumatici con interventi specifici di orticoltura-interventi assistiti con gli animali e mindfulness. In particolare, – si spiega – il contatto con la natura, previsto nel protocollo integrato, ha l’obiettivo di migliorare i sintomi ansioso-depressivi e il disagio emotivo dei pazienti con varie patologie psichiatriche, configurandosi come una misura preventiva dei fattori favorenti lo sviluppo dei disturbi dell’alimentazione e della nutrizione, in cui i sintomi si presentano come espressione di un disagio emotivo interno. In questo senso, l’orticoltura ha dimostrato grandi potenzialità dal punto di vista terapeutico e sociale e oggi è riconosciuta e ampiamente utilizzata nel recupero da stati di stress psicofisiologico.

Gli interventi assistiti con animali mirano al raggiungimento di benefici sia fisici sia psichici, attraverso la relazione che si instaura tra l’animale e la persona. La Mindfulness è invece una pratica meditativa di osservazione non giudicante della propria esperienza interiore ed esteriore, vissuta momento dopo momento, con apertura e curiosità. In pratica, sostengono le teorie, imparare a meditare significa imparare a conoscere e regolare i propri stati mentali.

Ecco come spiega tutto ciò il Professor Rinaldi. “ll recupero del contatto con la terra attraverso l’orticoltura attiva livelli primitivi di esperienze percettive oltre che funzioni da accompagnamento alla crescita. Gli interventi assistiti con gli animali sostengono la funzione dell’affidarsi e della riduzione dei livelli di controllo: entrambe queste funzioni, attraverso la mindfulness, promuovono forme nuove di esperienze primarie della costruzione identitaria messa in crisi dalle situazioni di violenta angoscia (come la pandemia), crisi che spesso sostiene lo sviluppo dei disturbi alimentari. In tal senso si tratta di tornare alla terra, al cibo e alla natura, non più nella disfunzione ma in forme maggiormente adattative”.

L’Istituto Superiore di Sanità (ISS): modelli alimentari squilibrati durante il lockdown

Tutto ciò parte da un presupposto. I dati dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) rivelano che durante il lockdown della primavera 2020, l’88,6% del campione che ha lamentato sintomi di stress psicologico ha seguito modelli alimentari squilibrati. In particolare, secondo Marco Silano, ricercatore presso il Dipartimento di Sicurezza alimentare e sanità pubblica veterinaria dell’Iss, i partecipanti con sintomi depressivi moderati o gravi assumevano cibi ricchi di zuccheri e grassi con maggior frequenza e mangiavano pochi latticini, frutta e verdura. Di qui l’idea di un progetto finalizzato alla creazione di un modello di intervento per la prevenzione e il trattamento dei disturbi alimentari da stress, utilizzabile non solo nel post Covid, ma esportabile in tutte le situazioni di crisi con stress della popolazione.

L’alimentazione, come detto in precedenza, rappresenta uno dei capisaldi della prevenzione primaria: un concetto di cui Assidai è pieno sostenitore e che il nostro Fondo divulga con frequenza agli iscritti attraverso campagne informative ad hoc. Una dieta equilibrata, ricca di frutta e verdura, con poco sale e molto pesce e zuccheri e proteine nella giusta qualità, evitando il più possibile alcolici, è infatti il modo migliore per preservare il nostro organismo da cronicità a volte, purtroppo, fatali o gravemente invalidanti.

I Buoni TreCuori e il welfare territoriale

I buoni spesa fanno parte dell’universo dei fringe benefit e rappresentano uno strumento importante nel campo del welfare aziendale, sempre più apprezzato da imprese e lavoratori. Essi, infatti, sono una voce addizionale alla retribuzione corrisposta da un’impresa ai propri dipendenti: un compenso “in natura”, che figura comunque in busta paga, come l’auto aziendale, i buoni pasto, lo smartphone e il pc portatile e che, anche nel 2021, ha visto il raddoppio della soglia di detassazione a 516 euro a seguito di un decreto del Governo. Un ulteriore passo in avanti nell’espansione di un settore, quello del welfare aziendale, che negli ultimi anni ha dimostrato ripetutamente le proprie potenzialità, in termini di soddisfazione del dipendente e di produttività dello stesso, a tutto vantaggio anche dell’impresa. Un’equazione, questa, pienamente condivisa anche da Assidai: secondo il nostro Fondo, infatti, le politiche di total reward rivestono una grande importanza per una concreta attuazione del welfare all’interno delle aziende e per una remunerazione completa dei manager.

Chi è TreCuori e la sua iniziativa di welfare

Proprio in tema di buoni spesa, va segnalata l’iniziativa a livello locale di TreCuori Società Benefit, che ha messo a punto un sistema di buoni spendibili anche presso attività commerciali e servizi di prossimità, che possono incassarli in maniera molto semplice e ricevendo il pagamento in tempi brevi. TreCuori è una società benefit pronta a servire, coinvolgere e riunire tutti i soggetti interessati a riattivare l’economia dei territori per favorire la prosperità di persone, imprese e terzo settore grazie a strumenti innovativi che promuovano relazioni di prossimità. TreCuori fa interagire in maniera virtuosa tre tipologie di soggetti: il mondo economico (professionisti, commercianti, artigiani ed imprese del territorio), il terzo settore (Onlus, associazioni sportive dilettantistiche, associazioni culturali, benefiche e scuole) e le persone (consumatori, lavoratori, imprenditori, amministratori – pubblici e privati – e soggetti attivi nel terzo settore).

Welfare locale e ricadute positive sul territorio

L’idea di TreCuori è stata dunque quella di formulare un’offerta che non punta solo sui grandi player internazionali, che di solito erogano i fringe benefit, ma di valorizzare le piccole realtà del territorio. “Data la natura dello strumento, tra i fornitori di beni e servizi non ci sono solo distributori di carburante e supermercati, ma anche piccole attività commerciali, organizzazioni non profit, artigiani e professionisti”, ha sottolineato Alberto Fraticelli, co-Fondatore e Direttore di TreCuori. Insomma, il sistema incentiva l’acquisto anche verso piccole realtà commerciali (mercerie, fiorai, panetterie, macellerie, edicole), artigianali (parrucchiere, estetista, idraulici) e professionali (commercialisti, avvocati). In questo modo l’investimento fatto dalle imprese in welfare aziendale resta sul territorio e produce una ricaduta positiva per l’economia sociale. “Sempre più imprese”, ha fatto notare lo stesso Fraticelli, “vedono in questo tipo di buoni un modo per mettere in pratica un’iniziativa concreta e misurabile di sostenibilità economica e sociale”.

Le scelte delle imprese

Qual è stata la risposta delle imprese a questa iniziativa? A circa quattro anni dal lancio di questo strumento, a fine febbraio 2022, è stata superata la soglia del milione di euro di valore in Buoni Spesa TreCuori incassati dalle tante attività locali che in tutt’Italia hanno deciso di aderirvi. Oltre 400 aziende hanno offerto ad oggi questo tipo di buoni a più di 3.000 collaboratori, i quali li hanno utilizzati per i loro acquisti più di 40.000 volte in oltre 500 diverse realtà di prossimità. TreCuori, inoltre, fa notare che le aziende clienti hanno la possibilità di scegliere quali buoni destinare ai propri collaboratori avendo a disposizione sia 200 tipologie di buoni spesa ‘tradizionali’ – sia in formato fisico che elettronico – sia i Buoni TreCuori. La cosa più interessante da notare è che sono sempre più le imprese maggiormente propense a utilizzare solo i buoni TreCuori per dare un valore diverso al loro investimento ma anche per offrire ai propri collaboratori maggiore libertà di scelta. Il motivo? Riconoscere solo questo tipo di buoni viene visto come un modo di fare welfare su misura per i propri lavoratori, ma con attenzione anche al territorio.

Assidai e il welfare aziendale

Come detto i Buoni TreCuori appartengono alla più ampia categoria del welfare aziendale che viene definito dagli esperti come “l’insieme di misure e di interventi che vengono messi in atto volontariamente da un’organizzazione a favore dei propri dipendenti, per migliorarne la vita privata e lavorativa in numerosi ambiti, incrementando il loro benessere individuale, professionale e familiare sotto il profilo economico e sociale”. Assidai si ritrova pienamente in queste parole offrendo uno dei benefit maggiormente richiesti dai manager e dalle loro famiglie: l’assistenza sanitaria integrativa, che rappresenta la concreta attuazione del welfare all’interno delle aziende. Oggi i manager e, in generale, tutti i lavoratori, si aspettano che l’impresa comprenda e favorisca sempre più l’equilibro tra vita lavorativa e vita privata e le aziende considerano i benefit una leva di gestione e di crescita dell’individuo all’interno dei modelli di sviluppo aziendale. Proprio per questo Assidai rappresenta un benefit esclusivo e di valore: un importante strumento a disposizione dei datori di lavoro, dei responsabili delle risorse umane e degli altri decision maker aziendali per ricompensare, attrarre e trattenere talenti e collaboratori. Il nostro Fondo si pone a completa disposizione delle aziende per fidelizzare e motivare i dirigenti, i quadri, i dipendenti e i consulenti, attraverso la realizzazione di Piani Sanitari taylor made e iniziative di sensibilizzazione e informazione per favorire la prevenzione e il mantenimento di un buono stato di salute per gli iscritti.

Armando Indennimeo alla Presidenza di Assidai per il prossimo triennio 2022-2025

Roma, 1° giugno 2022 – Armando Indennimeo è il neoeletto Presidente di Assidai per il triennio 2022-2025, nominato dall’Assemblea dei Soci svoltasi il 18 maggio 2022.

Il Consiglio di Amministrazione vede, oltre alla Presidenza di Armando Indennimeo, la nomina dei consiglieri Luciano Flussi e Gabriele Sorli e la riconferma di Mauro Marchi e Barbara Picutti.

Gustavo Troisi neo sindaco di Assidai è stato nominato Presidente del Collegio Sindacale con la conferma di Paolo Grasso, già sindaco nel precedente triennio, e Pietro Giomi nuovo componente.

Armando Indennimeo, nato a Salerno nel 1952 e laureatosi al Politecnico di Napoli in Ingegneria Elettronica (con specializzazione nelle telecomunicazioni), ha rivestito ruoli rilevanti come manager in diverse realtà industriali nel campo delle telecomunicazioni e delle energie alternative, sia in Italia che all’estero: Dirigente in Energyfer, Cirte S.p.A., Romeca S.r.l., TeleNorma S.p.A. – Gruppo Bosch, Telettra S.p.A. – Gruppo Fiat. Attualmente svolge incarichi di consulenza presso realtà aziendali ed enti locali.

Il neo Presidente Assidai conosce in modo approfondito la realtà Federmanager, sia a livello nazionale che a livello locale. È iscritto a Federmanager fin dal 1992, è tuttora Presidente di Federmanager Salerno, è stato Consigliere Nazionale Federmanager e membro della Giunta esecutiva di Federmanager dal 2015 al 2021. Inoltre, negli stessi anni, ha ricoperto la carica di componente dell’Assemblea Fasi. Infine, è stato membro del Cda di Industria Welfare Salute S.p.A. (IWS) dal 2019 al 2020.

L’ingegnere Indennimeo si è distinto in ogni sua attività lavorativa per una forte attenzione all’innovazione, allo sviluppo e alla produttività e ha dichiarato: “affronterò questa nuova sfida trasferendo i valori basilari che contraddistinguono la mia attività professionale in tutte le azioni che intraprenderò nel prossimo triennio per proporre modelli innovativi secondo la migliore cultura d’impresa. Ritengo che sia fondamentale consolidare e rafforzare il posizionamento di Assidai quale principale fondo integrativo del Fasi attraverso una sempre maggiore diffusione del Prodotto Unico Fasi-Assidai, in linea con le decisioni delle parti sociali. Contemporaneamente sarà importante continuare ad accrescere la riconoscibilità del brand Assidai e a implementare nuove sinergie con gli altri Enti del sistema e con le Associazioni Territoriali Federmanager per ottimizzare i processi operativi e aumentare il livello dei servizi offerti agli assistiti e alle imprese”.

ASSIDAI è un Fondo di assistenza sanitaria integrativa che ha natura giuridica di ente non profit. Nato su iniziativa di Federmanager, è attivo da oltre trenta anni e offre i propri servizi a manager, quadri ed alte professionalità. Oggi conta una base di oltre 50.000 nuclei familiari iscritti e 120.000 persone assistite ed è punto di riferimento per più di 2.000 aziende che hanno scelto di sottoscrivere un Piano Sanitario Assidai. L’assenza di selezione del rischio e l’impossibilità di recesso dall’iscrizione da parte del Fondo, garantiscono la tutela degli aderenti durante l’intero arco della loro vita. Assidai ha certificato il proprio sistema di gestione secondo la norma UNI EN ISO 9001:2015, è iscritto all’Anagrafe dei fondi sanitari presso il Ministero della Salute, certifica annualmente su base volontaria il proprio bilancio e si è dotato di un Codice Etico e di Comportamento.

Per informazioni e interviste

Marilena Albanese
Responsabile Marketing e Comunicazione Assidai

m.albanese@assidai.it
+39 3669617638

Sanità, per il Ministro della Salute Speranza è l’ora della svolta

“Per troppi anni la sanità è stata considerata un costo e non un investimento. Oggi, con le risorse ordinarie, in due anni e mezzo il Fondo sanitario nazionale è passato da 114 miliardi a 124 miliardi”. È con questa frase che il Ministro della Salute, Roberto Speranza, ha recentemente annunciato quella che dovrà rappresentare una svolta duratura e strutturale per la sanità italiana. Insomma, abbiamo davanti a noi, “una grande occasione per capire che si deve e si può costruire un Servizio sanitario nazionale più forte e più capace di rispondere alle esigenze delle persone”.

Un cambio di passo per la sanità e il Paese

Prendendo spunto dagli investimenti straordinari legati al Covid, le prossime politiche di bilancio nei confronti della sanità – secondo il Ministro – non dovranno più prevedere tagli lineari e austerità. “In passato si investiva mediamente 1 miliardo in più all’anno. In due anni e qualche mese abbiamo investito 10 miliardi in più e poi ci sono i 20 miliardi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr)”, ha spiegato. Insomma, un cambio di passo, nei numeri e nei fatti, che dovrà proseguire nel tempo, per preservare le caratteristiche pressoché uniche al mondo di equità e universalità del Servizio Sanitario Nazionale. Un obiettivo condiviso a pieno da Assidai, che considera la sanità pubblica come pilastro irrinunciabile per il Paese. Allo stesso tempo, il nostro Fondo, che ha natura di fondo sanitario non profit, si propone come possibile supporto al Servizio Sanitario Nazionale, sempre più alle prese con l’invecchiamento della popolazione e con il conseguente aumento delle cronicità e della spesa.

La svolta del Piano operativo nazionale

Un aspetto rilevante, evidenziato dal Ministro Speranza, è quello del Pon salute (Piano operativo nazionale), che quest’anno ci sarà per la prima volta in assoluto. “Nella lunga storia della programmazione delle risorse europee, i Pon sono sempre stati uno strumento fondamentale per ridurre le diseguaglianze tra Sud e Nord e si è fatto il Pon quasi su tutto, ma mai sulla salute. Questa volta, grazie al nostro impegno, portiamo a casa un risultato senza precedenti: 625 milioni per il Pon salute”, ha fatto notare il Ministro, sottolineando che questi capitali verranno usati “per recuperare i ritardi sugli screening oncologici, che al Sud sono maggiori rispetto al resto d’Italia, sulla salute mentale, che è un grandissimo tema del futuro, sui consultori e sulla medicina di genere”.

Le tre parole chiave per il futuro

Prossimità, innovazione ed uguaglianza. Sono queste le tre parole chiave attorno alle quali Speranza immagina la sanità del futuro in base alla riforma messa in campo con il Pnrr e che investe circa 20 miliardi. La prossimità è l’idea di un Servizio sanitario nazionale più vicino ai cittadini, il cui primo elemento è l’assistenza domiciliare, tema ancora debole e fragile. Fino a pochi mesi fa il 4% delle persone sopra i 65 anni poteva avere un medico o infermiere che si recava alla sua abitazione. La media dei paesi Ocse è il 6%, Germania e Svezia, i migliori esempi in Europa, sono al 9%. “Con le risorse del Pnrr l’Italia diventerà il primo Paese d’Europa per assistenza domiciliare con il 10%: passeremo dunque da paese al di sotto di due punti della media Ocse ad essere quattro punti sopra”, ha promesso Speranza.

La seconda parola chiave è innovazione, perché – ha aggiunto – “una sfida del futuro è quella della sanità digitale. Ormai la telemedicina, la tele-assistenza, il fascicolo sanitario elettronico sono punti fondamentali di un’agenda che dobbiamo definire e costruire con coraggio”. Quindi, “dobbiamo investire sulle reti informatiche e usare meglio i dati, patrimonio senza precedenti a nostra disposizione. E i dati, in sanità, sono particolarmente significativi, perché ci possono dire dove stanno andando il nostro Paese e la nostra regione. Con i dati si possono costruire modelli predittivi che ci possono far capire sul piano epidemiologico quali sono i punti su cui dobbiamo mettere più risorse”.

Infine, la terza parola, forse la più importante, è uguaglianza. “Provare a costruire una sanità di tutti, perché il diritto alla salute è un diritto universale che va difeso con il coltello tra i denti. Nascere in una piccola provincia non deve dare meno diritti di chi nasce nei grandissimi centri delle città più importanti del nostro Paese. Questo dice la Costituzione e a questo dobbiamo lavorare incessantemente”, ha concluso il Ministro della Salute.

Dove si investirà grazie al Pnrr

Il Pnrr rappresenterà, quindi, un elemento cruciale per potenziare gli investimenti sulla sanità pubblica e migliorare le sue capacità di risposta ai bisogni di cura dei cittadini, anche alla luce delle criticità che la pandemia ha messo in evidenza negli ultimi mesi. Con i 20 miliardi circa che arriveranno dal piano europeo si agirà principalmente in due direzioni. Da una parte si lavorerà sulle Reti di prossimità, strutture intermedie e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale, alle quali sarà dedicata una dotazione complessiva di circa 9 miliardi. L’altra grande direzione in cui opererà il Pnrr è quella legata a innovazione, ricerca e digitalizzazione, che avrà un budget vicino agli 11 miliardi. Una buona fetta (4 miliardi) sarà destinata all’ammodernamento del parco tecnologico e digitale ospedaliero, ad esempio con l’acquisto di strumentazioni e tecnologie all’avanguardia e con il rinnovamento della dotazione esistente di posti letto di terapia intensiva e semi-intensiva. Oltre 1,6 miliardi, di cui 1 miliardo relativo a progetti già in essere, saranno finalizzati all’adeguamento antisismico degli ospedali.

Allarme microplastiche nel sangue

Minuscoli frammenti di plastica dispersi nell’ambiente che possono finire nel sangue ed entrare in circolazione nel corpo umano. Quella che prima era soltanto un’ipotesi di laboratorio è stata dimostrata recentemente da una ricerca condotta nei Paesi Bassi e coordinata dalla Vrije Universiteit di Amsterdam. I risultati, pubblicati sulla rivista “Environment International”, sono stati ottenuti dal gruppo di lavoro guidato dal Professor ed ecotossicologo Dick Vethaak e in cui figurano anche, tra gli altri, Heather Leslie e la chimica Marja Lamoree, nell’ambito del progetto Immunoplast.

Una scoperta che, per quanto gli effetti sulla salute umana siano ancora sconosciuti, merita certamente approfondimenti, in particolare sul possibile passaggio dei frammenti di plastica dal sangue agli organi. Insomma, un tema di grande interesse, al quale Assidai ha deciso di dedicare un approfondimento ad hoc, sempre nell’ottica di fornire ai lettori e agli iscritti al Fondo di assistenza sanitaria integrativa una panoramica completa sul mondo della salute e sulle possibili forme di prevenzione delle principali patologie croniche e non.

I risultati della ricerca

La ricerca dell’Università di Amsterdam è stata svolta grazie all’analisi del sangue donato da 22 persone anonime, nel quale sono state cercate le tracce di cinque polimeri, ossia le molecole che sono i mattoncini di cui è costituita la plastica, e per ciascuno di essi sono stati misurati i livelli presenti nel sangue. È risultato che in tre quarti dei 22 campioni esaminati erano presenti tracce di plastiche e che il materiale più abbondante era il Pet (polietilene tereftalato) di cui sono fatte le bottiglie: è stata misurata una quantità di 1,6 microgrammi per millilitro di sangue, pari a un cucchiaino da tè di plastica in mille litri di acqua (una quantità pari a dieci grandi vasche da bagno). È risultato molto frequente anche il polistirene utilizzato negli imballaggi, seguito dal polimetilmetacrilato, noto anche come plexiglas. In media, sono stati misurati 1,6 microgrammi di plastica per ogni millilitro di sangue, con la concentrazione più alta di poco superiore a 7 microgrammi.

Le possibili conseguenze sulla salute

Qual è il passo successivo? Adesso, secondo i ricercatori, resta da capire se e con quale facilità le particelle di plastica possono passare dal flusso sanguigno agli organi. “Si tratta dei primi dati di questo tipo e ora – ha sottolineato Marja Lamoree – l’obiettivo è raccoglierne altri per capire quanto le microplastiche siano presenti nel corpo umano e quanto possano essere pericolose. Grazie ai nuovi dati sarà possibile stabilire se l’esposizione alle microplastiche costituisca una minaccia per la salute pubblica”.

In questo campo, va ricordato, gli studi sono purtroppo ancora agli albori. I ricercatori che si occupano di animali hanno messo in relazione l’esposizione a micro e nanoplastiche a infertilità, infiammazione e cancro, ma gli effetti sugli uomini sono ancora sconosciuti. In uno studio parallelo, di cui è coautore sempre il Professor Vethaak, è stato valutato il rischio di cancro relativo all’ingestione di microplastiche: “Ricerche più dettagliate su come le micro e nanoplastiche influenzano le strutture e i processi del corpo umano e se e come possono trasformare le cellule e indurre la cancerogenesi, sono sempre più urgenti, soprattutto alla luce dell’aumento esponenziale della produzione di plastica. Il problema diventa ogni giorno più grave”, ha aggiunto al proposito Vethaak. È ragionevole essere preoccupati – ha concluso il professore olandese – le particelle ci sono e vengono trasportate in tutto il nostro corpo”.

Microplastiche anche nei polmoni

È stato dimostrato, peraltro, che le microplastiche si depositano in profondità, anche nei polmoni delle persone. A farlo è stato una ricerca pubblicata online da “Science of the Total Environment” e realizzata da un team di ricercatori e medici del Regno Unito. Lo studio, basato sull’esame del tessuto polmonare prelevato da 13 pazienti sottoposti a intervento chirurgico, ha rilevato particelle di plastica fino a dimensioni di 0,003 mm, confermando la loro presenza in 11 casi. Utilizzando la spettroscopia, è inoltre stato possibile identificare anche il tipo di plastica e le microplastiche più comuni che sono risultate essere quelle derivate dal polipropilene, utilizzato prevalentemente negli imballaggi e nei tubi, e dal Pet, impiegato soprattutto per le bottiglie.

Un problema globale

Per concludere va ricordato che la diffusione della plastica in acqua, aria e suolo è un problema globale. Anche quando non sono più visibili a occhio umano, i minuscoli frammenti di plastica pervadono l’ambiente e possono essere ingeriti da animali e uomini. Per definizione, per microplastica si intendono frammenti più piccoli di cinque millimetri di diametro. Le nanoplastiche sono invece ancora più piccole (con un diametro inferiore a 0.001 millimetri). Il loro accumulo nell’ambiente – la produzione attuale è stimata in oltre 300 milioni di tonnellate l’anno – è considerato una catastrofe per tutti gli ecosistemi, a partire dagli oceani.

Certo, la presenza dimostrata di microplastiche all’interno del corpo umano, nel sangue e nei polmoni, apre scenari non immaginabili fino a poco tempo fa, anche e soprattutto per le conseguenze a livello di cronicità che potrebbero avere sulla salute.

Italia, 30 anni di lotta contro l’amianto

Esattamente 30 anni fa, tra i primi Paesi in Europa e nel mondo, l’Italia metteva al bando l’amianto attraverso l’importante Legge 257/92. Nelle scorse settimane il Ministero della Salute e l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) hanno voluto celebrare questo risultato con l’evento “Amianto e Salute: priorità e prospettive nel trentennale del bando in Italia“, al quale è intervenuto tra gli altri il Ministro Roberto Speranza. “Sono passati 30 anni dalla legge che mise al bando l’amianto in Italia. – ha sottolineato – Siamo stati tra i primi a farlo e tanto lavoro resta ancora da fare. Nel mondo il 75% dei Paesi è ancora privo di regole. Prendersi cura dell’ambiente in cui si lavora e si vive vuol dire prendersi cura della salute di ciascuno. Continuiamo su questa strada”. Del resto, tutte le tipologie di amianto sono cancerogene per l’uomo e causano il mesotelioma, il tumore del polmone, della laringe e dell’ovaio; oltre a queste patologie neoplastiche, l’esposizione ad amianto causa asbestosi, cioè una malattia cronica polmonare. Sul punto anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) è sempre stata molto chiara: tutti i tipi di amianto creano gravi danni per la salute. Anche impegnarsi su questo fronte è – in un certo senso – fare prevenzione contro le malattie croniche, una necessità di cui Assidai è fermamente convinta e che il nostro Fondo cerca di mettere in pratica attraverso costanti e approfondite informative agli iscritti.

Che cos’è l’amianto e il rischio tumori

Ma di che cosa stiamo parlando e che cos’è l’amianto? Come Assidai, Fondo di assistenza sanitaria integrativa di emanazione Federmanager, riteniamo fondamentale anche su questo tema offrire un ventaglio di informazioni utili per tutti e, in particolare, per i manager del settore industriale di cui ci prendiamo cura, che, anche nel loro percorso aziendale, si possono trovare ad affrontare situazioni delicate connesse proprio alla presenza di questi minerali. Infatti, quando si parla di amianto, dobbiamo considerare sei diversi minerali appartenenti alla classe dei silicati la cui caratteristica fondamentale è essere costituiti da fibre molto sottili e flessibili. Il basso costo e il fatto che l’amianto sia molto resistente alla degradazione e al calore ne hanno favorito il successo commerciale ed è stato usato in passato per moltissime applicazioni industriali e civili. Le fibre che si ottengono per macinazione del minerale possono essere filate per produrre tessuti resistenti al fuoco: un settore che ha fatto molto uso dell’amianto è l’edilizia, per esempio.

Purtroppo, come sottolinea il sito dell’Airc (Associazione italiana per la ricerca sul cancro) le fibre di amianto possono causare tumori del polmone e mesoteliomi, poiché quando vengono inalate entrano in profondità nell’apparato respiratorio ed essendo resistenti alla degradazione non vengono eliminate. La presenza delle fibre crea uno stato di infiammazione persistente in cui vengono prodotte molecole che danneggiano il DNA delle cellule, favorendo la trasformazione tumorale. Il processo di sviluppo della malattia è molto lungo: possono passare oltre 25 anni, ma anche 40-50 anni, dall’inizio dell’esposizione all’amianto prima che ci si possa ammalare di tumore.

Quali sono le patologie connesse al rischio amianto?

Secondo quanto riportato dal IV Rapporto del Registro Nazionale Mesoteliomi, le tre principali patologie connesse all’esposizione all’amianto sono malattie dell’apparato respiratorio proprio perché il problema dell’esposizione all’amianto deriva dall’inalazione. Le forme tumorali per cui è stata accertata la connessione con la sostanza sono: asbestosi, carcinoma polmonare e mesotelioma.

L’asbestosi

Scendendo nei dettagli, l’asbestosi è una fibrosi polmonare che causa l’ispessimento e l’indurimento del tessuto polmonare complicando in maniera concreta l’ossigenazione del sangue. Si tratta di una malattia determinata da un’esposizione piuttosto lunga all’amianto, circa 10/15 anni e colpisce principalmente gli operai che si sono occupati della produzione di materiali con amianto in contesti industriali. La patologia è molto grave perché purtroppo è irreversibile, tuttavia dovrebbe scomparire come conseguenza della Legge 257/92 che ha vietato, almeno in Italia, la lavorazione dell’amianto.

Carcinoma polmonare

In secondo luogo, l’esposizione all’amianto è un concreto fattore di rischio per l’insorgenza del carcinoma polmonare, un tumore “classico” ai polmoni. La criticità, in questo caso, è rappresentata dal fatto che non è necessario un lungo contatto con la sostanza e la malattia può emergere anche dopo molti anni, addirittura 20 in alcuni casi.

Mesotelioma

Infine, il mesotelioma è una tipologia specifica di tumore: è un carcinoma che colpisce la pleura, ovvero la membrana di rivestimento del polmone. Le peculiarità di questa patologia è che i rari casi sono sempre riconducibili ad un’esposizione all’amianto, anche antecedente di più di 25 anni. Esistono casi in cui la malattia è comparsa dopo 40 anni dall’esposizione e, anche in questo caso, non è necessaria una dose alta di fibre microscopiche d’amianto per sviluppare la malattia.

I numeri dell’ISS sull’Italia

Uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha evidenziato che il carico sanitario in Italia legato alle conseguenze dell’amianto è stimato a circa 4.400 decessi l’anno dovuti all’esposizione nel periodo 2010-2016: 3.860 uomini e 550 donne. Di questi, 1.515 sono persone decedute per mesotelioma maligno (più dell’80% dei mesoteliomi è causata dall’amianto), 58 per asbestosi (malattia polmonare causata da inalazione di fibre di amianto), 2.830 per tumore polmonare e 16 per tumore ovarico. L’ISS ha anche analizzato i dati sulla mortalità precoce (prima dei 50 anni) per mesotelioma: nel periodo 2003-2016 in Italia sono stati registrati circa 500 decessi. Si tratta verosimilmente di persone che da bambini hanno vissuto in aree italiane contaminate da amianto e/o che sono stati esposti indirettamente a fibre di amianto in ambito domestico a causa delle attività professionali dei genitori o connessa ad attività ricreative. Questi casi rappresentano il 2,5% del totale dei decessi per mesotelioma nello stesso periodo. “Molto è stato fatto – ha evidenziato il Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro – tuttavia, dai dati epidemiologici emerge il perdurare di un carico di malattie attribuibili ad esposizioni ad amianto nel nostro Paese, evidenziando che le esposizioni passate e l’amianto residuo rimangono un problema di sanità pubblica sul quale è urgente intervenire. L’esperienza e la cultura dell’amianto maturate in Italia possono, inoltre, essere certamente d’esempio per i numerosi paesi dove l’amianto è ancora in uso”.

I passi normativi sull’amianto in Italia ed Europa

L’Italia, come detto, ha fatto già molto sul fronte dell’amianto. Oltre a essere stata tra i primi Paesi in Europa a vietarne l’utilizzo e la produzione già nel 1992, ha poi realizzato una mappa nazionale dei siti contaminati, sono state portate avanti opere di bonifica sul territorio nazionale e successivamente è stato attivato un piano di sorveglianza epidemiologica nazionale della mortalità per mesotelioma negli 8.000 comuni italiani.

Nel 2002 ha dato il via al Registro Nazionale Mesoteliomi (ReNaM) che rappresenta uno dei più avanzati sistemi di sorveglianza epidemiologica attiva in questo settore, con oltre 30mila casi censiti mentre è operativo dal 2008 il Programma nazionale di qualificazione per i laboratori che eseguono le analisi per la determinazione dell’amianto su tutto il territorio nazionale.

A livello comunitario, invece, dal 1° luglio 2025 tutti gli Stati membri dell’Unione Europea dovranno aver provveduto all’eliminazione dei “prodotti” di amianto (Regolamento UE 2016/1005) e l’eradicazione delle malattie amianto-correlate rientra tra le priorità “ambiente e salute” dell’OMS per il raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile.

L’amianto nel mondo: impatto economico e sanitario

Infine, qual è la situazione nel mondo? Ogni anno – secondo un recente studio dell’Oms – a livello globale le conseguenze sulla salute dell’utilizzo dell’amianto costano solo di spese sanitarie tra i 2,4 e i 3,9 miliardi di dollari, senza contare i costi indiretti, e l’amianto provoca 100mila morti ogni anno. Sempre secondo il report la produzione globale di amianto è andata progressivamente diminuendo dal picco raggiunto nel 1980 di 4,8 milioni di tonnellate, e ora la metà di questa cifra è distribuita tra quattro paesi, Brasile, Russia, Cina e Kazakhstan. Il primo paese a bandirlo è stata la Danimarca nel 1972, mentre nel 2013 era vietato in 67 paesi. “Dai dati dei singoli paesi – conclude lo studio – non emergono effetti negativi osservabili sul Pil in seguito al bando dell’amianto o a un declino nel consumo o nella produzione. Dove è stato osservato un calo dell’occupazione l’effetto è stato assorbito nei due anni successivi”.