Perché bere acqua fa bene al cuore

Bere circa due litri di acqua al giorno riduce i rischi di futuri scompensi cardiaci. Una corretta idratazione, regolare e continua, infatti, permette al cuore di continuare a pompare il sangue in maniera efficace anche in tarda età.

È la conclusione alla quale è arrivato uno studio presentato al congresso della European Society of Cardiology e condotto dal National Heart, Lung, and Blood Institute di Bethesda (USA), che fa parte dei National Institutes of Health. Questo non è che l’ultimo di diversi studi che sottolinea l’importanza del cosiddetto “oro blu” come la più preziosa risorsa per la vita. Del resto, l’acqua rappresenta circa il 70% del peso del nostro corpo e, fin dal concepimento, è la nostra “culla” naturale. Secondo molti esperti, è dunque l’elemento fondamentale per il mantenimento e la promozione del benessere e della salute umana e mediamente, anche attraverso i cibi, ne andrebbero assunti 2,5 litri al giorno.

L’indagine svolta dal National Heart, Lung, and Blood Institute ha ancora più valore perché riconosce, attraverso analisi empiriche e statistiche, un ruolo all’acqua come elemento per mantenere intatta la funzionalità cardiaca e dunque come strumento di prevenzione primaria contro le patologie dell’apparato cardiocircolatoria, principali cause di decesso nel mondo insieme ad altre cronicità come i tumori. Bere acqua nella giusta quantità ogni giorno appartiene a quei corretti stili di vita che Assidai da sempre promuove tra i propri iscritti, proprio con l’obiettivo di adottare abitudini, alimentari e non solo, corrette e finalizzate a prevenire le cronicità stesse.

I numeri dello studio sul rischio cardiovascolare

Vediamo ora nel dettaglio lo studio in questione. Innanzitutto, il campione, che faceva parte di un precedente studio americano sul rischio cardiovascolare: 15.800 adulti tra i 44 e i 66 anni di età seguiti fino all’età di 70-90 anni. Poi il metodo: come parametro indicativo dell’idratazione è stata usata la concentrazione di sodio nel sangue, due parametri inversamente proporzionali, mentre per quanto riguarda gli scompensi cardiaci non sono stati selezionati solo i casi conclamati ma anche quelli con ispessimento delle pareti del ventricolo sinistro, una condizione che quasi sempre precede la diagnosi vera e propria della patologia. L’obiettivo? Cercare di scoprire se la quantità di acqua assunta in mezza età fosse in qualche modo associata alla salute cardiaca 25 anni più tardi.

Ebbene, una maggiore concentrazione di sodio nella mezza età è stata associata sia a insufficienza cardiaca sia a ipertrofia ventricolare sinistra 25 anni dopo. Succede probabilmente perché l’organismo risponde alla minore idratazione cercando di conservare l’acqua e mettendo in moto processi che possono contribuire allo sviluppo dello scompenso cardiaco. Infine, i risultati: l’associazione tra scarsa idratazione e malattia cardiaca è rimasta evidente anche dopo aver preso in considerazione altri fattori di rischio, come l’età avanzata, l’ipertensione, la scarsa funzionalità renale, l’abitudine al fumo, alti livelli di colesterolo o un indice di massa corporea superiore alla norma. Conclusione: una buona idratazione per tutta la vita può ridurre il rischio di sviluppare ipertrofia ventricolare sinistra e insufficienza cardiaca.

L’acqua come strumento di prevenzione: gli altri studi

Il National Heart, Lung, and Blood Institute non è però l’unica istituzione autorevole a rimarcare l’importanza di una corretta idratazione. Altri autorevoli esperti hanno evidenziato come essere ben idratati ha molti vantaggi: prima di tutto, aiuta a controllare la quantità di calorie che ingeriamo e di conseguenza il peso. Questo perché talvolta la disidratazione può essere scambiata per fame e portarci a mangiare più del necessario, con eccessivo apporto calorico.

“L’acqua deve essere considerata lo strumento principale per idratare il corpo umano. Soprattutto se si considera quanto, nei Paesi occidentali, sia diffusa l’obesità, legata a un elevato apporto di bevande ad alto valore calorico”, fa notare Water & Health, consensus paper dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Quest’ultimo documento sottolinea anche come “una buona idratazione aiuta ad essere più attenti, migliora la memoria a breve termine e l’umore mentre la disidratazione rende incapaci di concentrarsi, causa problemi mnemonici e fa sentire il soggetto irritato e ansioso”.

Benefici ci sono anche per l’apparato cardiocircolatorio, in quanto si riduce la viscosità del sangue e il rischio di trombosi: il magnesio favorisce il rilasciamento delle fibrocellule muscolari cardiache mentre il calcio stimola la contrazione delle cellule e interviene nella coagulazione del sangue, riducendo i rischi di infarto. Infine, una buona idratazione mantiene il tratto urinario in salute e riduce il rischio di infezioni e di calcoli renali.

Assidai e la prevenzione primaria

L’acqua, dunque, come perno della prevenzione primaria, un concetto sempre sostenuto da Assidai. La prevenzione primaria va sottolineato, riguarda un soggetto sano e ha l’obiettivo di mantenere le condizioni di benessere e di evitare la comparsa di malattie. Nel dettaglio, si realizza introducendo una serie di attività o interventi che potenziano i fattori utili alla salute e correggono eventuali comportamenti che possono invece causare malattie. L’obiettivo è il benessere psicofisico e la riduzione del rischio legato all’insorgere di malattie.

In concreto, la prevenzione primaria è rappresentata per esempio da stili di vita sani e corretti: dormendo il giusto numero di ore oppure evitando l’eccessivo aumento di peso o della circonferenza vita. Essere sovrappeso, infatti, non è soltanto un tema estetico ma soprattutto può essere dannoso nel medio e lungo termine, accelerando l’invecchiamento, creando uno squilibrio ormonale consistente e affaticando i nostri organi, a partire proprio dal cuore.

Rinnovo dell’iscrizione all’Anagrafe dei Fondi Sanitari per l’anno 2021

Si conferma anche per il 2021 l’importante rinnovo dell’iscrizione di Assidai all’Anagrafe dei Fondi Sanitari per l’anno 2021. Infatti, proprio nella giornata di ieri, 20 ottobre 2021, la Direzione Generale della Programmazione Sanitaria del Ministero della Salute ha inviato al Fondo la certificazione con numero di protocollo 0021216-20/10/2021-DGPROGS-DGPROGS-UFF02-P.

Sono ben 11 anni che Assidai è iscritto all’Anagrafe dei Fondi Sanitari, istituita dal Ministero della Salute con Decreto del 31 marzo 2008 e del 27 ottobre 2009, e divenuta operativa nel 2010 – primo anno di attività dell’Anagrafe stessa.

Il riconoscimento appena arrivato si conferma essere, come ogni anno, un ulteriore tassello del ricco mosaico rappresentato dai valori del Fondo: riservatezza, professionalità, integrità, trasparenza, mutualità, solidarietà, assistenza, salute, innovazione. Essi rappresentano i pilastri della mission di Assidai, che opera con un obiettivo sopra tutti: prendersi cura degli iscritti e delle loro famiglie senza limiti di età, di accesso e di permanenza, senza selezione del rischio e per tutta la durata della loro vita.

L’iscrizione all’Anagrafe dei Fondi Sanitari va considerata un elemento fondamentale proprio perché evidenzia la trasparenza del Fondo insieme alla certificazione annuale su base volontaria del proprio bilancio, al Sistema di Gestione certificato ISO 9001:2015 e al Codice Etico e di Comportamento.

All’anagrafe – come esplicitato dal Ministero della Salute – si possono iscrivere volontariamente I fondi sanitari integrativi del Servizio Sanitario Nazionale (istituiti o adeguati ai sensi dell’art. 9 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modificazioni) e gli enti, casse e società di mutuo soccorso aventi esclusivamente fine assistenziale, di cui all’art. 51 comma 2, lettera a) del D.P.R. 917/1986 e successive modificazioni. L’iscrizione e il rinnovo dell’iscrizione può essere chiesta dal 1° gennaio al 31 luglio di ciascun anno e l’attestato viene rilasciato per via telematica, ai fondi sanitari aventi diritto, fra tutti quelli che ne hanno fatto richiesta. Inoltre, l’attestato ha la validità di un anno – pertanto l’iscrizione all’Anagrafe deve essere richiesta annualmente – e permette anche di beneficiare delle agevolazioni fiscali previste dalla normativa vigente.

Oltre alla documentazione relativa alla loro istituzione e regolamentazione, i fondi che richiedono l’iscrizione all’Anagrafe devono Si conferma anche per il 2021 l’importante rinnovo dell’iscrizione di Assidai all’Anagrafe dei Fondi Sanitari per l’anno 2021 (i cosiddetti LEA). Queste informazioni, soprattutto negli ultimi anni, hanno permesso di ampliare le conoscenze sulla sanità integrativa e di approfondire le sue dinamiche. A tal proposito, va ricordato che gli ultimi dati dell’Anagrafe sui Fondi Sanitari sono stati diffusi dal Ministero della Salute lo scorso anno e certificano una crescita costante della sanità integrativa italiana e con una netta prevalenza degli Enti, Casse e Società di mutuo soccorso (come Assidai) rispetto ai fondi sanitari puramente integrativi. Un trend che sarà sicuramente utile verificare con numeri più aggiornati (quando verranno pubblicati) insieme a un’altra tendenza: il divario tra il numero dei fondi sanitari integrativi e gli enti, casse e società di mutuo soccorso si è allargato nel tempo con la seconda categoria che ormai rappresenta il 97% del totale. Un gap rivelato anche dall’ammontare delle risorse erogate e nel numero di iscritti. Gli Enti, le Casse e le Società di Mutuo Soccorso, nel 2017, avevano erogato prestazioni per 2,32 miliardi di euro, a fronte di un totale di 10,6 milioni di iscritti; l’altra categoria di fondi si fermava rispettivamente a 1,3 milioni e poco più di 11.000 iscritti. Questi e molti altri dati avevamo presentato nell’articolo “Fondi sanitari in crescita continua. Ecco il report del Ministero della Salute pubblicato su Welfare 24, la newsletter che Assidai realizza da oltre otto anni con Il Sole 24 ore.

Al seguente link, invece, è possibile visualizzare la certificazione appena pervenuta dal Ministero della Salute https://www.assidai.it/chi-siamo/certificazioni/

Il Progetto ReFlex per un welfare aziendale di sistema

L’obiettivo è il superamento del divario di genere attraverso lo studio, la promozione, la realizzazione e la condivisione di iniziative che favoriscano l’equilibrio tra vita lavorativa e vita personale di donne e uomini, con una partecipazione più equilibrata agli impegni di cura familiare e un supporto più efficace alla genitorialità. Così il Progetto ReFlex, promosso dal Dipartimento per le politiche della famiglia della Presidenza del Consiglio dei Ministri, grazie al coinvolgimento diretto di 39 aziende italiane aderenti al “Tavolo istituzionale di confronto e dialogo col mondo delle imprese per la promozione della conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di cura della famiglia ed il sostegno della natalità e della maternità in ambito aziendale”, ha l’ambizione di “attuare e mettere a sistema un modello di welfare aziendale che diventi un punto di riferimento per tutte le imprese del Paese”, si legge nel sito dedicato all’iniziativa.

L’obiettivo è un “sistema virtuoso” di welfare aziendale

In altre parole, si vuole favorire la nascita di “un sistema virtuoso fatto di interventi mirati, attività formative e informative, ideazione e scambio di buone pratiche che, sfruttando anche le opportunità offerte dall’intelligenza artificiale attraverso un’applicazione dedicata, sia modulabile a livello territoriale e aziendale, misurabile in termini di efficienza e suscettibile di costanti e futuri miglioramenti”.

Insomma, obiettivi chiari e peraltro in linea con quella che è sempre stata la filosofia di Assidai, secondo cui il welfare aziendale non è soltanto un nuovo “ponte” che avvicina, in un rapporto evoluto, l’impresa e i collaboratori (manager, quadri, consulenti e collaboratori) ma anche un modo per avvicinarsi all’optimum del work-life balance. Del resto, studi sempre più autorevoli – non ultimo un position paper realizzato da Social Value Italia, Percorsi di secondo welfare, Avanzi e ALTIS – Università Cattolica – sostengono come l’equilibrio tra vita lavorativa e privata aumenti sia la produttività e l’efficacia sul luogo di lavoro sia la soddisfazione personale dei dipendenti.

Le quattro tappe del Progetto ReFlex

Il Progetto ReFlex, di durata biennale (2020-2021), è promosso e finanziato nell’ambito di un avviso pubblico del Programma REC della Commissione europea, ReFlex (Reconciliation and Flexibility: reconciling new work and care needs) ed è ideato e coordinato dal Dipartimento per le politiche della famiglia, in partenariato con il Dipartimento di Ingegneria dell’Università degli Studi ROMATRE e l’Istituto per la ricerca sociale – Irs.

Per raggiungere gli obiettivi prefissati si agirà in quattro tappe, in un’ottica comunque sinergica e consequenziale. Innanzitutto – sottolineano i promotori dell’iniziativa – si effettuerà una meticolosa attività di studio, analisi e comparazione delle iniziative e dei metodi utilizzati al livello nazionale ed europeo nel campo della conciliazione tra vita professionale e vita familiare. Un focus specifico sarà su quelli intrapresi dalle aziende a favore dei lavoratori e delle lavoratrici (smart working, part-time, azioni di time-saving, asili nido aziendali, supporto alla genitorialità e ai soggetti disabili e anziani). Si tratta, è evidente, di un’analisi fondamentale per ottenere una mappatura della situazione odierna, del reale impatto sociale raggiunto, che evidenzi punti di forza ed eventuali punti di debolezza su cui intervenire.

In secondo luogo, si punterà a creare una community tra le imprese per lo scambio di pratiche, il monitoraggio e la valutazione delle esperienze in atto. Attraverso la realizzazione di workshop e laboratori tematici, si punta così ad avviare un confronto organico tra i partecipanti, che favorisca una cooperazione positiva tra le aziende più mature e quelle meno avanzate in tema di conciliazione, in modo da facilitare le possibilità di trasferimento delle azioni più efficaci in ambiti territoriali e imprenditoriali diversi.

In terzo luogo, grazie ai risultati della fase di analisi e confronto, ReFlex metterà concretamente a sistema le iniziative e i casi di studio più virtuosi in termini di impatto sociale, ampliando i confini tematici del sistema di azioni esistenti per favorire l’equilibrio tra vita lavorativa e vita familiare. Una modellizzazione che troverà in una applicazione ad hoc uno strumento estremamente prezioso. Messa gratuitamente a disposizione di tutte le imprese del Paese, l’applicazione non solo facilita la raccolta e lo scambio di informazioni utili, ma fornisce dei modelli previsionali e valutativi sulle misure e sui servizi suggeriti che qualunque azienda può decidere di utilizzare.

L’ultima tappa sarà il momento della comunicazione dei risultati ottenuti dal progetto ReFlex attraverso vari canali media per allargare ancora di più il bacino di utenza e il livello di consapevolezza non soltanto sull’importanza del progetto stesso ma, più in generale, sul fatto che un welfare aziendale efficiente e ben articolato, produce tangibili effetti positivi sia sulla produttività economica che sul benessere familiare.

Assidai e il welfare aziendale

Assidai ritiene che le politiche di total reward abbiano una grande importanza per una concreta attuazione del welfare all’interno delle aziende. Ciò perché da una parte i manager si aspettano che l’azienda comprenda e favorisca sempre più l’equilibro tra vita lavorativa e vita privata e dall’altra le aziende considerano i benefit una leva di gestione e di crescita dell’individuo all’interno dei modelli di sviluppo aziendale. Proprio per questo Assidai rappresenta un benefit esclusivo e di valore: un importante strumento a disposizione di datori di lavoro e dei responsabili delle risorse umane e degli altri decision maker aziendali per ricompensare, attrarre e trattenere talenti e collaboratori. Il nostro Fondo si pone a completa disposizione delle aziende per fidelizzare e motivare i dirigenti, i quadri, i dipendenti e i consulenti, favorendo la prevenzione e il mantenimento di un buono stato di salute per gli iscritti.

Alzheimer in Italia: è allarme per il 2040

Oggi in Italia circa 1,2 milioni di persone sono colpite da demenza, di cui il 60% circa rappresentato da casi di Alzheimer, e si stima che nel 2040 proprio quest’ultima patologia vedrà arrivare i malati oltre quota 2,5 milioni.

Bastano queste poche cifre a far intuire la situazione difficile che in prospettiva il nostro Paese, e con esso il Servizio Sanitario Nazionale, potrebbero trovarsi ad affrontare. A lanciare un invito a riflettere su questo tema è stato il tavolo “Tienilo a mente. Come non disperdere le risorse destinate alle persone con demenza e ai loro caregiver”, promosso da Inrete: un appuntamento che, in occasione della Giornata Mondiale dell’Alzheimer (lo scorso 21 settembre), ha reso possibile il confronto tra istituzioni, clinici, associazioni di pazienti ed esperti della società civile. Il nodo della demenza senile, va anche osservato, chiama direttamente in causa un altro elemento chiave: la copertura per la non autosufficienza, su cui Assidai è da sempre stata molto attiva con proposte di Piani Sanitari ad hoc per i propri iscritti.

I numeri dell’Alzheimer in Italia

Lo Stato, negli ultimi anni, ha iniziato a muoversi.

“Sono state numerose le iniziative del ministero della Salute a sostegno e tutela dei pazienti affetti da demenza. – ha sottolineato al proposito il sottosegretario di Stato alla Salute, Andrea Costa – Nella Legge di Bilancio 2021 è stato istituito nello stato di previsione del Ministero della Salute il Fondo per l’Alzheimer e le demenze, con una dotazione di 5 milioni di euro per ciascuno degli anni 2021, 2022 e 2023. L’obiettivo dello stanziamento consiste nel migliorare la protezione sociale delle persone affette da demenza, e garantire la diagnosi precoce e la presa in carico tempestiva delle persone con Alzheimer”.

Ma vediamo nel dettaglio i numeri di queste patologie. La sola malattia di Alzheimer colpisce nel nostro Paese circa 600mila italiani. Inoltre, è stato stimato – ricordano gli esperti – che il costo medio annuo per paziente, comprensivo dei costi diretti e indiretti, sia familiari sia a carico del Sistema Sanitario Nazionale e della collettività, è pari a 70.587 euro, cifra che, moltiplicata per la quota attuale di malati, si traduce in oltre 42 miliardi. Considerato che nel 2040, secondo le ultime stime, i malati di Alzheimer saranno oltre 2,5 milioni – trend ovviamente frutto del graduale invecchiamento della nostra popolazione – è facile intuire la possibile esplosione della spesa per il sistema italiano con gravi conseguenze a livello di sostenibilità. Senza contare peraltro il tema dei caregiver, cioè dei familiari coinvolti direttamente o indirettamente nell’assistenza dei propri cari, ormai non più autosufficienti: un carico non solo psicologico e sociale ma anche economico che grava sulle famiglie per far fronte alle esigenze del malato.

Nei prossimi dieci anni, secondo le previsioni di un altro istituto come Italia Longeva, 8 milioni di anziani avranno almeno una malattia cronica grave, cioè ipertensione, diabete, demenza, malattie cardiovascolari e respiratorie. E già nel 2030, la cosiddetta “bomba dell’invecchiamento” potrebbe esplodere con 5 milioni di anziani potenzialmente disabili, innescando un circolo vizioso se non adeguatamente gestito: l’aumento della vita media causerà l’incremento di condizioni patologiche che richiederanno cure a lungo termine e determineranno un’impennata del numero di persone non autosufficienti, esposte al rischio di solitudine e di emarginazione sociale. Crescerà così inesorabilmente anche la spesa per la cura e l’assistenza a lungo termine degli anziani e quella previdenziale, mentre diminuirà la forza produttiva del Paese e non ci saranno abbastanza giovani per prendersi cura degli anziani.

Soluzioni: diagnosi precoce e copertura Long Term Care

Quali i rimedi a una dinamica potenzialmente esplosiva? Innanzitutto, si potrebbe immaginare un maggior impegno da parte dello Stato su questo fronte. In secondo luogo, c’è il tema della prevenzione, che in questo caso significa diagnosi precoce della malattia, il che significa scoprirla molto prima che si sviluppino i primi segnali tipici della stessa. Una diagnosi precoce, secondo gli esperti, assicura la possibilità di una presa in carico tempestiva e quindi un potenziale ritardo della progressione della patologia, con conseguente ottimizzazione delle risorse sanitarie e con un minor impatto sociale. Ecco perché, si ragiona, è importante che la ricerca scientifica non si fermi e che si creino, oggi, le basi per la sostenibilità dei nuovi trattamenti che arriveranno in futuro.

Infine, come dicevamo in precedenza, c’è la soluzione delle coperture LTC, che consentono di affrontare con maggiore serenità economica e famigliare possibili patologie che portino alla non autosufficienza.

Assidai e le coperture per la non autosufficienza

In un’ottica complementare e non sostitutiva alla sanità pubblica, Assidai offre a manager, professionisti e aziende Piani Sanitari taylor made, che prevedono anche una copertura LTC all’avanguardia in Italia.

All’inizio del 2019, per la terza volta in cinque anni Assidai ha migliorato le tutele per gli iscritti under e over 65 anni con ulteriori vantaggi, come aumenti di rendite e massimali mensili. Ciò dopo la svolta impressa nel 2015 (quando la copertura era stata estesa anche al coniuge o al convivente more uxorio dell’iscritto) e quella del 2017 (tra l’altro furono introdotti un aumento della rendita per gli under 65 e prestazioni più ricche per gli over 65). Che cosa è cambiato nel dettaglio? Bisogna distinguere tra l’iscritto sotto i 65 anni di età o sopra questa soglia.

Nel primo caso, per le prestazioni in caso di non autosufficienza garantite a favore del caponucleo (iscritto) e del coniuge/convivente more uxorio o dei figli risultanti dallo stato di famiglia fino al 26° anno di età (siano essi legittimi, naturali, legittimati, adottivi e in affido preadottivo) la rendita vitalizia aumenta. Con tre distinguo: nel caso standard da 1.100 euro (13.200 euro annui) a 1.200 euro (14.400 euro annui); se il figlio è minorenne da 1.430 euro (17.160 euro annui) a 1.560 euro (18.720 euro annui); se il figlio è disabile da 2.200 euro (26.400 euro annui) a 2.400 euro (28.800 euro annui).

Diverso il discorso se l’iscritto ha più di 65 anni: in questo caso per il caponucleo iscritto e/o il relativo coniuge/convivente more uxorio, è stata prevista l’estensione dell’assistenza infermieristica domiciliare, che prevede un massimale di 1.000 euro mensili, per un ulteriore mese e quindi per un massimo di 300 giorni per anno assicurativo per assistito (in precedenza era di 270 giorni).

Farmaci, l’Atlante delle disuguaglianze pubblicato da AIFA

Nel Sud Italia si registra un uso di farmaci più alto e associato a condizioni più disagiate, quasi a indicare una maggior richiesta sanitaria nelle regioni meridionali. Una possibile causa? La mancanza di una prevenzione primaria adeguata, in particolare con l’adozione di stili di vita corretti.

L’allarme, nei giorni scorsi, è stato lanciato dall’AIFA, l’Agenzia italiana del farmaco, presentando il primo “Atlante delle disuguaglianze sociali nell’uso dei farmaci per la cura delle principali malattie croniche“. L’idea di un atlante – ha sottolineato il Direttore Generale dell’AIFA, Nicola Magrini, è nata all’interno dell’Osservatorio Nazionale sull’Impiego dei Medicinali con un obiettivo: “trovare una chiave di lettura socioeconomica delle forti differenze territoriali relativamente all’uso dei farmaci in Italia”.

L’uso dei farmaci in Italia: tipologie e geografia

Andiamo a vedere allora, nel dettaglio, di che farmaci stiamo parlando e come da ciò si possano dedurre situazioni di disagio. Le categorie terapeutiche per le quali si osservano maggiori tassi di consumo – sottolinea lo studio dell’AIFA – sono quelle degli antipertensivi e degli ipolipemizzanti (ovvero quelli necessari per contrastare eccessivi livelli di colesterolo), seguite da quelle dei farmaci per l’ipertrofia prostatica benigna negli uomini e degli antidepressivi nelle donne. In media, in tutte le province italiane, per gli uomini si registrano livelli di consumo di farmaco più alti per la maggior parte delle categorie terapeutiche analizzate, ad eccezione dei farmaci antidepressivi, degli antiosteoporotici e dei farmaci per il trattamento delle patologie tiroidee, per le quali il consumo è nettamente maggiore tra le donne rispetto agli uomini.

Dal punto di vista geografico, invece, si osservano livelli di consumo complessivamente più alti al Sud e nelle Isole per la maggior parte delle categorie terapeutiche spiegate in precedenza. Un trend opposto, con consumi maggiori nelle aree del Nord e minori al Sud, viene invece osservato per i farmaci antidepressivi; infine, per i farmaci antidemenza, il tasso di consumo è più alto nelle province del Centro Italia.

“Sulla base dei risultati osservati – fa notare la ricerca – si può affermare che il tasso di consumo di farmaci è un buon proxy di malattia, coerentemente con quanto già noto in letteratura, dal momento che, per quasi tutte le condizioni cliniche in studio, la distribuzione geografica e per genere osservata riflette l’epidemiologia già nota delle malattie”. In altre parole, i dati suggeriscono che laddove vengono utilizzati più farmaci c’è una maggiore presenza di patologie, a loro volta legate – in taluni casi – alla mancanza di prevenzione primaria. Sintetizza l’AIFA: “la posizione socioeconomica è fortemente correlata con l’uso dei farmaci e il consumo di questi è più elevato tra i soggetti residenti nelle aree più svantaggiate, probabilmente a causa del loro peggior stato di salute, che potrebbe essere associato a uno stile di vita non corretto”

Il nodo della spesa out of pocket

Un altro nodo cruciale è quello della spesa out of pocket, cioè dei denari che i cittadini spendono di tasca propria per curarsi extra Servizio Sanitario Nazionale. Nel caso dei farmaci, avverte l’AIFA, è “consistente e andrebbe meglio esaminata e potrebbe rappresentare un fattore di ulteriore differenziazione tra regioni ricche e povere”, specie per le categorie di farmaci non rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale.

Le disuguaglianze nello stato di salute, conclude il rapporto, “dipendono da numerosi fattori correlati e sovrapposti: fornire un quadro su uno degli aspetti più rilevanti per la salute dei cittadini, come l’utilizzo dei farmaci, propone un’ulteriore chiave di lettura delle disuguaglianze sociali”. Va in ogni caso rilevato che nel 2020 – stando ai dati del Rapporto Nazionale pubblicato lo stesso anno – “L’uso dei Farmaci in Italia”, realizzato dall’Osservatorio Nazionale sull’impiego dei Medicinali (OsMed) dell’AIFA – la spesa farmaceutica totale è stata di 30,5 miliardi di euro (-0,9%), di cui ben il 76,5% è stata rimborsata dal Servizio Sanitario Nazionale. In media, per ogni cittadino, la spesa ammonta a 512 euro (391,7 euro la componente pubblica a carico del SSN) e poco più di 6 cittadini su 10 hanno ricevuto almeno una prescrizione di farmaci”. Ciò a dimostrazione, ancora una volta, delle caratteristiche di equità e universalità, uniche al mondo, del Servizio Sanitario Nazionale che va considerato e andrà considerato come la spina dorsale della sanità del futuro. Per evitarle pericolosi scricchiolii, legati anche al trend di invecchiamento della popolazione, i fondi sanitari integrativi come Assidai potranno giocare un ruolo cruciale, con un ruolo complementare e più in generale di supporto del Sistema Sanitario Nazionale.

 

 

Prevenzione cancro al colon retto: attenzione alle bevande zuccherate

Consumare molte bevande zuccherate durante l’adolescenza e la gioventù aumenta il rischio di sviluppare un tumore del colon-retto prima di compiere 50 anni. Ad affermarlo è uno studio pubblicato su Gut, prestigiosa e autorevole rivista di gastroenterologia (che è anche l’organo ufficiale della British Society of Gastroenterology). La ricerca, in realtà, è stata realizzata dalla Washington University School of Medicine di St. Louis, prendendo in esame un ampio campione di partecipanti al Nurses’ Health Study II, uno dei maggiori studi epidemiologici sui fattori di rischio in oncologia. Il risultato, che più avanti vedremo nel dettaglio, conferma dunque l’importanza della prevenzione primaria contro le malattie croniche (tra cui ci sono cancro, malattie cardiovascolari e polmonari, e diabete), responsabili come noto della maggioranza dei decessi a livello globale. Una dieta equilibrata e uno stile di vita sano (che contempli dunque attività fisica e sportiva con la giusta frequenza) rappresentano in questo senso i pilastri per la lotta contro le malattie croniche e in generale della prevenzione, un fronte su cui Assidai è impegnato da sempre con iniziative e campagne informative a favore dei propri iscritti.

La ricerca, i numeri e le conclusioni

Ma come è stata svolta esattamente la ricerca della Washington University School of Medicine di St. Louis? Per valutare se effettivamente esisteva un legame causale tra consumo di bevande zuccherate e tumore del colon-retto, è stato esaminato un ampio campione composto da donne, tutte infermiere, monitorate regolarmente per 24 anni. Ogni quattro anni, infatti, le partecipanti hanno risposto a un questionario molto dettagliato su cosa mangiavano e con quale frequenza. A circa metà di esse, inoltre, è stato anche chiesto di compilare un ulteriore questionario relativo alle abitudini alimentari di quando avevano 13-18 anni.

Ebbene, dall’analisi dei dati delle quasi 100mila donne che hanno risposto è emerso un trend abbastanza chiaro: quelle che consumavano due o più bicchieri di bevande zuccherate al giorno avevano un rischio più che doppio di sviluppare il tumore del colon-retto prima dei 50 anni rispetto alle donne che ne consumavano uno solo. Non solo: i ricercatori hanno calcolato che questo rischio aumentava del 16% per ogni bicchiere di bevanda zuccherata in più consumato ogni giorno. E dai 13 ai 18 anni, un momento importante per la crescita e lo sviluppo, era legato a un aumento del 32% del rischio di sviluppare il cancro del colon-retto prima dei 50 anni.

AIRC: così calano i rischi di cancro

Non abusare di bevande zuccherate – sostiene l’AIRC (la Fondazione Italiana per la ricerca sul Cancro), commentando questo studio, – è quindi un modo in teoria semplice per ridurre il rischio di sviluppare tumori intestinali, oltre che una delle regole auree per prevenire l’obesità adolescenziale, dato che l’apporto calorico di queste bevande è molto elevato a fronte di un apporto nutrizionale mediamente basso o nullo. Un messaggio che andrebbe trasmesso soprattutto ai giovani, i più attratti dalla grande varietà di drink proposti dall’industria alimentare.

Inoltre, secondo l’analisi della Washington University School of Medicine di St. Louis a una persona adulta basta rinunciare ogni giorno a un bicchiere di bevanda zuccherata sostituendolo con un caffè o un bicchiere di latte per ridurre, rispettivamente, del 18% e del 36% il rischio relativo di tumore del colon-retto a insorgenza precoce. La sostituzione di bevande zuccherate con succhi di frutta naturali non sembra invece abbassare il rischio stesso in maniera significativa, verosimilmente poiché anche questi ultimi contengono molto zucchero.

La conferma dall’Università di Parigi

A risultati simili era arrivato un altro studio pubblicato circa due anni fa sul British Medical Journal e realizzato dall’Università di Parigi sui dati di 101mila persone raccolti tra il 2009 e il 2017. Dall’analisi è emerso che ogni aumento di 100 ml al giorno del consumo di bevande zuccherate si associa a un incremento del 18% circa del rischio relativo di sviluppare un tumore. In particolare, la possibilità di ammalarsi di cancro del seno aumenterebbe del 22%. Questi dati suggeriscono, anche in questo caso, che la riduzione drastica delle bevande zuccherate potrebbe essere una strategia efficace per la prevenzione dei tumori, avevano sottolineato dall’Università parigina.

Assidai e la prevenzione

Assidai, va ricordato, è da sempre attiva sul tema della prevenzione. Intesa sia come “primaria”, che consiste come abbiamo visto in stili di vita sani che evitano l’insorgere di malattie croniche, sia come “secondaria”, cioè identificabile con una serie di screening medici tesi a scoprire con il congruo anticipo eventuali patologie, anche in questo caso croniche. Proprio su questo fronte, il nostro Fondo – negli ultimi anni (eccetto il 2020 e il 2021 causa Covid) – ha messo a disposizione dei propri iscritti campagne di prevenzione totalmente gratuite:

Sole, come proteggersi durante l’estate

L’esposizione al sole porta innumerevoli benefici all’organismo e fa bene all’umore ma, senza protezione, ci espone a rischi rilevanti. È importante dunque prendersi cura della propria pelle in maniera adeguata prima dell’esposizione, ma anche – e soprattutto – durante e dopo. Si tratta di un discorso che è valido, a maggior ragione, durante l’estate, quando la voglia di esporsi al sole e di abbronzarsi non manca, sia al mare sia in montagna.

Attenzione però: è ormai più che noto che i raggi ultravioletti possono causare problemi al nostro benessere, dalle insolazioni agli eritemi (scottature), ma anche lesioni oculari, invecchiamento precoce e, nei casi più gravi, l’insorgenza di tumori cutanei (melanoma). Allo stesso tempo, come detto, il sole può offrire numerosi benefici, legati a un miglioramento della condizione psicofisica dell’individuo: consente la sintesi di vitamina D, svolge un’azione antibatterica, può migliorare alcune patologie cutanee, riduce la pressione arteriosa e fa bene all’umore. Come regolarsi dunque? Bisogna rispettare delle semplici regole. Agendo per gradi.

Come scegliere la protezione: le regole di Aideco

Innanzitutto – come sottolinea l’Aideco, Associazione Italiana Dermatologia e Cosmetologia – bisogna scegliere l’indice di protezione più adatto alle varie tipologie di pelle. Per farlo, per prima cosa è importante conoscere il proprio fototipo, che indica come reagisce la pelle all’esposizione al sole. Non tutti, infatti, pur avendo un tipo di pelle simile, hanno lo stesso comportamento: alcune persone si scottano facilmente, altre invece non si scottano mai, mentre gli individui che hanno una carnagione più scura si abbronzano subito, chi invece ha una pelle più chiara tende soprattutto ad arrossarsi e a sviluppare eritema, senza riuscire ad abbronzarsi più di tanto. Questi diversi comportamenti dipendono dal fototipo (ndr Il fototipo di una persona è un termine utilizzato in ambito dermatologico. Sviluppato nel 1975 – il sistema dei fototipi di Fitzpatrick – classifica il tipo di pelle in base alla quantità di melanina e alla reazione all’esposizione solare. Successivamente il concetto di fototipo è stato arricchito da alcune caratteristiche fenotipiche, come il colore dei capelli, la presenza/assenza di efelidi, il colore degli occhi, il tipo, la durata e la zona dell’eritema.)

Conoscere il proprio fototipo è il punto di partenza fondamentale per preservare la salute della pelle e per comportarsi correttamente durante l’esposizione alla radiazione ultravioletta della luce solare. In base al fototipo di appartenenza si può scegliere al meglio l’indice di protezione adeguata.

“Esistono diversi tipi di cute, cioè di fenotipi, che rappresentano a loro volta il modo in cui si manifesta il cosiddetto genotipo; ogni fenotipo ha una sensibilità diversa alle radiazioni solari. Per esempio, un soggetto nero è protetto quasi completamente dalla sua melanina; all’estremo opposto c’è il tipo scandinavo, con cute chiara e capelli biondi, sensibile più di chiunque altro ai raggi solari. Dunque, gli effetti dell’esposizione al sole, che è un fattore così temuto, dipendono dalla “tipologia di individuo”

aveva dichiarato a tal proposito, in un’intervista ad Assidai, il Professor Nicola Mozzillo, luminare dei tumori della cute, Primario Emerito dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Napoli nonché Docente di Chirurgia del Melanoma all’Università Federico II di Napoli e Professore presso la Clinica Ruesch.

In base al fototipo di appartenenza si può scegliere al meglio l’indice di protezione adeguata, continua l’Aideco. I soggetti con fototipo più chiaro e più reattive al sole (I-II e III) dovranno utilizzare prodotti con un indice di protezione elevato (30/50/50+) mentre i soggetti con carnagione più scura e meno sensibili alla radiazione solare (fototipo IV e V) possono optare per protezioni più basse. L’importante è proteggersi sempre, anche quando si è già abbronzati, magari diminuendo gradualmente il fattore di protezione all’aumentare della pigmentazione post-esposizione solare, ma evitando di esporsi senza.

Si specifica che l’efficacia protettiva dei prodotti solari è riportata in etichetta secondo una classificazione (europea) ovverosia bassa, media, alta e molto alta e in relazione a un numero che ne indica il fattore di protezione solare (SPF – Sun Protection Factor):

  • Protezione solare bassa = SPF 6-10
  • Protezione solare media = SPF 15-20
  • Protezione solare alta = SPF 30-50
  • Protezione solare molto alta = SPF 50+

Altra avvertenza molto importante: sarebbe auspicabile proteggersi non solo durante le vacanze estive (al mare) o invernali (in montagna), ma durante tutto l’anno, anche quando ci si limita a uscire per andare al lavoro o a fare una passeggiata. Le radiazioni solari, infatti, esplicano i loro effetti anche quando il cielo è nuvoloso.

Le cinque regole d’oro della Fondazione Veronesi

Per riassumere, è utile riportare i cinque consigli d’oro della Fondazione Veronesi:

  1. Non esporsi mai al sole senza una protezione adeguata al proprio tipo di pelle (fototipo). Non lesinare sull’utilizzo della crema solare: per proteggere adeguatamente tutto il corpo e il viso ne occorrono circa 35 grammi (valore riferito a una persona adulta di media corporatura).
  2. Applicare la fotoprotezione prima dell’effettiva esposizione al sole. Riapplicarla ogni 2 ore e dopo ogni bagno, o dopo una sudorazione abbondante.
  3. Non esporsi al sole nelle ore centrali della giornata. I raggi solari raggiungono la pelle anche all’ombra, seppur con minore intensità. Non dimentichiamo la crema anche se siamo sotto l’ombrellone
  4. Evitare o ridurre al minimo l’abbronzatura artificiale. Per tutelare la salute della pelle dei più giovani, in Italia i lettini e le lampade abbronzanti sono vietati per legge ai minori di 18 anni.
  5. Effettuare con regolarità una visita dermatologica: è importante tenere sotto controllo le macchie della pelle e i nei.

Il pericolo melanoma

Quest’ultima regola ci introduce allo spinoso tema del melanoma cutaneo che negli ultimi decenni, nella popolazione caucasica, è in crescita, con circa il 5% di casi in più ogni anno. In Italia, per esempio, vengono diagnosticati annualmente oltre 7.000 nuovi casi. Non solo: il melanoma è uno dei tumori più frequenti negli adulti di età compresa tra i 30 e 40 anni, ma può insorgere a ogni età. Fortunatamente una diagnosi precoce porta le probabilità di guarigione completa fino al 90% dei casi. “La migliore diagnosi precoce la fanno i pazienti. Bisogna abituarsi a mettersi davanti allo specchio e guardarsi regolarmente, davanti e dietro. Solo così si scopre il “brutto anatroccolo”, cioè un neo in cui è cambiato qualcosa, cioè la dimensione, la forma o il colore: è questo che deve fare scattare il campanello d’allarme. Anche perché dal dermatologo ha senso andare una volta all’anno o quando si ha qualche sospetto, non ogni mese”, ha sottolineato a tal proposito il Professor Mozzillo, sempre nell’intervista ad Assidai.

Il melanoma e la campagna di prevenzione Assidai

Alla luce di tutte queste considerazioni, il nostro Fondo di assistenza sanitaria – da sempre in prima linea sul fronte della prevenzione – due anni fa ha lanciato una importante iniziativa sul tema, identificando giugno 2019 come il mese della prevenzione del melanoma. Gli iscritti Assidai hanno così potuto usufruire – gratuitamente – del pacchetto Healthy Manager, che prevedeva una visita dermatologica e la mappatura dei nei, esami fondamentali in termini di prevenzione per evidenziare eventuali patologie o lesioni tumorali della pelle, cioè i cosiddetti melanomi. “Esami non invasivi e che non provocano alcun dolore ma che possono fare la differenza per scoprire in anticipo qualsiasi cambiamento sulla nostra pelle, un organo spesso sottovalutato ma di importanza cruciale per il nostro benessere, da proteggere e preservare con molta attenzione”, aveva dichiarato a tal proposito Tiziano Neviani, Presidente di Assidai.

Il piano anti-caldo del Ministero della Salute

D’estate prevenire il caldo, e soprattutto i suoi effetti (potenzialmente pericolosi per determinate fasce della popolazione) è un obbligo. Per questo il Ministero della Salute nel 2005 ha avviato il Piano nazionale per la prevenzione degli effetti del caldo sulla salute attraverso specifici progetti del Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie (CCM) e sotto il coordinamento del Centro di competenza nazionale Dipartimento di Epidemiologia SSR Regione Lazio (DEP Lazio). L’obiettivo? In sostanza giocare di squadra: favorire cioè il coordinamento tra istituzioni ai vari livelli e fornire linee operative per la creazione di un sistema centralizzato di previsione e prevenzione degli effetti del caldo sulla salute.

I sistemi di allarme anti-caldo

Una delle componenti fondamentali del Piano è rappresentato dai sistemi di allarme, denominati Heat Health Watch Warning Systems: si tratta di sistemi città specifici che, utilizzando le previsioni meteorologiche sono in grado di prevedere, fino a 72 ore di anticipo, il verificarsi di condizioni climatiche a rischio per la salute della popolazione. I risultati – si spiega sul sito del Ministero della Salute – vengono poi riportati in un bollettino sintetico che contiene le previsioni meteorologiche riassuntive ed un livello di allarme graduato (da 1 a 3) per permettere la modulazione degli interventi di prevenzione sulla base dell’entità del di rischio previsto. Ogni giorno, durante il periodo estivo, vengono prodotti i bollettini per ben 27 città, qui in ordine alfabetico: Ancona, Bari, Bologna, Bolzano, Brescia, Cagliari, Campobasso, Catania, Civitavecchia, Firenze, Frosinone, Genova, Latina, Messina, Milano, Napoli, Palermo, Perugia, Pescara, Reggio Calabria, Rieti, Roma, Torino, Trieste, Venezia, Verona e Viterbo.

I bollettini sulle ondate di calore sono pubblicati sul Portale del Ministero della Salute e inviati per ogni città ad un centro di riferimento locale (Comune, Asl, centro locale della Protezione civile) responsabile della diffusione sul territorio del bollettino ai servizi inclusi nel piano di prevenzione.

La sorveglianza dei Comuni

Oltre ai sistemi d’allarme, un altro caposaldo del Piano nazionale per la prevenzione degli effetti del caldo sulla salute è rappresentato dalla Sorveglianza. Come funziona? Il Sistema di sorveglianza della mortalità giornaliera ha lo scopo di monitorare in tempo reale il numero di decessi giornalieri nella popolazione anziana (età 65 anni e oltre). In collaborazione con l’ufficio Anagrafe dei Comuni, i dati di mortalità vengono acquisiti durante l’intero anno tramite un sistema di inserimento online. Il DEP Lazio gestisce il database della mortalità giornaliera per monitorare l’impatto in tempo reale degli eventi meteorologici estremi (ondate di calore, ondate di freddo, ecc.) sulla salute. Inoltre – spiega il Ministero della Salute – è attivo in alcune strutture sentinella delle grandi aree arbane un Sistema di Sorveglianza degli accessi al Pronto Soccorso per il monitoraggio anche degli esiti non fatali per supportare la risposta tempestiva all’emergenza dei servizi ospedalieri durante le ondate di calore.

Tutto ciò permette, ogni estate, di produrre rapporti mensili e stagionali con una sintesi dell’impatto delle ondate di calore sulla salute. Tutti dati chiave utili, osservando e analizzando i trend del passato, a cautelarsi e adottare le giuste misure di prevenzione per il presente e per il futuro.

Prevenzione e raccomandazioni per i più vulnerabili

Proprio la prevenzione rappresenta il terzo elemento chiave del Piano. Ogni estate vengono infatti raccolte le informazioni sui piani locali di prevenzione e i protocolli di emergenza in 34 città. Allo stesso tempo si aggiorna periodicamente un documento con le linee guida per la prevenzione degli effetti del caldo sulla salute. Esso comprende sia una sintesi delle evidenze disponibili sui fattori di rischio associati al caldo e alle ondate di calore e sugli interventi di prevenzione, sia modelli e strumenti, basati sulle prove scientifiche disponibili, per l’implementazione di piani locali di prevenzione per gli effetti del caldo in ambito sanitario differenziati per livello di rischio e del livello di suscettibilità della popolazione.

Da tutto ciò discendono raccomandazioni specifiche per diversi sottogruppi di popolazione più a rischio. Studi epidemiologici hanno infatti evidenziato che durante le ondate di calore alcuni sottogruppi di popolazione sono più vulnerabili e pertanto è importante indirizzare le risorse disponibili e definire specifiche misure di prevenzione rivolte a questi sottogruppi. I servizi locali sia sanitari (Asl) sia socio-assistenziali (Comune) dispongono di sistemi informativi che, opportunamente integrati, in diverse città sono utilizzati per la definizione di una “anagrafe” dei suscettibili che rappresenta uno degli strumenti utili per effettuare interventi mirati preventivi e di assistenza.

I consigli per un’estate “in salute”

Il concetto di prevenzione, come noto, è considerato cruciale da Assidai che la ritiene fondamentale per creare i presupposti per una vita lunga e soprattutto in buona salute. Anche l’estate, da molti considerata come la stagione più bella, presenta rischi da ridurre il più possibile. A partire dall’alimentazione: bere e mangiare correttamente – sottolinea il Ministero della Salute – contribuisce a ridurre i rischi per la salute dovuti alle ondate di calore, in particolare la disidratazione. Qualche consiglio? Bere almeno due litri (otto bicchieri) di acqua al giorno, moderando al contempo il consumo di bevande con zuccheri aggiunti e di alcolici, rispettare il numero e gli orari dei pasti (in particolare non trascurando mai una adeguata prima colazione), aumentare il consumo di frutta e verdura di stagione e yogurt e ridurre drasticamente quello di cibi ricchi di grassi.

Altro aspetto chiave dell’estate, forse ancora più importante, è quello della protezione della pelle, in particolare per evitare i rischi di insorgenza del melanoma, il tumore della cute. In questo caso, i principali esperti in materia indicano un vademecum piuttosto chiaro da rispettare. Non bisogna stare al sole a tutti i costi – evitando anzi le ore più calde della giornata – e va sempre applicata (anche quando è nuvoloso) una protezione solare ad ampio spettro, resistente all’acqua e con fattore di protezione 30 o 50.

Un dizionario per il welfare aziendale

Una importante tappa di avvicinamento alla definizione di un piccolo dizionario condiviso sul welfare aziendale, a partire dall’esperienza vissuta nel corso di un anno e mezzo del progetto “Mutualismo, innovazione e coesione sociale. Secondo welfare… per primi! Il welfare aziendale che fa la differenza”. La protagonista è Solidea, società di mutuo soccorso del sociale, che negli ultimi 18 mesi ha realizzato un progetto finanziato dalla Regione Piemonte, nell’ambito del Programma Operativo Fondo Sociale Europeo 2014/2020. Progetto – si spiega – che si inserisce a pieno titolo nella promozione del welfare aziendale, il quale ha trovato attuazione nella Strategia “WE.CA.RE. – Welfare Cantiere Regionale – Coesione sociale, welfare e sviluppo locale” della stessa Regione Piemonte. Il tema trasversale è il mutualismo, che da sempre muove le attività del Terzo Settore.

Il report di Solidea e le 10 parole chiave

Il lavoro svolto da Solidea ha preso forma in un report sostanzioso, di quasi 150 pagine, composto da diverse parti. Innanzitutto, si evidenziano opportunità, criticità e resistenze che vanno esaminate per affrontare una riflessione efficace sul welfare aziendale. In secondo luogo, si esamina la rilevante mole di dati sensibili raccolti e utili per valutare l’impatto della promozione di una cultura di welfare aziendale sulla costruzione effettiva di piani di welfare. Infine, vengono isolate e spiegate nel dettaglio dieci parole chiave: Ambiente, Cooperazione e Impresa sociale, Comunità, Contrattazione, Futuro, Mutualismo, Norme, Ottica di genere, Reti, Welfare aziendale.

Tutti concetti chiave per un mondo del lavoro che si è evoluto profondamente negli ultimi anni con un’evoluzione del rapporto tra dipendente e azienda, non più in contrapposizione tra loro ma “alleati” per aumentare l’efficacia dei processi societari ma anche per raggiungere il giusto equilibrio tra lavoro e vita privata, il cosiddetto work-life balance. Ago della bilancia di tutto ciò, come più volte sottolineato anche da Assidai, è il welfare aziendale, strumento per “remunerare” e premiare dipendenti e manager, anche alla luce delle condizioni fiscali vantaggiose offerte da queste soluzioni.

La dinamica del welfare in Italia

Il welfare aziendale, si legge nel rapporto di Solidea, è un fenomeno in crescita nel nostro Paese.

“Grazie alle innovazioni sociali e organizzative che esso porta con sé, infatti, sono sempre di più le realtà imprenditoriali che stanno sperimentando questo genere di interventi a favore dei propri lavoratori. – si aggiunge – Allo stesso tempo, tuttavia, sono in molti a evidenziare come il welfare aziendale rischi spesso di rimanere appannaggio delle grandi imprese che hanno le competenze e le risorse per investire in questa direzione”.

Ecco, dunque, i temi sul tavolo:

“Esistono delle strategie per far sì che anche le piccole e medie imprese e i loro collaboratori riescano a godere dei benefici del welfare aziendale? Quali sono le modalità per permettere al welfare di fuoriuscire dai confini dell’azienda e quindi produrre ricadute positive anche per il territorio e la comunità?”

Obiettivo del lavoro svolto da Solidea è anche rispondere a queste domande. Del resto, si spiega, c’è un’evidenza che caratterizza il tempo che stiamo attraversando: non è più possibile parlare di “welfare” senza considerarlo, prima di tutto, una “condizione”. Condizione intesa come elemento imprescindibile per attivare qualsiasi tipo di progettazione in ambito sociale. Quando poi al termine “welfare” aggiungiamo la declinazione “aziendale”, – continua il report – allora la cornice si allarga: la condizione stessa si traduce non solo nella capacità di offrire un insieme di servizi e benefit a integrazione della normale retribuzione dei lavoratori, ma anche nella possibilità di rendere questo intervento un valore aggiunto per il territorio. In altre parole: aziende e imprese sociali attori di welfare collettivo che operano in sinergia con l’Ente pubblico e altri enti territoriali.

La definizione di welfare aziendale e Assidai

Al tempo stesso, si argomenta, l’azienda responsabile dei propri dipendenti ha come primo compito quello di migliorare i luoghi di lavoro, a favore di un benessere crescente dei lavoratori. Da qui nasce una delle definizioni più recenti di welfare aziendale:

“l’insieme di misure e di interventi che vengono messi in atto volontariamente da un’organizzazione a favore dei propri dipendenti, per migliorarne la vita privata e lavorativa in numerosi ambiti, incrementando il loro benessere individuale, professionale e familiare sotto il profilo economico e sociale”

Una definizione in cui Assidai si ritrova. Il nostro Fondo ritiene peraltro che oggi le politiche di total reward rivestano una grande importanza per una concreta attuazione del welfare all’interno delle aziende, perché i manager si aspettano che l’azienda comprenda e favorisca sempre più l’equilibro tra vita lavorativa e vita privata e le aziende considerano i benefit una leva di gestione e di crescita dell’individuo all’interno dei modelli di sviluppo aziendale. Proprio per questo Assidai rappresenta un benefit esclusivo e di valore: un importante strumento a disposizione di datori di lavoro e dei responsabili delle risorse umane e degli altri decision maker aziendali per ricompensare, attrarre e trattenere talenti e collaboratori. Il nostro fondo si pone a completa disposizione delle aziende per fidelizzare e motivare i dirigenti, i quadri, i dipendenti e i consulenti, favorendo la prevenzione e il mantenimento di un buono stato di salute per gli iscritti.

Welfare aziendale, UNI ed eQwa lanciano una nuova prassi

Una prassi di riferimento per il welfare aziendale applicabile in qualsiasi realtà. O meglio: un documento che può essere utilizzato per qualificare fornitori, interni ed esterni all’organizzazione, di progetti di welfare aziendale e per la verifica indipendente, cioè la certificazione o l’attestazione dei progetti. A metterla a punto, nelle scorse settimane, sono stati UNI ed eQwa Impresa Sociale. Un’iniziativa che arriva sicuramente nel momento giusto, alla luce della forte diffusione del welfare aziendale nelle imprese italiane (una su due ormai lo adotta) grazie anche ai vari incentivi messi in campo dal Governo negli ultimi anni. Una sorta di bollino di qualità per il welfare aziendale che UNI aveva già realizzato nel 2019 in partnership con il Gruppo Cooperativo Gino Mattarelli.

UNI è l’Ente Italiano di Normazione: le sue norme non sono legge, perché usarla è volontario, ma sono la soluzione migliore per realizzare un prodotto, condurre un processo o svolgere una professione. Privato, indipendente e senza scopo di lucro, UNI è riconosciuto dallo Stato italiano e dall’Unione Europea e parte delle organizzazioni CEN e ISO, che elaborano le norme rispettivamente a livello europeo e mondiale; eQwa Impresa Sociale, invece, è nata per diffondere e sviluppare riflessioni, studi e comportamenti orientati alla persona nella sua interezza, per supportarne il benessere attraverso sistemi e strumenti di welfare, e contribuire così alla riduzione delle diseguaglianze economiche e sociali.

La prassi da rispettare per il welfare aziendale

Dalla collaborazione tra queste due realtà è nata così la prassi di riferimento UNI/PdR 103:2021, che definisce principalmente tre ambiti del welfare aziendale:

  • i requisiti per la progettazione, la realizzazione e la valutazione di progetti;
  • i requisiti del welfare manager in termini di compiti, conoscenze, abilità, responsabilità e autonomia;
  • le raccomandazioni per l’attività di valutazione della conformità di prima e di terza parte.

Nel testo della prassi di riferimento, gli autori spiegano in modo molto chiaro il concetto di welfare aziendale, che è

“quell’insieme di servizi e dispositivi in denaro progettati per accrescere il benessere personale, lavorativo e familiare dei lavoratori che, se erogati in risposta ai loro bisogni reali, riescono ad incidere sul benessere organizzativo dell’organizzazione”.

Il welfare aziendale, argomentano gli esperti, ha una funzione complementare a quella dei servizi pubblici e dovrebbe essere più tempestivo, personalizzato e flessibile rispetto ai bisogni dei lavoratori e delle loro famiglie. Allo stesso tempo rappresenta “una attività essenziale per le organizzazioni che cercano uno sviluppo di medio-lungo periodo ed un rapporto corretto con i propri stakeholder: deve essere quindi considerato parte integrante dei modelli di responsabilità sociale dell’organizzazione, in particolare quelli definiti dalla UNI EN ISO 260001”.

Ma quali devono essere i requisiti generali di un piano di welfare aziendale? Su questo tema la prassi elaborata da Uni e da eQwa è estremamente ricca ma si può sintetizzare in sei punti:

  1. analisi iniziale dei bisogni e classificazione,
  2. definizione del piano strategico,
  3. progettazione degli interventi,
  4. realizzazione del progetto di welfare aziendale,
  5. misurazione dei risultati in funzione degli obiettivi
  6. attività di reporting e monitoraggio.

Tutto ciò a fronte di alcuni punti fermi. Innanzitutto, “stante l’elevato grado di specializzazione degli interventi in materia di welfare aziendale e di personalizzazione richiesto, si raccomanda di utilizzare consulenza professionale e specialistica, fornita da un welfare manager o da un team di progetto”. Inoltre, “si deve offrire un servizio completo ed integrato, anche avvalendosi di altri professionisti opportunamente coordinati”. Infine, “il piano di welfare aziendale deve essere coerente con la mission e il business plan dell’organizzazione e inserirsi in un contesto di riferimento condiviso e validato e tale attività deve essere documentata”.

Assidai e l’attenzione alle certificazioni

Assidai, va ricordato, è un Fondo Sanitario Integrativo molto attento al tema delle certificazioni. È dotato infatti di un Sistema Gestione Qualità certificata in base alle norme UNI EN ISO 9001:2015 (ISO 9001:2015), rilasciata da DNV, per quanto concerne: “Erogazione del servizio di rimborsi spese mediche ed assistenziali per dirigenti, quadri e consulenti”. Le ragioni che hanno spinto Assidai ad affrontare l’impegno di dotarsi di un sistema di gestione per la Qualità risiedono nella volontà degli Organi Sociali di fornire ai propri iscritti i migliori servizi e prodotti, cercando di individuare con i propri partner le migliori soluzioni possibili per raggiungere tale obiettivo. Inoltre, la Certificazione UNI EN ISO 9001:2015 (ISO 9001:2015), richiede al Fondo di assistenza sanitaria integrativa un miglioramento continuo dell’efficienza e dell’efficacia dei processi interni e dei servizi agli iscritti attuato anche mediante un piano di formazione e crescita professionale del personale.