Assidai, il Fondo sanitario per i manager che guarda all’innovazione e alla sostenibilità

Videointervista di Radiocor – Il Sole 24 Ore al Presidente di Assidai Armando Indennimeo

“Un Fondo di assistenza sanitaria di natura non profit i cui valori cardini principali sono la solidarietà e la mutualità”. Armando Indennimeo, presidente di Assidai, il Fondo di assistenza sanitaria integrativa dei dirigenti di aziende industriali nato più di 30 anni fa su iniziativa di Federmanager, parla dell’impegno di guidare il Fondo in un’ottica di continuità, ascoltando i territori e gli stakeholder e con un’attenzione molto forte verso l’innovazione e la sostenibilità. Con l’obiettivo di allargare la platea e rafforzare il posizionamento del fondo integrativo del Fasi attraverso una sempre maggiore diffusione del Prodotto Unico Fasi-Assidai. Forte di soluzioni tailor made innovative e competitive, il presidente Indennimeo annuncia due importanti novità per il 2023: una sul Piano Sanitario Familiari e l’altra relativa alle prestazioni per la non autosufficienza.

Terapia protonica, nuovo strumento contro i tumori

In gergo tecnico si chiama terapia protonica. In termini più divulgativi si può definire una radioterapia con dose precisa e maggiore di radiazioni dirette a un sito tumorale, che risparmia organi e tessuti circostanti. È la grande novità che verrà lanciata nel settembre 2023 dall’Istituto Europeo di Oncologia – IEO. Proprio nelle scorse settimane, l’istituto milanese all’avanguardia nella lotta e nel trattamento del cancro ha ricevuto i componenti di Proteus One, definito il macchinario “più avanzato a livello internazionale per la terapia con protoni”. “Per la prima volta in Italia – hanno annunciato di recente dall’Irccs fondato da Umberto Veronesi – viene installato un sistema compatto di protonterapia all’interno di una struttura costruita appositamente per ospitarlo. IEO Proton Center è infatti il primo caso di edifico progettato e realizzato su misura per l’apparecchiatura di protonterapia, la forma più innovativa di radioterapia di altissima precisione”. Quali sono i principali vantaggi della protonterapia? Principalmente due. Innanzitutto consente la riduzione del rischio di tumori secondari indotti dai raggi ed è utilizzata in combinazione con altre discipline come chirurgia, chemioterapia, farmaci molecolari o altre metodiche radioterapiche. In secondo luogo può ottenere una risposta dal sistema immunitario decisamente superiore alla radioterapia tradizionale: per questo i centri di protonterapia si stanno moltiplicando in tutti i Paesi occidentali.

I numeri e le potenzialità del progetto

Per capire l’entità e l’importanza del progetto, bastano le parole dell’Amministratore Delegato dello IEO, Mauro Melis: “Il Proton Center è uno dei maggiori investimenti nella storia dell’Istituto Europeo di Oncologia. Ci abbiamo creduto già sei anni fa e lo porteremo a termine nei tempi previsti all’inizio dei lavori, malgrado l’epidemia Covid-19, la crisi energetica e la situazione economica generale. Saremo il primo Irccs a dotarsi di un proprio centro protoni, che sarà all’avanguardia tecnologica e con un alto profilo di sostenibilità. Disponiamo del sistema di protonterapia più avanzato a livello internazionale, installato per la prima volta in Italia e collocato all’interno di un edificio – su misura – e con tecnologie costruttive tipiche delle infrastrutture ma applicate all’edilizia sanitaria”. Ciò nasce anche, ha aggiunto, dall’esigenza di rispondere “all’urgente bisogno del Paese di questa cura innovativa, riconosciuta dal Ministero della Salute come salvavita. Allo stesso tempo assolveremo alla nostra missione che è quella di offrire ai pazienti oncologici, che a noi si rivolgono con fiducia e speranza, la miglior cura disponibile al mondo.” Qualche numero? Attualmente in Italia si stima che i malati candidabili a protonterapia siano circa 7.000, una domanda che i soli tre centri italiani, con una capacità di trattamento stimata di 1.000 pazienti all’anno, già oggi non possono soddisfare. Se poi gli studi scientifici in corso confermeranno le aspettative, nel nostro Paese la domanda di terapia protonica potrebbe riguardare fino al 15% di tutti i pazienti candidati a un trattamento di radioterapia.

Il ruolo della protonterapia nella sanità italiana

Dal punto di vista prettamente medico, “i risultati ottenuti su oltre 200.000 pazienti trattati con protoni nel mondo dimostrano ampiamente il valore terapeutico della protonterapia – ha sottolineato dal canto suo il direttore scientifico dello IEO, Roberto Orecchia – Inoltre le sue potenzialità sono ancora in gran parte inespresse. Si aprono quindi scenari di ricerca inediti, a cui il Proton Center Ieo contribuirà, anche grazie al suo collegamento con l’ospedale”. La protonterapia – ha proseguito l’esperto – è infatti in continua evoluzione, anche in combinazione con altre discipline, come chirurgia, chemioterapia, farmaci molecolari, immunoterapia o altre metodiche radioterapiche. Sono oltre 150 gli studi di validazione e approfondimento in corso nel mondo e i centri di protonterapia si stanno moltiplicando in tutti i Paesi ad alto tasso di sviluppo. L’Italia, insieme alla Francia, è oggi il paese europeo con il più basso rapporto tra sale di trattamento/numero di abitanti”. Va anche ricordato che il Ministero della Salute ha fatto rientrare la protonterapia fra le cure salvavita nel 2015 e nel 2017 ha individuato 10 patologie oncologiche per le quali è considerata appropriata. Inoltre, nel 2021 l’Istituto Superiore di Sanità ha emesso nuove raccomandazioni per l’uso dei protoni, indicando  che i maggiori vantaggi si ottengono nel trattamento di tumori solidi in pazienti pediatrici, tumori localizzati in sedi critiche perché circondati da strutture sensibili, tumori poco responsivi alla radioterapia convenzionale e per i quali è utile un approccio di dose-escalation, oltre che nei casi in cui occorre ridurre la tossicità complessiva dovuta al trattamento di ampi volumi in associazione a chemioterapia concomitante. Per riassumere, ha concluso Orecchia, quali sono i vantaggi per il paziente della cura con protoni: “Primo fra tutti la riduzione del rischio di tumori secondari indotti dai raggi. E poi il basso rischio di effetti collaterali durante e dopo il trattamento, che si traduce in una più rapida ripresa psicofisica. Va aggiunto infine un vantaggio per la società oggi non più trascurabile: la sostenibilità economica, garantita dall’ottimo rapporto costo/efficacia”.

Il ruolo della prevenzione primaria e la posizione di Assidai

Se la terapia protonica potrebbe rappresentare una importante svolta nel trattamento di alcuni tumori, va comunque ricordata l’importanza della prevenzione primaria. Essa resta infatti il principale strumento a nostra disposizione per diminuire l’incidenza delle malattie croniche (tra cui proprio il cancro), che nei Paesi industrializzati sono la principale causa dei decessi e delle situazioni di non autosufficienza. Una posizione che è sempre stata sostenuta con assoluta convinzione da Assidai nelle proprie informative agli iscritti, in cui ribadisce sempre il ruolo cruciale di un’alimentazione equilibrata (che preveda adeguate porzioni giornaliere di frutta e verdura) e di stili di vita che evitino la sedentarietà, il consumo di alcolici e, nella maniera più assoluta, quello di tabacco. Altrettanto importante è poi la prevenzione secondaria che, attraverso screening e visite specialistiche, consente in alcuni casi di scoprire le malattie croniche in anticipo e dunque di poterle affrontare con maggiore probabilità di successo. Del resto, come sappiamo, patologie simili sono innanzitutto un dramma umano, per il malato e per le famiglie, ma anche un enorme spesa per lo Stato e prevenirle aiuta in misura significativa la sostenibilità dei conti del Servizio Sanitario Nazionale (SSN).

Effetti benefici contro le malattie croniche dalle mandorle

Una manciata di mandorle al giorno (circa 56 grammi) avrebbe effetti benefici sulla salute dell’intestino e del colon, andando a rafforzare il microbioma, ovvero la micro-popolazione batterica intestinale che fa funzionare il colon. Oltre a ciò, le mandorle aiuterebbero anche a sostenere il sistema immunitario. A sostenerlo è il nuovo studio realizzato dal King’s College di Londra, pubblicato sull’American Journal of Clinical Nutrition. In realtà, nel corso degli ultimi anni, numerose e autorevoli indagini effettuate su diversi database alimentari nazionali hanno suggerito con forza che i consumatori di mandorle, in generale, hanno una migliore qualità della dieta. Questo si riflette in una maggiore assunzione di nutrienti come fibre, grassi insaturi, vitamina E, folati e altro, con un consumo inferiore di grassi saturi, zuccheri aggiunti e sodio. Non solo: alcune ricerche suggeriscono anche associazioni inverse fra il consumo di mandorle, fumo e sovrappeso. Una corretta alimentazione, come ricorda sempre Assidai nelle campagne di informazione dedicate ai propri iscritti, è uno dei pilastri della prevenzione primaria, fondamentale per diminuire i rischi di incidenza delle malattie croniche (patologie cardiocircolatorie, tumori e diabete).

I risultati dello studio: la chiave è il “butirrato”

Come è stato svolto esattamente lo studio dagli esperti del King’s College di Londra? Sono state reclutate 87 persone in salute con un’età compresa tra 18 e i 45 anni, tutte sostanzialmente “virtuose” dal punto di vista alimentare, visto che hanno dichiarato di avere l’abitudine di fare due spuntini giornalieri e di non seguire una dieta ricca di grassi. I volontari sono stati divisi in tre gruppi. Nell’arco di 4 settimane il primo gruppo doveva sostituire entrambi gli spuntini giornalieri, ogni volta con 28 grammi di mandorle intere (per un totale di 56 grammi al giorno, la famosa “manciata”). Il secondo gruppo aveva le stesse indicazioni con una sola differenza: le mandorle dovevano essere macinate e non intere. Infine, l’ultimo gruppo al posto delle mandorle consumava come spuntino un muffin equivalente come energia (cioè calorie). I risultati? I ricercatori hanno scoperto che chi consumava mandorle presentava livelli significativamente più elevati di butirrato, un acido grasso a catena corta dovuto alla fermentazione delle fibre delle mandorle nel colon, rispetto al gruppo di controllo del muffin. Un elemento cruciale: proprio il butirrato è importante per la salute dell’intestino, poiché funge da fonte primaria di carburante per le cellule del colon, consentendo loro di funzionare in modo ottimale. Non solo: può entrare nel flusso sanguigno dove è coinvolto nella regolazione della salute in altre aree del corpo, come fegato, cervello e polmoni. Infine, sempre il butirrato è importante perché forma una sorta di barriera nelle pareti intestinali, impedendo il pericoloso passaggio nel sangue da parte di microrganismi come i microbi: per questo viene anche considerato antinfiammatorio e protettivo nei confronti della colite (sindrome dell’intestino irritabile) e in grado di ridurre disturbi gastrointestinali come il gonfiore.

Un’ulteriore risultanza dello studio riguarda le differenze emerse se le mandorle fossero state mangiate intere o macinate: i volontari del primo gruppo hanno mostrato più movimenti intestinali dell’altro. L’ipotesi? Quando si consumano le mandorle intere, gran parte del loro grasso, a causa di una masticazione non prolungata, sfugge alla digestione e raggiunge di più il colon, facilitando il transito intestinale. 

Gli effetti benefici contro le malattie croniche

Come detto, le mandorle, secondo alcuni autorevoli studi, hanno effetti positivi anche su altre parti e altri meccanismi del nostro organismo. La dieta, per esempio, è fondamentale nella gestione del rischio cardiovascolare e oltre vent’anni di ricerca supportano il ruolo delle mandorle nell’aiutare a mantenere un cuore sano. Infatti, secondo la Food and Drug Administration le prove scientifiche suggeriscono, ma non dimostrano, che mangiare circa 42 grammi di mandorle come parte di una dieta povera di grassi saturi e colesterolo può ridurre il rischio di malattie cardiache.

I cambiamenti nell’alimentazione sono spesso i primi e più efficaci passi da fare per ridurre il rischio di malattia cardiovascolare, e le ricerche suggeriscono che mangiare mandorle può aiutare a mantenere un cuore e dei livelli di colesterolo sani. Gli studi su gruppi diversi geneticamente e su persone con diversi Body Mass Index (un indicatore che tiene conto di peso e altezza) mostrano una riduzione del colesterolo totale e Ldl (il colesterolo “cattivo”) e un mantenimento del colesterolo Hdl (quello “buono”). In studi più recenti, altri fattori di rischio di malattia coronarica, infiammazione e grasso addominale sono migliorati con il consumo di mandorle come parte di una dieta sana per il cuore.

Infine, nonostante la densità energetica relativamente alta, le mandorle quando assunte come parte di una dieta sana, non provocano aumento del peso e possono avere persino effetti benefici sulla composizione corporea, specialmente in adulti sovrappeso o obesi. Molti meccanismi spiegano le associazioni positive fra le mandorle e la frutta secca e il bilancio energetico e il peso corporeo, inclusi il loro potere saziante, la disponibilità di calorie incomplete e un possibile miglioramento della spesa energetica a riposo. 

La flora batterica intestinale può aiutare a prevenire il diabete?

La flora batterica intestinale, anche detta microbiota, può aiutare a prevenire alcune malattie autoimmuni, tra cui il diabete di tipo 1? Rispondere a questa domanda è il principale obiettivo di un nuovo studio recentemente finanziato dal Ministero della Salute e condotto dal gruppo di ricerca diretto dalla Dottoressa Marika Falcone presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. Il progetto si svolge in collaborazione con le Unità cliniche di Diabetologia, Pediatria e Gastroenterologia dell’Ospedale stesso. Il gruppo di ricerca Patogenesi Autoimmune, guidato proprio da Marika Falcone, analizza già da molti anni il ruolo che l’ambiente intestinale e il microbiota giocano nelle malattie autoimmuni extra-intestinali. Nel 2019, in uno studio pubblicato sulla rivista scientifica statunitense “Proceedings of the National Academy of Sciences”, organo ufficiale della United States National Academy of Sciences, i ricercatori sono stati peraltro tra i primi a rivelare un nesso causale tra infiammazione intestinale, alterazioni del microbiota e sviluppo del diabete, ma tale risultato è stato finora limitato a modelli sperimentali della malattia. Di qui la decisione di approfondire ulteriormente la questione con nuove e più approfondite analisi direttamente sull’uomo.

Il ruolo della flora batterica

Per spiegare meglio tutto ciò bisogna partire da un presupposto: il ruolo cruciale giocato dalla flora batterica intestinale. Quest’ultima, infatti, è composta da milioni di batteri, virus e funghi che vivono nel nostro intestino e – come sottolinea l’Ospedale San Raffaele sul proprio sito – sono fondamentali per un buon funzionamento del nostro organismo: regolano infatti diverse funzioni metaboliche, lo sviluppo del sistema nervoso e controllano il sistema immunitario. Negli ultimi anni, si è inoltre scoperto come il microbiota sia in grado di modulare alcuni nostri meccanismi di difesa, ad esempio, nel corso di infezioni e contro i tumori. In quest’ottica, è stata formulata l’ipotesi che il microbiota possa rivelarsi un fattore fondamentale anche nella prevenzione delle malattie autoimmuni, ovvero di quelle patologie in cui, per cause ancora sconosciute, il sistema immunitario attacca alcuni componenti del nostro stesso organismo, come le isole pancreatiche produttrici di insulina nel caso del diabete di tipo 1 o diabete autoimmune.

Come detto, già negli anni scorsi i ricercatori hanno dimostrato che in condizioni di infiammazione intestinale, come quella indotta da una dieta ricca di grassi o da alterazioni del microbiota, si assiste all’attivazione di cellule del sistema immunitario che dall’intestino migrano nel pancreas dove distruggono le cellule produttrici di insulina, provocando quindi il diabete. “A giocare un ruolo chiave nell’innescare questa risposta autoimmune verso le cellule pancreatiche sembra proprio essere il microbiota che, quando la barriera intestinale è compromessa da uno stato infiammatorio, entra in contatto diretto con il sistema immunitario alterandone le funzioni”, ha spiegato la Dottoressa Falcone.

Lo studio del San Raffaele: tecniche e obiettivi

Ora l’obiettivo dell’equipe del San Raffaele è dunque dimostrare l’esistenza di un rapporto causa-effetto, nell’organismo umano, tra composizione del microbiota, infiammazione intestinale e insorgenza di diabete autoimmune. Lo studio avverrà, come spesso accade, confrontando soggetti diabete di tipo 1 e individui sani mentre il prelievo di tessuto intestinale verrà effettuato di routine presso l’Unità di Gastroenterologia dell’Ospedale nell’ambito di indagini diagnostiche, per esempio, per la diagnosi di malattia celiaca, gastrite atopica e altri disturbi gastrointestinali e non comporta alcun rischio per i pazienti. “Il contributo di tutti, sia di soggetti affetti da diabete di tipo 1, sia di soggetti sani, che si rivolgono al nostro ospedale per effettuare una gastroscopia a scopo diagnostico, sarà essenziale per capire il ruolo del microbiota nello sviluppo del diabete di tipo 1 e aprirà la strada a nuove terapie volte a modificare l’ambiente intestinale per prevenire la malattia o migliorarne il decorso in pazienti diabetici”, è la conclusione di Marika Falcone.

Il diabete di tipo 1, Assidai e la prevenzione

Nel caso raggiungesse risultati positivi, la ricerca dell’ospedale San Raffaele consentirebbe di aggiungere un importante tassello al mosaico della prevenzione contro le malattie croniche, di cui il diabete fa parte. Quello di tipo 1 è una forma che si manifesta prevalentemente nel periodo dell’infanzia e nell’adolescenza, anche se non sono rari i casi di insorgenza nell’età adulta. Esso, come detto, rientra nella categoria delle malattie autoimmuni perché è causato dalla produzione di autoanticorpi (anticorpi che distruggono tessuti e organi propri non riconoscendoli come appartenenti al corpo ma come organi esterni) che attaccano le cellule del pancreas deputate alla produzione di insulina. La conseguenza è la forte riduzione della produzione di questo ormone il cui compito è quello di regolare l’utilizzo del glucosio da parte delle cellule.

La prevenzione è l’elemento fondamentale per la lotta alle cronicità. È questa una ferma convinzione di Assidai. Per due motivi: sia per tutelare la salute di tutti noi sia per contribuire alla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e delle sue caratteristiche, uniche al mondo, di universalità ed equità. Per questo, il nostro Fondo si impegna in una costante attività di informazione verso tutti i propri stakeholder – in primis gli iscritti – su questi temi, in modo che possano adottare i comportamenti più virtuosi possibili in base alle nuove frontiere tracciate dalla scienza.

 

Welfare aziendale – Fringe benefit, la soglia esentasse sale a 600 euro

Torniamo a occuparci di un tema molto importante in termini di welfare aziendale: i cosiddetti “fringe benefit”, la cui soglia di esenzione fiscale è stata innalzata a 600 euro grazie alle Legge n. 142 dello scorso settembre, “ammettendo” nel suo perimetro anche il pagamento delle utenze domestiche di luce, gas e acqua. Un dettaglio, quest’ultimo, non certo marginale, in un momento in cui il caro energia – con l’esplosione delle bollette – è tra le principali preoccupazioni del Paese. Si tratta, più in generale, di un provvedimento cruciale in ottica di sistema. I fringe benefit rappresentano, infatti, una voce addizionale alla retribuzione corrisposta da un’impresa ai propri dipendenti: un compenso “in natura”, che figura comunque in busta paga, come l’auto aziendale, i buoni pasto, lo smartphone e il pc portatile. Lato azienda si tratta di somme interamente deducibili, che riducono quindi l’imponibile fiscale dell’impresa. Dal punto di vista del dipendente sono somme non soggette a contribuzione né a prelievo fiscale. Nei limiti, ovviamente, stabiliti dal Governo che sono appunto saliti a 600 euro.

Fringe benefit e fisco dal 2020 ad oggi

A questo punto è tuttavia necessario un quadro riassuntivo delle norme emanate negli ultimi anni. Fino al 2020 per i fringe benefit era prevista una soglia di esenzione fiscale (il valore di beni e servizi che non concorre al reddito imponibile né ai contributi) di 258,23 euro, mentre con il Decreto Agosto dell’estate 2020, approntato per supportare il Paese nell’emergenza Covid, il limite fu raddoppiato a 516,46 euro. L’anno scorso il Governo ha in sostanza confermato il robusto aumento della quota esentasse, anche per il 2021, con il via libera al Decreto Sostegni. Infine, il decreto Aiuti-Bis, convertito il 21 settembre scorso nella Legge n. 142, ha modificato il limite di detassazione fiscale e contributivo dei fringe benefit a favore dei lavoratori dipendenti, innalzando la soglia a 600 euro, con la specifica che rientrano nell’agevolazione anche le somme erogate o rimborsate dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale.
Altro aspetto importante: il beneficio dei 600 euro è valido fino al 31 dicembre 2022 e può essere cumulato col “bonus benzina”. Il datore di lavoro potrà, pertanto, riconoscere ad ogni singolo dipendente una soglia di esenzione di 800 euro, di cui 600 legati al decreto Aiuti-bis e 200 di bonus benzina. In entrambi i casi, va precisato, si tratta di liberalità e non si configura dunque nessun obbligo di erogazione per il datore di lavoro.
In ogni caso la Legge 142 rappresenta un ulteriore passo in avanti nell’espansione di un settore, quello del welfare aziendale, che negli ultimi anni è cresciuto molto, anche perché ha dimostrato la propria forza e le proprie potenzialità in termini di soddisfazione del dipendente e di produttività dello stesso, a tutto vantaggio anche dell’azienda. A questo proposito, va ricordato che dal 2016 il Governo ha progressivamente introdotto una serie di incentivi, soprattutto di carattere fiscale, per favorire la diffusione del welfare aziendale con risultati ormai decisamente rilevanti se si pensa che ormai più di un’azienda su due lo prevede per i propri dipendenti.

Assidai e il welfare aziendale

Dal canto suo, anche Assidai, proprio per la sua mission, ritiene che il benessere personale e un corretto bilanciamento tra vita lavorativa e vita privata sono elementi positivi per i manager e i dipendenti in generale, perché accrescono il benessere organizzativo generale all’interno di un’azienda e il livello di energia e motivazione dei singoli. Numerose indagini in materia hanno peraltro dimostrato come l’assistenza sanitaria sia uno tra i benefit più richiesti a livello di welfare aziendale. Per questo Assidai ha specifici Piani Sanitari riservati alle imprese che consentono ai decision maker di attrarre e trattenere talenti all’interno delle realtà aziendali. In particolare, ci preme sottolineare che le aziende industriali oggi hanno una nuova grande opportunità: aderire al Prodotto Unico Fasi-Assidai, una copertura integrativa che garantisce ai dirigenti in servizio un’assistenza sanitaria completa. Infatti, attraverso il Prodotto Unico Fasi-Assidai essi potranno godere dell’incremento economico quasi totale delle prestazioni previste dal Nomenclatore Tariffario del Fasi stesso oltre a godere di vantaggi notevoli in termini di network di strutture di assistenza sanitaria eccellenti sul territorio e di semplificazione dei processi di invio delle richieste di rimborso in un unico click.

Un biosensore portatile per scoprire subito il morbillo

Un biosensore portatile, veloce e di alta sensibilità in grado di rilevare il virus del morbillo nella saliva umana: un test rapido potenzialmente applicabile, in futuro, anche ad altri virus. A realizzarlo, dopo una approfondita fase di sviluppo e di collaborazione, è stato un pool di eccellenze composto dall’Istituto nanoscienze del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa (Cnr-Nano), da Archa srl, dal Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia dell’’Università di Pisa, dalla Scuola Normale Superiore di Pisa e da Inta srl. Il dispositivo, che utilizza una tecnologia innovativa basata su onde acustiche di superficie, si presta a essere usato per test diagnosi precoci e in situazioni di emergenza, per il morbillo e per altri tipi di virus. La ricerca, pubblicata sulla rivista Advanced Functional Materials, presenta in sostanza un nuovo modo per rilevare una delle malattie a trasmissione aerea più infettive, appunto il morbillo, responsabile di ancora troppi decessi in tutto il mondo ogni anno e con una diffusività simile a quella della variante Omicron SARS-CoV-2.

Il funzionamento del biosensore

Come funziona esattamente il biosensore messo a punto dai ricercatori? Si tratta di un “lab-on-a-chip” (letteralmente un laboratorio su un chip) più piccolo di un centesimo di euro che usa onde acustiche di superficie per rilevare virus in un campione di fluido salivare. Nel dettaglio, spiega Marco Cecchini, coordinatore di Cnr-Nano, “le onde acustiche di superficie sono una sorta di micro-terremoto che si propaga lungo la superficie del sensore: quando il virus si attacca al sensore, rallenta la velocità di propagazione delle onde, rendendo possibile registrare la presenza della molecola. Abbiamo sfruttato queste onde meccaniche sia per mescolare il campione di fluido che per rivelare il virus e ciò ha permesso di migliorare drasticamente la sensibilità dei nostri sensori rispetto ad altri sensori acustici già presenti sul mercato”. Il ceppo utilizzato per i test di efficacia di questo sensore è quello già usato per lo sviluppo dei vaccini. Il virus è stato quindi aggiunto nella saliva di un donatore sano, precedentemente testata per assicurarsi che non contenesse già tracce virali. Parte della saliva è stata conservata invece come controllo. Come detto, il liquido è stato quindi analizzato con il biosensore che si è comportato bene: il legame tra il virus e il sensore determina infatti un cambiamento di densità di superficie che, a sua volta, modifica la velocità di propagazione di un’onda sonora.

Il possibile utilizzo del test per scoprire altri virus

È chiaro che tutto ciò apre nuove frontiere sul fronte della diagnosi delle patologie infettive. “La tecnologia può essere adattata ad altre tipologie di virus, ad esempio il Sars-Cov-2, e a batteri, proteine e acidi nucleici”, ha aggiunto infatti il ricercatore Cnr-Nano. Senza contare che l’apparecchio potrà essere sviluppato per eseguire diagnosi precoci di tipo point-of-care, ovvero in prossimità del paziente. “Mentre i test convenzionali richiedono l’elaborazione del campione, laboratori dedicati e personale specializzato, questo sensore non richiede particolare elaborazione e può essere impiegato in situazioni dove i test convenzionali non sono praticabili come aeroporti, stazioni, situazioni di emergenza”, ha sottolineato Mauro Pistello, professore ordinario del Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia dell’Università di Pisa e Direttore della Unità Operativa Virologia della Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana. Del resto, ha osservato, “una diagnosi tempestiva è infatti cruciale per ostacolare precocemente la diffusione di malattie ad alta trasmissione aerogena come morbillo, influenza e COVID-19″.

I numeri del morbillo

Perché il sensore è stato pensato proprio per diagnosticare il morbillo? Perché si tratta di una patologia che ancora oggi interessa circa 20 milioni di persone l’anno, soprattutto nei Paesi dell’Africa e dell’Asia, causando ancora troppi decessi: nel 2019 sono stati oltre 200mila. Inoltre, data la sua presenza in Paesi a basso reddito pro-capite, dove anche le analisi di laboratorio possono essere difficili da ottenere, un biosensore da utilizzare al letto del paziente potrebbe essere una soluzione utile, in particolare per individuare i casi prima che diano il via a delle epidemie.
Il morbillo, va ricordato, è una malattia virale altamente contagiosa a trasmissione respiratoria che colpisce prevalentemente i bambini tra 1 e 3 anni ed è una delle principali cause di mortalità infantile nei Paesi in via di sviluppo. Il numero di casi globali è in riduzione ma è ancora una malattia estremamente comune in molti paesi dei continenti africano e asiatico, nonostante l’esistenza di un vaccino efficace e sicuro, che costa poche decine di centesimi di euro. Persone con deficit del Sistema immunitario, come bambini malnutriti sotto i 5 anni o pazienti sieropositivi per HIV, sono particolarmente esposti a sviluppare forme gravi e letali dell’infezione. In assenza di cura la mortalità può arrivare anche al 20%.

Assidai e la prevenzione secondaria

Scoprire invece una patologia “in anticipo”, o comunque allo stadio iniziale, consente di affrontarla nel modo giusto e con maggiore efficacia. È anche questo l’obiettivo del biosensore portatile messo a punto dai ricercatori, che come detto potrebbe essere applicato anche ad altri virus in futuro. Ed è questo, più in generale, lo spirito della cosiddetta “prevenzione secondaria”, cioè le attività e gli interventi finalizzati a una diagnosi precoce delle malattie, quando sono ancora in una fase asintomatica con l’obiettivo di arrivare a un intervento terapeutico tempestivo, che permette migliori esiti clinici, in termini di guarigione o di riduzione della progressione della malattia. Assidai, da sempre, è un convinto sostenitore della prevenzione primaria e secondaria, strumenti cruciali a disposizione di tutti noi per ridurre l’incidenza e le conseguenze nefaste delle malattie croniche, e cerca di tenere aggiornati i propri iscritti su queste tematiche con campagne informative e divulgative ad hoc.

L’inquinamento dell’aria aumenta il rischio di infarto

L’inquinamento dell’aria soffoca i vasi del cuore e può provocare l’infarto, anche in un cuore sano. Ad affermarlo è uno studio coordinato dai dottori Rocco Antonio Montone e Filippo Crea, cardiologi di Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS- Università Cattolica, campus di Roma, presentato recentemente al congresso della Società Europea di Cardiologia di Barcellona e pubblicato in contemporanea sul Journal of American College of Cardiology (la rivista ufficiale del cardiologi americani) In altre parole: l’inquinamento fa ammalare e può essere letale, non soltanto danneggiando i polmoni, ma anche il cuore e senza necessariamente passare per le placche di aterosclerosi. Esso, infatti, determina – sostengono i ricercatori – un’ischemia da spasmo delle coronarie che aumenta fino a 11 volte nei soggetti più pesantemente esposti all’inquinamento da particolato fine (il cosiddetto PM2.5), causato soprattutto dal traffico veicolare. Tecnicamente, lo spasmo delle coronarie “taglia” il flusso di sangue al miocardio, determinando un infarto, cioè la morte del muscolo cardiaco, da “strozzamento” dei vasi. Per PM2.5 (particolato fine) si intendono invece, nel dettaglio, particelle di dimensioni infinitamente piccole che derivano da tutti i tipi di combustione (motori di automobili, impianti per la produzione di energia, combustione di legna per il riscaldamento domestico, incendi boschivi e vari processi industriali).

Numeri, tecniche e risultati della ricerca sull’inquinamento

Come è stata realizzata esattamente la ricerca? Sono stati esaminati 87 pazienti di entrambi i sessi, di età media di 62 anni: il 56% di loro era affetto da ischemia miocardica cronica in presenza di coronarie “sane” mentre il 44% aveva addirittura avuto un infarto a coronarie sane. La loro esposizione all’aria inquinata è stata determinata in base all’indirizzo di domicilio. Tutti sono stati sottoposti a coronarografia, nel corso della quale è stato effettuato un test provocativo all’acetilcolina. Il test è risultato positivo (cioè l’acetilcolina ha provocato uno spasmo delle coronarie) nel 61% dei pazienti. Aspetto cruciale: la positività del test è risultata molto più frequente tra i soggetti esposti all’aria inquinata, in particolare se sono anche fumatori e dislipidemici (la dislipidemia è la presenza anomala di lipidi nel sangue, causata da uno stile di vita sedentario con eccessiva assunzione dietetica di calorie, grassi saturi, colesterolo, e grassi).

 

L’impatto dell’inquinamento sul cuore

“Questo studio dimostra per la prima volta – ha sottolineato il dottor Montone — un’associazione tra esposizione di lunga durata all’aria inquinata e comparsa di disturbi vasomotori delle coronarie, suggerendo così un possibile ruolo dell’inquinamento sulla comparsa di infarti a coronarie sane; in particolare, l’inquinamento da particolato fine (PM2.5) nel nostro studio è risultato correlato allo spasmo delle grandi arterie coronariche”. Gli spasmi del cuore, secondo i ricercatori, potrebbero essere dovuti al fatto che l’esposizione di lunga durata all’aria inquinata determina uno stato di infiammazione cronica dei vasi, con conseguente disfunzione dell’endotelio, cioè lo strato di rivestimento della parete interna dei vasi. “Alla luce dei risultati di questo lavoro – ha fatto notare il professor Filippo Crea, Ordinario di Malattie dell’apparato cardiovascolare all’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Roma e Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Cardiologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS – limitare l’esposizione all’inquinamento ambientale, possibilmente riducendone le emissioni, potrebbe abbassare il rischio residuo di futuri eventi cardiovascolari correlati alla cardiopatia ischemica, sia su base aterosclerotica, che da spasmo delle coronarie. L’uso di purificatori di aria in casa e l’utilizzo delle mascherine facciali quando ci si trova immersi nel traffico delle grandi città potrebbe dunque già essere consigliato ai soggetti a rischio, in attesa di studi che ne valutino il reale impatto sulla riduzione del rischio. E naturalmente ribadiamo il divieto di fumo e la necessità di uno stretto controllo dei fattori di rischio per tutti, ma ancora di più a chi è esposto all’inquinamento, come chi vive in una grande città”.

 

La conferma dai ricercatori di Berlino

Tutto ciò è dimostrato da un altro studio, anch’esso presentato al Congresso della Società Europea di Cardiologia a Barcellona. Un gruppo di ricercatori tedeschi dell’ospedale Berlin Brandenburg Myocardial Infarction Registry ha incrociato i dati relativi a quasi 18mila infarti verificatisi tra il 2008 e il 2014 con quelli relativi alle condizioni atmosferiche come la temperatura giornaliera e i livelli di particolato atmosferico e ossido nitrico. Dalle analisi, corrette da eventuali fattori confondenti, è emerso che gli infarti sono risultati più frequenti nelle giornate con i maggiori livelli di ossido nitrico e nel giorno seguente ad almeno tre giornate continuative in cui si è verificato un innalzamento dei livelli di PM. Relativamente alle condizioni ambientali, si è registrato un aumento nel numero di infarti nelle giornate con temperature più fredde. Risultati che messi insieme indicano, seppur indirettamente, l’effetto dannoso dell’inquinamento sul sistema cardiovascolare.

 

L’importanza della prevenzione primaria

Come sottolineato dai ricercatori del Gemelli e dell’Università Cattolica, i risultati di questi studi fanno emergere, con enfasi ancora superiore, la necessità di praticare una prevenzione primaria all’altezza, a maggior ragione se si vive in grandi città esposte inevitabilmente all’inquinamento dell’aria. Abitudini e stili di vita sani, cioè un’alimentazione equilibrata e ricca di fibre, lo stop a qualsiasi uso di tabacco, un consumo moderato di alcol e un’attività fisica regolare sono gli strumenti principali a nostra disposizione per evitare l’insorgere delle malattie croniche (cardiovascolari, tumori, diabete) che sono la principale causa di decesso nei Paesi occidentali.
La parola d’ordine, di cui Assidai come Fondo di assistenza sanitaria si è sempre fatto portatore presso i propri iscritti (manager, quadri, consulenti e le loro famiglie) con costanti campagne informative e divulgative, è ridurre al minimo i fattori di rischio, insiti invece negli stili di vita sedentari e che prestano scarsa attenzione alla varietà dell’alimentazione.

Più potassio per un cuore in salute

Consumare alimenti ricchi di potassio, come banane, avocado e salmone, per ridurre la pressione sanguigna, e dunque i danni al cuore, contrastando al tempo stesso gli effetti negativi del sale nella dieta, in particolare nelle donne che ne consumano elevate quantità. È questa la strada tracciata da uno studio pubblicato sull’European Heart Journal, rivista della Società Europea di Cardiologia (associazione indipendente e non governativa che lavora per promuovere la prevenzione, la diagnosi e la gestione delle malattie del cuore), e coordinato dal professor Liffert Vogt dell’Amsterdam University Medical Centers. La tesi, dimostrata attraverso un’approfondita analisi empirica, è molto chiara: quando si consumano regolarmente alimenti ricchi in potassio le diete sono risultate associate ad una pressione media più bassa, con un impatto particolarmente significativo nelle donne con un’elevata assunzione di sale. Quest’ultima, come noto, aumenta il rischio di infarto e di ictus. Tuttavia, non sempre è possibile seguire i consigli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che suggerisce di non consumare più di 5 grammi di sale al giorno. La nostra dieta, infatti, a causa della vita frenetica e dei numerosi pasti consumati in velocità o fuori casa, comprende alimenti trasformati, ricchi appunto di sale. Il potassio – è la tesi dello studio – aiuta dunque l’organismo a espellere più sodio nelle urine e funziona da “antagonista” agli effetti negativi del nostro principale condimento. 

I numeri della ricerca

Vediamo nel dettaglio come è stata condotta la ricerca pubblicata sullo European Heart Journal. Essa ha preso in esame 24.963 partecipanti, 11.267 uomini e 13.696 donne, di età compresa tra i 40 e i 79 anni, reclutati tra il 1993 e il 1997 presso gli ambulatori generali di Norfolk, nel Regno Unito. Ai partecipanti è stato chiesto di compilare un questionario riguardo le loro abitudini alimentari. Inoltre, è stata misurata la pressione sanguigna ed è stato raccolto un campione di urine. 

Il sodio e il potassio urinari sono stati utilizzati per stimare l’apporto dietetico, in base al quale i partecipanti stessi sono stati suddivisi in tre gruppi in base all’assunzione bassa, media o alta di sodio e di potassio. Il passo successivo dei ricercatori è stato poi quello di analizzare l’associazione tra assunzione di potassio e pressione sanguigna. 

I risultati?

All’aumentare dell’assunzione di potassio, la pressione sanguigna è diminuita. Quando, però, l’associazione è stata analizzata in base all’assunzione di sodio, la relazione tra potassio e pressione sanguigna è stata osservata solo nelle donne con un’elevata assunzione di sodio, dove ogni aumento di 1 grammo di potassio giornaliero è stato associato a una riduzione di 2,4 mmHg della pressione sanguigna sistolica. Negli uomini, invece, non è stata riscontrata alcuna associazione tra potassio e pressione sanguigna. 

Un altro elemento chiave è stato verificare il cosiddetto follow up a 20 anni di distanza. Circa il 55% dei partecipanti sono stati ricoverati in ospedale o sono deceduti a causa di malattie cardiovascolari. Tuttavia – aspetto fondamentale ai fini della ricerca – i soggetti con più alto consumo di potassio sono risultati avere un rischio di eventi cardiovascolari inferiore del 13% rispetto a chi invece ne assumeva in quantità esigue. Analizzando separatamente uomini e donne, le riduzioni del rischio di eventi cardiovascolari erano del 7% per gli uomini e dell’11% per le donne. I risultati dello studio suggeriscono insomma che il potassio aiuti a preservare la salute del cuore, in particolare per le donne rispetto agli uomini. Il tutto, va detto considerando che la quantità di sale assunto con la dieta non ha interagito nella relazione tra potassio ed eventi cardiovascolari negli uomini o nelle donne. Come a dire che il potassio protegge a prescindere da quanto sale si consumi.

Le raccomandazioni dell’Oms sul consumo di potassio

Tutto ciò si traduce in raccomandazioni dal punto di vista degli alimenti da consumare e della dieta da adottare. A tal proposito, ricorda la Fondazione Veronesi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità auspica che gli adulti consumino almeno 3,5 grammi di potassio e meno di 2 grammi di sodio (ovvero 5 grammi di sale, l’equivalente di un cucchiaino da the), al giorno. Gli alimenti ad alto contenuto di potassio includono verdura, frutta, noci, fagioli, prodotti caseari e pesce. Ad esempio, una banana media di 115 grammi contiene 375 mg di potassio, 154 grammi di salmone cotto ne contengono 780 mg, una patata di 136 grammi ne contiene 500 mg e una tazza di latte ne contiene 375 mg. Una dieta sana per il cuore va oltre la limitazione del sale, ma deve dunque tenere conto anche di un incremento del consumo di potassio, che invece laddove è inadeguato aumenta la probabilità di incorrere in malattie croniche, a partire da quelle cardiocircolatorie, che, come sappiamo, sono la principale causa di decesso a livello mondiale. 

Ancora troppo sale per gli italiani

Assidai, attraverso costanti informative agli iscritti, è da sempre impegnata sul fronte della prevenzione primaria, che tra i propri capisaldi ha una dieta equilibrata che si poggia sul consumo di alimenti freschi (verdura, frutta e legumi) e non lavorati, anche perché ricchi di potassio e poveri di sale. Proprio di recente Assidai ha anche elaborato un quadro sul consumo di sale in Italia e nel mondo (https://www.assidai.it/cosumo-sale/), che vede dati purtroppo ancora non soddisfacenti. A livello globale, infatti, esso è in media il doppio del valore raccomandato dall’Oms. In Italia nel periodo 2018-2019 è stato riscontrato, attraverso la raccolta delle urine delle 24 ore in campioni di popolazione di età 35-74 anni residenti in 10 Regioni, un consumo medio giornaliero di sale pari a 9,5 grammi negli uomini e 7,2 grammi nelle donne, risultando inferiore a 5 grammi solo nel 9% degli uomini e nel 23% delle donne. Valori in miglioramento rispetto a quelli riscontrati nel periodo 2008-2012 (10,8 grammi negli uomini e 8,3 grammi nelle donne, con un consumo inferiore a 5 grammi al dì nel 4% degli uomini e nel 15% delle donne), anche per merito delle varie campagne di prevenzione messe in atto in questi anni dal Ministero della Salute.

Sindrome Pasc, le possibili conseguenze cardiovascolari del Covid

Dolore al petto, palpitazioni, alterazioni del battito, stanchezza e difficoltà respiratorie. Non sono pochi gli strascichi del post Covid, ovvero che si prolungano anche nel periodo successivo alla negativizzazione del paziente. Tuttavia, questa specifica sintomatologia, diventata un problema per il 10-30% dei pazienti contagiati anche quattro o più mesi dopo la risoluzione dell’infezione, è stata ormai classificata dagli esperti con un vero e proprio nome: il Long Covid solo cardiovascolare viene definito Pasc (sequele post-acute del Covid).

Lo studio pubblicato dal Journal of the American College of Cardiology

Il problema non è di poco conto se si pensa che per gestire questi pazienti nel modo più opportuno l’American College of Cardiology, associazione medica senza scopo di lucro fondata nel 1949 che riunisce qualcosa come 49mila esperti, ha da poco pubblicato sul Journal of the American College of Cardiology, un documento di consenso che indica la strada da percorrere per affrontare il long Covid quando, come spesso accade, coinvolge cuore e vasi. Il documento potrebbe e dovrebbe diventare una vera e propria guida a livello globale, almeno secondo la Società Italiana di Cardiologia (Sic), che richiama l’attenzione sulla necessità di sottoporsi a un corretto iter diagnostico in presenza di sintomi cardiovascolari dopo il Covid e anche l’importanza di utilizzare l’attività fisica corretta come metodo efficace per tornare a stare bene.

La parola d’ordine? Non trascurare segni e sintomi cardiovascolari che compaiano e/o perdurino dopo 4 o più settimane dalla guarigione da Covid-19: il virus ha effetti negativi su cuore e vasi ed è essenziale individuare subito un’eventuale “sofferenza” cardiovascolare per poter intervenire al meglio.

Le due casistiche del Long Covid Pasc

Le parole di Ciro Indolfi, presidente Sic e Ordinario di Cardiologia all’Università Magna Graecia di Catanzaro, sono molto efficaci nel rappresentare la situazione: “Il long Covid a livello cardiovascolare viene ormai identificato come Pasc: sono così numerosi i casi di pazienti con un interessamento cardiovascolare dopo l’infezione acuta che si è definita una nuova malattia”. Ovvero, continua l’esperto, “si parla di Pasc-Cvd quando dopo i test diagnostici si individua una vera e propria patologia cardiovascolare, oppure di sindrome Pasc cardiovascolare quando invece gli esami diagnostici standard non hanno identificato una malattia cardiovascolare specifica ma sono presenti sintomi tipici come tachicardia, intolleranza all’esercizio, dolore toracico e mancanza di respiro”. In presenza di queste manifestazioni persistenti – aggiunge – si raccomanda comunque una valutazione cardiologica di base: va eseguita precocemente per determinare se, per questi pazienti, siano necessarie ulteriori indagini o terapia medica specifica.

Qual è in ogni caso la procedura da seguire?

Il nuovo documento di consenso statunitense raccomanda una valutazione cardiopolmonare di base eseguita in anticipo per determinare se siano necessarie ulteriori cure specialistiche e terapia medica per questi pazienti. In caso di sintomi l’approccio dovrebbe prevedere test di laboratorio di base, tra cui la troponina cardiaca, un elettrocardiogramma, un ecocardiogramma, un monitoraggio del ritmo ambulatoriale, imaging del torace e/o test di funzionalità polmonare.

Contromisure e cure

Accertata la patologia quali possono essere le possibili contromisure? “La consulenza cardiologica è raccomandata per i pazienti con Pasc e risultati anormali dei test cardiaci, in chi ha malattie cardiovascolari note con sintomi nuovi o in peggioramento, se il paziente ha avuto complicanze cardiache documentate durante l’infezione da Sars CoV-2 e/o sintomi cardiopolmonari persistenti che non sono spiegati altrimenti “, sottolinea Indolfi. In presenza invece della sindrome Pasc, in cui quindi non c’è una patologia cardiologica, ma solo sintomi come tachicardia, intolleranza all’esercizio fisico, ovvero una riduzione della capacità di allenamento rispetto a prima del contagio, si raccomanda inizialmente l’esercizio in posizione sdraiata o semi-sdraiata, come ciclismo, nuoto o canottaggio, per poi passare anche all’esercizio in posizione eretta man mano che migliora la capacità di stare in piedi senza affanno. Anche la durata dell’esercizio dovrebbe essere inizialmente breve (da 5 a 10 minuti al giorno), con aumenti graduali man mano che la capacità funzionale migliora. Inoltre, nella sindrome Pasc può essere utile anche l’assunzione di sale e liquidi, per ridurre i sintomi come tachicardia e palpitazioni, ovviamente prescritti dal medico. L’importante è continuare a svolgere attività fisica, seppur con gradualità e cautela: “purtroppo – conclude Indolfi – sembra esistere una spirale discendente nel long Covid: la fatica e la ridotta capacità di esercizio portano a una diminuzione dell’attività e del riposo a letto, che comportano a loro volta un peggioramento dei sintomi e una qualità di vita ridotta”. Insomma, un circolo vizioso che va spezzato assolutamente.

La conferma dalla Lombardia: boom di esami

A contribuire a indagare le possibili conseguenze del Covid sul cuore c’è anche uno studio condotto in Lombardia su quasi 50mila persone e pubblicato sul Journal of Internal Medicine. Un’indagine che ha rivelato come, in una delle Regioni più colpite in Europa dalla pandemia, circa il 10% di pazienti ospedalizzati a distanza di tempo sono stati costretti a un nuovo ricovero. Non solo: più in generale, le visite mediche sono raddoppiate rispetto al pre-pandemia mentre le spirometrie (l’esame più comune per valutare la funzionalità respiratoria) si sono moltiplicate di 50 volte nelle persone che erano state in terapia intensiva. Gli elettrocardiogrammi si sono più che quintuplicati nei pazienti curati nelle rianimazioni e sono oltre che raddoppiati in quelli ricoverati nei reparti non intensivi. Il trend è simile per le Tac del torace, cresciute di 32 volte nei dimessi dai reparti più critici e di 5,5 volte in quelli ricoverati nei reparti di normale degenza. Anche gli esami del sangue sono aumentati moltissimo, in tutti i gruppi, anche in chi il Covid l’ha gestito a domicilio. A testimonianza che le conseguenze di questo virus, anche dopo la negativizzazione, non vanno assolutamente sottovalutati.

Giornata Nazionale contro le leucemie e nuove speranze di cura

Lo scorso 21 giugno, l’AIL (Associazione italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma) ha organizzato, come ogni anno, la Giornata Nazionale per la lotta contro le leucemie-linfomi e mieloma. Nel corso dell’iniziativa sono stati presentati i progressi della ricerca in ematologia ed è stato lanciato un messaggio importante a tutti i pazienti e ai loro familiari. Purtroppo, infatti, ogni anno in Italia circa 5.800 persone ricevono la diagnosi di mieloma multiplo: una malattia che fino a un paio di decenni fa non aveva possibilità di cura, mentre oggi esistono molte terapie e, anche nei casi più difficili, si può parlare di cronicizzazione. Una considerazione che si può fare per molte altre patologie onco-ematologiche. Un ruolo chiave, in questo senso, lo ha giocato e lo gioca la ricerca: uno dei principali mezzi a nostra disposizione – come ricordato sempre da Assidai nelle proprie informative agli iscritti – insieme con la prevenzione primaria, cioè l’adozione di stili di vita saluti, per ridurre l’incidenza delle malattie croniche.

L’origine delle leucemie e le possibili cure

Che cosa è esattamente la leucemia?

L’associazione AIL la definisce come un tumore del sangue causato dalla proliferazione incontrollata di cellule staminali ematopoietiche, cioè cellule immature che sviluppandosi daranno poi vita a globuli bianchi, globuli rossi e piastrine. Le cellule staminali del sangue si trovano nel midollo osseo, presente negli adulti soprattutto nelle ossa piatte (come bacino, sterno, cranio, coste, vertebre, scapole). Le cellule staminali possono seguire due linee di sviluppo: mieloide o linfoide. In uno stato normale, le cellule della linea mieloide daranno origine a gran parte dei globuli bianchi (in particolare il tipo detto “neutrofili” e il tipo detto “monociti”), ai precursori di piastrine e globuli rossi, mentre le cellule della linea linfoide diventeranno un tipo di globuli bianchi detti “linfociti”.

In seguito a mutazioni genetiche e meccanismi complessi, non sempre ancor oggi del tutto chiariti, le cellule staminali possono interrompere precocemente il processo di maturazione, non riuscendo a portare alla formazione di cellule del sangue normali. Inoltre, la cellula immatura può acquisire la capacità di replicarsi senza limite e diventare resistente ai meccanismi di morte cellulare programmata. Se tutto ciò avviene, i “cloni” – copie identiche della cellula originale – potranno invadere il midollo e il sangue, e talvolta anche linfonodi, milza e fegato. Così ha origine una leucemia. La velocità di progressione della malattia è ovviamente un fattore chiave nell’ulteriore classificazione della stessa. Si differenziano così le forme acute (evoluzione con tempistiche brevi o brevissime, che presentano inoltre un blocco di maturazione delle cellule) dalle forme croniche (evoluzione più lenta, in cui viene comunque mantenuta la capacità di maturare dei precursori del midollo, sebbene essa possa essere anormale).

E le cure?

Dipendono moltissimo dal sottotipo di leucemia. Nelle leucemie acute esse mirano, in generale, all’eradicazione delle cellule immature anormali, o “blasti”, nel tentativo di evitare che questi prendano il sopravvento sulla popolazione cellulare normale. Nelle forme croniche il trattamento è generalmente meno intensivo, e mirato spesso a controllare la proliferazione cellulare. Ogni tipologia di leucemia viene trattata seguendo una specifica strategia terapeutica. Oggi, la ricerca ha permesso di fare importanti passi in avanti. Per esempio, con il trapianto di cellule staminali, che sono state le prime ad aprire la strada alle cosiddette “terapie intelligenti” mirate e personalizzate. Infine, c’è la terapia genica che si può utilizzare nei pazienti eleggibili con cellule CAR-T e non solo. Le CAR-T, va ricordato, sono un tipo di cellule del sistema immunitario, i linfociti T, prelevate da una persona con tumore e modificate geneticamente in laboratorio in modo da renderle capaci di attaccare il tumore una volta re-infuse nella stessa persona da cui sono state prelevate.

I numeri delle leucemie in Italia

Ecco alcuni numeri delle leucemie in Italia. Sono 8.600 i nuovi casi diagnosticati in Italia ogni anno, di cui 5.000 uomini e 3.600 donne. Inoltre – stando ai dati del Ministero della Salute – 1.400 sono i bambini, da pochi mesi a 12 anni, e oltre 800 sono gli adolescenti che, sempre ogni anno, nel nostro Paese si ammalano di cancro (linfomi o tumori solidi). Grazie proprio ai progressi della ricerca e alle nuove strategie terapeutiche, nel nostro Paese sono 44mila le persone che hanno avuto un tumore da bambini o da adolescenti e la cui età media è attualmente attorno ai 30 anni. La maggior parte è in buona salute e ha una vita uguale a quella dei coetanei. Altro dato confortante: il tasso di sopravvivenza alla leucemia linfoblastica acuta è del 90%. Si tratta della neoplasia più diffusa tra i bambini, seguita dai linfomi, dai tumori maligni del sistema nervoso centrale e dai sarcomi. Infine, il 4-5% delle nuove diagnosi di tumore nella popolazione occidentale riguardano i linfomi e i mielomi, ormai la quinta forma di neoplasia diagnosticata negli uomini e la sesta nelle donne. Tuttavia, il 70% dei pazienti con tumori del sangue oggi sono vivi dopo dieci anni dalla diagnosi o sono considerati guariti. Il linfoma Hodgkin (che colpisce il sistema linfatico) ha una percentuale di guarigione dell’80-90%, il non-Hodgkin aggressivo del 60-70%.

La visita al Presidente Mattarella

In occasione della Giornata Nazionale per la lotta contro leucemie, linfomi e mieloma – va infine ricordato – una delegazione dell’AIL è stata ricevuta in udienza al Quirinale, dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Al Capo dello Stato è stata evidenziata l’importanza per la comunità scientifica di innovare e fare rete a livello nazionale e internazionale, e il valore delle ragioni del vivere insieme attraverso collaborazione, scambio, altruismo, coraggio e capacità di guardare al futuro con sempre rinnovata energia per il bene della comunità. “Siamo riconoscenti al Capo dello Stato, Sergio Mattarella, per averci ricevuto ancora una volta e aver ascoltato i nostri risultati ma anche i nostri bisogni”, ha commentato Pino Toro, Presidente nazionale AIL.